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Si fa presto a dire primarie…

12 luglio 2009

 

Di Massimo Cavallini

 

La loro origine si perde, se non proprio nella proverbiale “notte dei tempi”, quantomeno nella penombra d’un sistema elettorale (quello degli Stati Uniti d’America) che non è mai riuscito a darsi – o non ha mai voluto darsi – una riconoscibile dimensione nazionale. Al punto che nessuno sembra oggi in grado di dire, con irrefutabile certezza, quando in effetti si sia tenuta, nel paese che le elezioni primarie ha inventato, la “prima delle primarie”.  Fu in Florida nel 1901? O nell’Anno del Signore 1903 in Wisconsin (lo Stato di Robert La Follette, che, delle primarie, è da molti considerato il vero padre putativo)? Di certo c’è questo. Alle origini d’un fenomeno diventato, nel tempo, parte integrale e preponderante del sistema elettorale americano, c’è una felice metafora (anch’essa attribuita a La Follette): quella delle “smoke filled backrooms”. Ovvero”: c’è la suggestiva immagine dei “retrobottega saturi di fumo” nei quali, ignorando la volontà della base (“the grass root”) ed in combutta con i “poteri forti”, i grandi boiardi dei partiti decidevano (e decidono tuttora, anche se il vizio del fumo è stato, da tempo,pubblicamente bandito) i nomi  dei candidati. Fu questo, infatti – “basta con le decisioni prese nelle “smoke filled backrooms” – lo slogan che, nei primi due decenni del XX secolo, scandì i tempi della battaglia “anti-apparato” condotta, in modo “trasversale”, ma con piuttosto sporadici successi, dal quel movimento progressista di cui il governatore (e poi senatore) del Wisconsin fu uno dei più insigni rappresentanti. Anche se, in realtà, non fu che dopo il 1968 – l’anno fatidico della rivolta studentesca e della offensiva del Têt, della morte di Martin Luther King e di Bob Kennedy, della storica Convention democratica di Chicago e della rivolta dei ghetti neri – che il sogno di La Follette (un sogno che molti ritengono essersi trasformato in incubo) divenne infine realtà.

Proviamo a riassumere. Durante la drammatica campagna elettorale del 1968 fu proprio un’elezione primaria – la tradizionale “prima delle primarie” che anche allora, come oggi, si teneva nel minuscolo Stato del New Hampshire – a determinare la  clamorosa rinuncia di Lyndon Johnson (la ragione: a testimonianza della crescente impopolarità della “sua” guerra, quella che, In Vietnam, vedeva impegnati sul campo più di mezzo milione di soldati americani, Johnson non aveva vinto che di misura – 49 per cento a 43, in quella che la stampa non esitò a battezzare una “umiliante vittoria” – il candidato pacifista Eugene McCarthy). Ma, a dispetto di questi sconvolgenti effetti iniziali, non erano allora, in effetti, che 17 gli Stati dell’Unione nei quali si tenevano elezioni primarie. Ed in solo quattro casi quelle elezioni erano “binding”, vincolanti. Ossia:  solo i delegati di quattro dei 50 Stati – e solo sul versante del partito democratico – erano in realtà obbligati, giunti alla Convenzione, a votare per il candidato nel cui nome erano stati eletti. Insomma: le primarie, quando esistevano, altro ancora non erano, a conti fatti, che uno “sideshow”, una pittoresca ma pressoché ininfluente rappresentazione di democrazia. Ed a farla da padrone, in un paese scosso da storici fermenti, erano ancora per l’appunto – oltre i cerimoniali delle Conventions e nei cosiddetti “caucuses” – i vecchi retrobottega saturi di fumo.

