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Obama, l’ammazzanonni

C’è un’America vecchia, bianca, ignorante, spaventata (e non di rado armata) che, nella vittoria di Obama, vede soltanto la fine del proprio mondo e dei propri valori. Per quest’America non esiste, oltre la dura (e per gli altri ovvia) realtà dei fatti , che un’unica verità: il paese è ormai nelle mani d’un governo “socialista” (o nazionalsocialista) pronto ad impadronirsi della tua libertà e della tua vita. Quest’America si è, nel corso dell’estate, fatta sentire – a insulti e grida – nei dibattiti sulla riforma sanitaria. Vediamo come….

7 giugno 2009

 

di Massimo Cavallini

 

Triste destino, quello dell’America progressista. Per decenni ha atteso – come prova d’un ormai consumata evoluzione multirazziale e multiculturale della democrazia americana – l’arrivo del primo presidente “non bianco”. Ed ora che, con l’elezione di Obama, questo sogno s’è finalmente avverato, le tocca scoprire come il nuovo e (ci si perdoni la variante berlusconiana)”abbronzato” inquilino della Casa Bianca sia, in realtà, un nazista. O, almeno, questo è quello che giorni fa – commentando con affettata amarezza le più recenti cronache politiche – ha sottolineato Jon Stewart, un comico di grande successo, durante il suo quotidiano show televisivo sul Comedy Channel. E questo, soprattutto, è quello che – da tempo e con molto aggressiva serietà – vanno sostenendo alcuni popolarissimi commentatori radiofonici e televisivi di fede conservatrice. Barack Hussein Obama è – oltre che un mussulmano di nome e di fatto – anche un nazionalsocialista (o, talora, soltanto un socialista; ma per la destra americana più esagitata, notoriamente, tra Hitler e, per dire, Olof Palme, non esistono che molto marginali differenze). Sicché, care ascoltatrici e cari ascoltatori, non dubitate: se, prossimamente, nel cuore della notte, qualcuno busserà perentoriamente alla vostra porta, quel qualcuno sarà, immancabilmente, un agente della Gestapo…Questo ripete ogni giorno, in prime time televisivo, per FoxNews, un esaltato predicatore di nome Glenn Beck, mentre dietro di lui scorrono immagini delle SS in marcia. E questo ripete, nel suo programma radiofonico – una sorta di messa quotidiana per l’America conservatrice – il corpulento Rush Limbaugh, da almeno due decenni instancabile demonizzatore di tutto quello che in America si trovi, anche solo di qualche millimetro, più a sinistra del guard-rail.
Ridicolo? Certamente. E proprio per questo Jon Stewart, accompagnato da molti emulatori, va da par suo sfruttando le invasate teorie di Beck, Limbaugh e compagni, per arricchire il suo repertorio di comedian televisivo impegnato a rifare il verso ai grandi media. Molto meno ridicolo è tuttavia osservare come queste buffonate siano, negli ultimi giorni, diventate parte integrante (e non di rado violenta) di molte delle “town halls” (riunioni di comunità o di quartiere) dedicate, lontano da Washington, alla discussione della riforma sanitaria. Insulti, risse, effigi di congressisti favorevoli alla riforma appese ad un cappio, ritratti di Obama in camicia bruna, accuse di tentato sterminio di nonni, nonne e disabili. Ed al di sopra di queste tumultuose sceneggiate, un grido: “We want our country back”, restituiteci il nostro paese. Quale paese? Che cosa vanno davvero cercando le persone che, tanto scompostamente, hanno in quest’ultimo weekend turbato la sacralità democratica – immortalata in uno dei più celebri dipinti di Norman Rockwell – delle “town hall”?

Per rispondere a questa domanda è bene partire dall’inizio. Anzi: dalla fine. Ovvero: dall’ultima delle accuse che quest’America oggi impegnata a reclamare la “restituzione” del “suo” paese ha rivolto al presidente, nel contempo sventolando la bandiera della difesa ad oltranza della nonna (“Obama lies, granma dies”, Obama mente, la nonna muore, recitavano molti dei cartelli esibiti nelle succitate “town hall”). Semplicemente: attraverso la sua riforma sanitaria (riforma che, peraltro, come vedremo, non è affatto “sua”) Barack Obama, si propone di eliminare fisicamente – lungo le linee, per l’appunto, d’un programma “eugenetico” di stampo nazista, o lungo quelle d’una sinistrorsa e sinistra passione per l’eutanasia – tutti gli esseri umani che, per la loro intrinseca debolezza, sono di peso alla società. Nella sua pagina di Facebook, la ben nota Sarah Palin, ex governatore dell’Alaska e candidata alla vicepresidenza con John McCain, ha di fatto rinfacciato ad Obama, di voler affidare ad un “Death panel”, una commissione della morte, il destino dei suoi anziani genitori e del suo ultimo figlio (affetto da sindrome Down, come ben sa chiunque, avendo seguito l’ultima convenzione repubblicana, ha avuto modo di assistere alla piuttosto cinica e continuata esibizione del bebé). Conclusione: la riforma in discussione, altro non è, per Sarah Palin, figlia e madre minacciata nei suoi più profondi affetti , che “plain evil”, pura malvagità.

