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McNamara, la guerra e’ finita….

7 luglio 2009

Di Massimo Cavallini

 

Aveva 93 anni, Robert S. McNamara. Ma, in qualche misura, era ancora in luna di miele. E benché  a tutti gli effetti egli ancora restasse, nella collettiva memoria del mondo, un “uomo di guerra”,  il suo ultimo matrimonio – il secondo, appena quattro anni fa, dopo più d’un quarto di secolo di vedovanza – lo aveva voluto celebrare in uno dei luoghi che, al mondo, più s’identificano con la pace tra gli uomini: la basilica di San Francesco, ad Assisi. Chiamatela, se vi pare, un’ultima contraddizione. O, se preferite, l’ultimo “pentimento”, l’ultima scelta – di vita e, al tempo stesso, di morte – dell’uomo la cui storia personale e politica più s’identifica con il conflitto vietnamita e con le sue rovine. Quelle che tutti ricordano: i 58mila giovani americani morti tra il 1963 ed il 1975. E quelle – i due milioni di vietnamiti caduti – che in America, al contrario, tutti sembrano aver dimenticato. O che, più probabilmente – come lo stesso McNamara aveva di recente ammesso –  mai si sono davvero presi la briga di contare.

Robert Strange McNamara – Strange, come il cognome della madre, ed anche come il celebre dottor Strangelove (Stranamore) dell’indimenticabile film di Stanley Kubrick – è morto all’alba di lunedì nella sua casa di Washington. Ed a comunicarlo – senza precisare le cause del decesso – è stata proprio sua moglie Diana Masieri, l’italiana del Friuli (di vent’anni più giovane di lui) con la quale era convolato a giuste nel settembre del 2004. Con lui se ne va non solo, come si usa dire in questi casi, un “pezzo di storia”, ma uno di quei pezzi di storia che più sono rimasti incastonati – al punto da diventare “sindrome” – nella psiche americana. Un pezzo, a suo modo, unico. Ieri, nel lungo “coccodrillo” pubblicato in prima pagina dal New York Times, Tim Weiner rammentava come, fin dall’aprile del 1964, la guerra nel Vietnam fosse stata definita – prima da Wayne Morse, senatore democratico dell’Oregon e, poi, dall’intero paese – “the McNamara’s War”. E sottolineava come lo stesso McNamara non avesse esitato, fin da quel primo battesimo, a caricarsi sulle spalle tanto fardello. “Sono lieto che mi si identifichi con un conflitto che sono deciso a vincere”, aveva risposto allora. E mai, in questi ultimi 45 anni, ha rinnegato quella paternità. Mai. Neppure quando quella “guerra che era deciso a vincere” è diventata una guerra perduta o, meglio, la prima (e l’unica) guerra perduta dagli Stati Uniti d’America. Neppure quando la Storia ha suggerito, com’era giusto ed ovvio, una più equa distribuzione delle colpe. Robert McNamara, in fondo, non era mai stato presidente. E quella guerra – la “sua” guerra – era stata cominciata, proseguita ed indebitamente prolungata da altri. Da John Kennedy,che aveva mandato i primi “consiglieri” e, quindi, avvallato il colpo di Stato omicida contro Ngo Dinh Diem. Da Lyndon Johnson che aveva – ben oltre i consigli dello stesso McNamara – inseguito l’illusione di una vittoria che evitasse l’ “effetto-domino” d’una conquista comunista dell’Asia, aumentando fino ad oltre mezzo milione il contingente americano e scaricando sull’Indocina  tutta la terrificante (eppur inutile) potenza dei bombardieri. E, infine, da “Tricky Dicky” Richard Nixon che, nella vana speranza di rafforzare e salvare il regime fantoccio del Sud, aveva prolungato ad arte, per oltre cinque anni, le trattative di pace di Parigi.