Poi le cose cambiarono. E cambiarono al punto che quattro anni dopo, nel 1972, furono ben più della maggioranza (31) gli Stati nei quali si tennero elezioni primarie. Perché questo balzo in avanti? Ancora una volta: per il fumo. Non, in questo caso, quello delle sigarette che s’addensa nelle segrete stanze dove si prendono le decisioni contano, bensì quello dei lacrimogeni che, quattro anni prima, aveva riempito il Grant Park di Chicago invadendo – talora non solo metaforicamente – anche le sale del Conrad Hilton, dove si consumavano i lavori della Conventions democratica. Era in quelle aule che, in un caldissimo agosto, nel pieno d’una delle più intense e tragiche stagioni della storia americana,sotto la ferrea regia del sindaco della “città del vento”, Richard Daley, il partito democratico s’apprestava a scegliere il candidato destinato a raccogliere l’eredità di Johnson.  Il 4 aprile, a Memphis, era stato assassinato Martin Luther King e la sua morte aveva scatenato la rivolta dei ghetti neri. Due settimane prima, il 16 di marzo, Bob Kennedy era ufficialmente sceso nell’arena elettorale suscitando – in quella che la sinistra d’allora chiamava l’ “altra America” – entusiasmi e speranze che sembravano il preludio d’una storica svolta. Ed il 4 di giugno – nel giorno in cui celebrava la più  significativa delle sue vittorie, quella nelle primarie della California – era stato anche lui assassinato. Dentro il Conrad si fronteggiavano Eugene McCarthy, che aveva vinto quasi tutte le primarie, ma che non vantava che il 23 per cento dei delegati, George McGovern (attorno al quale s’era raccolto il 15 per cento dei delegati di Bob Kennedy) e Hubert Humphrey, il vicepresidente di Johnson, che non aveva partecipato ad alcuna primaria, ma che godeva d’una solida maggioranza grazie al controllo d’una macchina elettorale opportunamente oliata, per l’appunto, dai compromessi maturati nelle nebbie dei “retrobottega” del partito.  Fuori dal Conrad, tra le aiuole del Grant Park e lungo Michigan Avenue si fronteggiavano la polizia (12 mila uomini mobilitati da Daley con l’ordine di manganellare chiunque si avvicinasse alla sede della Convention) ed una massa di giovani che di fronte alle telecamere senza soste gridava” The whole world is watching”, tutto il mondo sta guardando.

Il mondo, in effetti, guardò. E quello che vide, fuori e dentro il Conrad Hilton, furono le immagini d’un partito lacerato, incapace di governare quello che, in quell’anno turbolento e fecondo, andava cambiando al suo interno e nel paese. Vide le cariche di polizia, i feriti e gli arresti. Vide il sindaco Daley levare il pugno e profferire minacce (molti dicono di chiara matrice antisemitica) contro il senatore Abraham Ribikoff che, dal podio, aveva condannato i “metodi da Gestapo” usati contro i manifestanti. Vide la facile “nomination” di Hubert Daley, preludio di un’altrettanto facile sconfitta contro un Richard Nixon ed un partito repubblicano che, in quei giorni roventi, andavano appellandosi alla “maggioranza silenziosa” (l’espressione nacque proprio in quell’anno) ed alle paure bianche alimentate – in un Sud storicamente democratico – dalla battaglia per i diritti civili.

Fu sull’onda di  quegli avvenimenti che nacquero le primarie così come oggi le conosciamo. Da quegli avvenimenti e dal  successivo tentativo democratico di ricomporre la spaccatura – drammaticamente palesatasi a Chicago – tra la sua base ed i suoi apparati. Nel 1969, una commissione creata dal Democratic National Committee e coordinata  dai senatori George McGovern e Donald Fraser era arrivata alla conclusione che le primarie dovessero diventare il vero motore della macchina elettorale. E così fu. Tanto nel partito democratico, quanto nel partito repubblicano (che seguì a ruota, sebbene fosse molto più interessato a raccogliere, a destra, i frutti della storica metamorfosi de partito democratico, divenuto il partito dei diritti civili e delle minoranze, che a ridefinire il proprio concetto di democrazia). Risultato: oggi le primarie si tengono in 43 dei 50 Stati dell’Unione. E sono davvero l’anima del processo elettorale, sia pur nella forma “balcanizzata” tipica della politica americana. Oggi si tengono primarie, in pratica, per ogni tipo di elezione, dal presidente al congresso federale, dai governatori ai congressi statali, giù fino agli sceriffi di contea ed ai giudici. Ed il tutto in una giungla di regolamenti e di leggi che variano da Stato a Stato. Le primarie possono essere aperte (dove tutti possono votare scegliendo a piacere il partito), chiuse (dove possono votare solo gli elettori registrati come democratici o repubblicani), o “blanket” (dove tutti possono votare per più partiti, candidato per candidato. Ovvero: dove, per dire, è consentito votare nelle primarie democratiche per il candidato a presidente degli Stati Uniti e, contemporaneamente, nelle primarie repubblicane, per il candidato alla Camera dei Rappresentanti). Tutti (o quasi) gli eleggibili devono ormai passare per le primarie. E per le primarie devono passare, ovviamente, anche tutti (o quasi) gli elettori (o delegati) che, in un sistema basato sul collegio elettorale, sono chiamati a dare agli eleggibili il voto finale. I delegati possono essere eletti con il sistema del “winner  takes all” (il candidato che vince in un distretto si prende tutti i posti disponibili) o proporzionale. Nelle presidenziali, i repubblicani seguono il primo criterio ed i democratici il secondo (dettaglio, quest’ultimo, di tutt’altro che secondaria importanza: se infatti i democratici avessero usato il sistema “winner  takes all, oggi alla Casa Bianca ci sarebbe, non Barack Obama, ma Hillary Clinton).