L’accusa è – va da sé o, almeno, dovrebbe andare da sé – grossolanamente falsa. Nella riforma sanitaria di Obama – o, meglio, nei molti e confusi progetti di riforma oggi in discussione nel Congresso, – non v’è, ovviamente, traccia alcuna di questa commissione della morte. A meno di non voler considerare tale la proposta – peraltro avanzata da un repubblicano – di dare alle persone in fin di vita (gli anziani in particolare) la possibilità di scrivere un testamento biologico e di discutere con i medici curanti la via per evitare, in conformità con la volontà del malato, ogni forma di accanimento terapeutico. Ma è un fatto che, a dispetto di tanta ridicolaggine, l’isterica “difesa della nonna” è oggi diventata parte(magari irrisa, ma comunque parte) del dibattito politico; e, comunque, parte essenziale dell’opposizione ad una riforma che ancora non esiste, ma che già viene combattuta, da destra. come “plain evil”, una sorta di “male assoluto” che nega la stessa essenza dell’ “essere americani”. Non per caso, nelle ultime settimane, la battaglia contro la riforma sanitaria – una riforma sanitaria la cui stesura Barack Obama ha affidato al Congresso, per non ripetere l’errore che, nel ’93, affondò il tentativo di Hillary Clinton – è andata di pari passo con un’altra campagna, altrettanto ridicola nei suoi contenuti ed altrettanto presente nel dibattito politico: quella dei cosiddetti “Birthers”. Vale a dire: quella di coloro che negano la legittimità dell’elezione di Obama, in virtù del fatto che quest’ultimo sarebbe nato, non alle Hawaii (come testimoniato da un certificato di nascita da loro considerato contro ogni evidenza falso) , bensì in Kenia (secondo un certificato di nascita la cui grossolana falsità è già stata dimostrata).

Che cosa sta accadendo? Che cosa c’è dietro questa apparente follia? Nulla di nuovo. O, più esattamente, qualcosa che rivela come il nuovo (l’elezione di Obama) continui a convivere ed a combattere con il vecchio. Alla fine degli anni ’90, tre sociologi dell’università di Harvard – Alberto Alesina, Edward Gleaser e Bruce Sacerdote – avevano cercato di capire, attraverso una molto accurata inchiesta, le ragioni per le quali l’opinione pubblica americana rimaneva, in particolare nella sua maggioranza bianca, contraria ad ogni forma di welfare, anche laddove – com’è oggi il caso della riforma sanitaria – evidenti appaiono gli immediati vantaggi (o addirittura, l’impellente necessità) di nuove forme di assistenza sociale. E questa era stata, in estrema sintesi, la loro risposta: per razzismo. O, volendo metterla in termini un po’ più elaborati, per la percezione che ogni forma di assistenza pubblica fosse immancabilmente destinata a tradursi in un “iniquo” vantaggio per le minoranze razziali.

Quello che sta accadendo – l’isteria anti-Obama ed anti-riforma che in queste ore percorre le “town hall” – non è, in fondo, che il riemerge di quest’antica paura o, se si preferisce, di un’idea, d’un modo di sentire che il trionfo di Obama ha battuto, ma tutt’altro che cancellato. Anzi: che si è risvegliato incattivito proprio in quanto reduce da una storica sconfitta. Molti democratici hanno, ultimamente, censurato i più gravi tra gli episodi d’intolleranza attribuendoli a, per così dire, forze mercenarie. Vale a dire: a gruppi foraggiati dai grandi potentati – le assicurazioni e le grandi corporations farmaceutiche – contrarie alla riforma sanitaria. Ma si tratta soltanto d’una comoda scorciatoia. Le assicurazioni e “Big Pharma” – le cui truppe mercenarie si trovano da sempre, elette dal popolo dopo campagne milionarie, ben dentro il Congresso – non hanno alcun bisogno di queste periferiche scaramucce. No, quelli che vanno reclamando “our country back” sono parte d’un fenomeno genuino, autentico e, a suo modo, profondo. E la “loro” America, il paese che reclamano, altro non è che quell’America bianca che, da tempo, ha cominciato a morire.

Barack Obama – hanno scritto in molti lo scorso novembre – è il primo presidente post-razziale degli Stati Uniti d’America Verissimo. Ma molte “town hall” – e molte riforme – dovranno passare, prima che anche gli Stati Uniti d’America diventino tali.

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