Robert S. McNamara si è indubbiamente pentito. O meglio: nel 1995, a vent’anni esatti dalla conclusione del conflitto, quando le emozioni ed i clamori della cronaca s’erano, ormai, in parte sedati, ha pubblicamente ammesso (in un libro dal titolo “In Retrospect: the Tragedy and Lessons of Vietnam”) i propri errori e le proprie mancanze. Ma lo ha fatto con la stessa razionale freddezza con la quale , trent’anni prima, aveva programmato l’ “escalation” del conflitto, senza mai abbandonarsi al rituale  inevitabilmente ipocrita delle pubbliche scuse. ” Ha mai visitato – gli aveva chiesto una giornalista subito dopo la pubblicazione del libro – il monumento che, a Washington, celebra i caduti americani di quella guerra?”. “Sì – aveva risposto McNamara – l’ho fatto pochi giorni dopo la sua inaugurazione. Ma non dirò mai a nessuno quel che ho provato. I miei sentimenti non contano. Conta quello che ho fatto. Conta quello che avrei potuto fare e che non ho fatto. Conta quello che si può imparare da quello che ho fatto e da quello che non ho fatto…”.

E cos’era quello che Robert McNamara aveva fatto (o non fatto?). Quali erano stati i suoi errori? Nel suo libro, l’ex segretario alla Difesa di Kennedy e Johnson molto meticolosamente ne elenca 11. Per l’appunto: le “11 lezioni della guerra nel Vietnam”. Undici lezioni che, ridotte a loro volta all’osso, possono esser riassunte in questo modo: McNamara non aveva capito – così come non avevano capito i  suoi due boss – la natura del conflitto. Aveva sottovalutato la “forza del nazionalismo” ed interpretato come una sfida geopolitica universale – o come un momento centrale della Guerra Fredda – quello che, in realtà, era soltanto un processo di formazione d’uno stato nazionale. E di fronte a questa realtà incompresa – per ignoranza e per la cronica incapacità di “simpatizzare con il nemico”, ovvero, di comprendere le sue ragioni – tutte le cifre e tutte le statistiche, tutti i diagrammi e gli schemi, tutta la tecnologica perizia che McNamara aveva con sicumera illustrato durante i suoi famosi “briefings” ,non erano in effetti  stati che inutili orpelli, semplici esibizioni di falsa sapienza. Che la guerra fosse invincibile – e che i bombardamenti di Hanoi e lungo la “pista di Ho Chi Minh” servissero ad ammazzar gente, ma non a creare le premesse d’una vittoria – Robert McNamara già l’aveva capito nel 1966. Ma, incapace di convincere Lyndon Johnson – ossessionato dall’idea di diventare il “presidente che ha perso il Vietnam” – aveva continuato imperterrito il suo show, addirittura programmando una sorta di supertecnologia utopia: la “Maginot elettronica”, o “McNamara’s Maginot” che avrebbe per sempreseparato il Sud dal Nord  Vietnam. Fino al 1968, quando, dopo aver per l’ennesima volta ricordato a Johnson come una trattativa di pace fosse l’unica via d’uscita dal conflitto, McNamara si ritrovò d’acchito – senza aver ben capito, rammenta, se fosse stato licenziato o avesse dato le dimissioni – fuori da Pentagono ed alla guida della Banca Mondiale.