Fu, quella che si consumò dopo il ’68, una vittoria della democrazia? In parte, certo. Perché non v’è dubbio che il sistema elettorale americano sia uscito dalla tragica esperienza di quel torrido agosto, molto più “aperto” di quanto non fosse.  Anche “troppo” aperto, in senso immediato, visto che il primo risultato di quell’apertura fu, per quanti l’avevano promossa – vale a dire, per i democratici – la più catastrofica disfatta elettorale della loro storia. Perché, nel 1972, liberata dalle proprie catene, l’ala, chiamiamola così, più militante e progressista del partito usò le primarie per nominare – in una fuga a sinistra che allontanò il partito da quell’ “aureo centro” che, in ogni sistema bipartitico, è la vera chiave della vittoria – l’ultra pacifista George McGovern. Il che, poco più tardi (nell’84), portò ad una nuova riforma (o controriforma) del sistema delle primarie, dando un ampio spazio “moderatore” ai cosiddetti “superdelegati” (congressisti e dirigenti di partiti che vanno per diritto alle Conventions).

La pratica delle primarie ha innegabilmente fatto sì che il sistema elettorale americano diventasse una macchina in perenne movimento , un motore permanentemente acceso. Ma in che misura ha, questo motore, davvero risolto i problemi di partecipazione popolare che l’avevano originalmente motivata? Molti oggi rispondono: in nessuna misura. E non solo perché gli indici di partecipazione al voto restano, negli Usa, tra i più bassi del pianeta. Il vero problema – o, se si preferisce, il grande paradosso – è che le primarie hanno sì, com’era nel loro proposito, diminuito il potere degli apparati di partito (al punto che i segretario del partito democratico e del partito repubblicano, eletti dai rispettivi comitati direttivi nazionali, senza alcun bisogno di primarie, sono personaggi di secondo piano), ma ha anche, contrariamente ai suoi propositi, esponenzialmente moltiplicato il potere del danaro. Perché è il danaro – quello che copre le spese di campagne elettorali sempre più costose e che i candidati raccolgono attraverso i propri PAC (Political Action Committee)  – il vero carburante di quel motore che va senza sosta ruggendo. Danaro “buono” – come quei piccoli contributi (meno di 200 dollari) raccolti prevalentemente via Internet che, nelle ultime presidenziali, hanno formato il 50 per cento  del “tesoro” da 250 milioni di dollari accumulato, per le sole primarie, da Barack Obama. E -più spesso – danaro “cattivo”, provenienti da quei “moneied interests”, interessi del danaro, che già Thomas Jefferson aveva identificato come una forza in grado di minare alle radici la nascente democrazia americana.

Morale della favola? Difficile trovarne una, specie se il punto d’osservazione è quello di un Partito democratico italiano in cerca di modelli.  Nel 1898, parlando, in un memorabile discorso, agli studenti dell’Università del Michigan, il progressista Robert La Follette, aveva, per la prima volta, avanzato l’idea delle primarie come strumento per restituire al vero titolare – il popolo – le chiavi del processo elettorale. Le primarie sono arrivate e sono oggi, in effetti, dappertutto. Ma quella chiave – sottratta alle “smoke filled backrooms” – continua a passare, prima di finire nelle mani dell’elettore, per le ovattate e terse sale dove si riuniscono i consigli d’amministrazione delle grandi corporations. Nella sua tomba di Forrest Hiil, alle porte di Madison, il povero La Follette, sta probabilmente, in questo momento, piangendo lacrime amare…

 

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