Era un “uomo di guerra” Robert Strange McNamara. Ma non era un guerriero. Nel senso che la guerra non era mai stata il suo mestiere. Lui era, per professione e per mentalità, un esperto in “analisi dei sistemi”. Ed era, soprattutto, un uomo dalla prodigiosa intelligenza o, per dirla con John Fitzgerald Kennedy, “la persona più intelligente che mai mi sia capitato d’incontrare”.  Nessuno, come lui, era capace di assorbire quantità impressionanti di dati ed informazioni, cifre e statistiche, estraendone il più intimo, essenziale significato. Nessuno era come lui – il giudizio è, questa volta, di Henry Ford – in grado di individuare il nocciolo, la semplicità dentro la complessità. Robert McNamara era davvero – come di lui scrisse, con sardonici intenti, David Halberstam, uno dei primi storici del Vietnam – “the best and brightest”, il migliore ed il più brillante. Lo era stato sempre. Da bambino e da ragazzo prodigio nelle scuole di San Francisco, dove era nato nel 1916, figlio di un piazzista di calzature. Da studente nell’università  di Berkeley, prima, e poi in quella di Harvard. Da “analista” della Ford Motor Co., capace di scalare in pochi anni tutte le posizioni nella corporation che aveva inventato la linea di montaggio, fino a raggiungere – appena due mesi prima d’esser chiamato al Pentagono da John Kennedy – la posizione di presidente (il primo non appartenente alla famiglia Ford). Ed anche durante la Seconda Guerra Mondiale, quando, “riformato” per via della forte miopia, era stato utilizzato negli uffici del comando del fronte giapponese come “number cruncher”. Nessuno  come il giovane McNamara era, in quegli uffici, capace di razionalizzare il flusso degli aerei  che, ogni notte, martellavano le città nipponiche. Come lui stesso, nel 2003, ha raccontato, nel documentario “The Fog of War”, che l’anno dopo sarebbe stato premiato con l’Oscar. Sottolineando, in particolare, un episodio. Era il gennaio del 1945. Ed una notte, mentre lui era, come sempre, impegnato a massimizzare il rapporto tra bombardieri e bombe, tempi di bombardamento e distanze dagli obiettivi, il generale Curtis E. May, comandante delle operazioni, lo fermò e gli disse: “Abbiamo dato fuoco ad almeno 100mila persone a Tokyo, uomini, donne e bambini. Abbiamo ammazzato almeno 900mila civili in tutto il Giappone. Se perdiamo, finiamo tutti di fronte ad un tribunale come criminali di guerra…”.

Nel ricordare quell’episodio, Robert McNamara pensava, evidentemente, a se stesso ed alla “sua” guerra. Quella che aveva perduto e che lo aveva portato – luogo dove ancora si trovava – di fronte al tribunale della Storia. È stato davvero un “criminale” Robert Strange McNamara? O non è vero, piuttosto, che tutti coloro che, con le armi o con i “numeri”, fanno una guerra sono, in diversa misura ma inequivocabilmente, dei criminali?

Di certo c’è questo. Robert McNamara, il “non guerriero” Robert McNamara, di guerre ne ha combattute molte. Ed anche lui, come il colonnello Aureliano Buendía del “Cento anni di solitudine” – parallelo, questo, molto forzato, ma affascinante – le ha, una dopo l’altra, perdute tutte. Sempre. Anche quando, come in Vietnam, ha, sulla carta, vinto tutte le battaglie. La prima guerra fu quella che – seguendo le indicazioni di John Kennedy la cui campagna presidenziale da “falco”  si basava proprio su un millantato “gap missilistico” tra Usa ed Unione Sovietica – dette il via alla cosiddetta “corsa agli armamenti” (i missili a testata nucleare multipla sono un’altro dei regali che McNamara ha fatto al mondo). La seconda fu quella che, cominciata con la Baia dei Porci e continuata con l’ “operazione Mongoose”, l ‘America di Kennedy ha condotto contro Fidel Castro. La terza – quella che gli è rimasta cucita addosso – è quella del Vietnam. E la quarta – la più sconosciuta ed a suo modo nobile, anche se anch’essa perduta – è quella “contro la povertà” che, sempre impugnando numeri, statistiche e diagrammi, McNamara ha condotto da presidente della Banca Mondiale, portando gli aiuti al Terzo mondo, dai 954 milioni di dollari del 1969, ai quasi 12 miliardi del 1980. Risultato: alla fine del suo mandato c’erano, nel mondo, il 20 per cento in più di poveri (e molti dei progetti da lui finanziati si erano tradotti in disastri ecologici).

Ed infine l’ultima guerra. Quella che, negli ultimi anni, McNamara ha condotto, non per assolversi o per scusarsi, ma per “spiegarsi” di fronte al mondo. Quella delle sue “11 lezioni”.  O forse 12. Perché chissà che proprio questo  Robert Strange McNamara abbia voluto dire al mondo scegliendo, nel crepuscolo della vita, di sposarsi  nella basilica di San Francesco, circondato dalla pace di Assisi: che la guerra, ogni guerra, non è, in fondo, che un orrida illusione. Una non razionalizzabile sconfitta, comunque comincino  e comunque  finiscano le cose. E qualunque cosa dicano i numeri.

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