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Tuesday, December 3, 2024
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Tu quoque, Brasil?

 

No, non è la riedizione di Messico ’68. E, per quanto sia sempre molto arrischiato avventurarsi in drastiche profezie, credo si possa in tutta tranquillità affermare che non s’intravvede – tra i le nuvole dei gas fumogeni che, in questi giorni, riempiono le strade e le piazze di pressoché tutte le metropoli brasiliane – alcuna possibile replica, sia pure in dimensioni ‘bonsai’, della strage di Tlatelolco. Il Brasile d’oggi è lontano, lontanissimo dal Messico che, regnante Gustavo Díaz Ordaz, più di 44 anni or sono – quando non mancavano che dieci giorni all’inaugurazione dei Giochi Olimpici – sparò a raffica   contro gli studenti che affollavano la piazza delle Tre Culture. E tuttavia vale forse la pena analizzare la protesta brasiliana –  la prima di consistenti dimensioni dal 1984, quando il movimento ‘Diretas Ja’ portò milioni di persone in piazza contro la dittatura militare – partendo proprio dalle analogie (poche, ma interessanti) e dalle differenze (moltissime e profonde) che legano i due eventi.

Le analogie (due, fondamentalmente), tanto per cominciare. Il Messico del ’68 era, come il Brasile di questi giorni, un paese in piena espansione. E come il Brasile d’oggi – impegnato nella Confederation Cup e pronto a lanciarsi verso lo storico ‘doblete’ del Mondiale di calcio (2014) e delle Olimpiadi (2016) – bussava orgogliosamente alle porte del primo mondo organizzando grandi manifestazioni sportive. Tanto nel Messico d’allora, quanto nel Brasile [quote float=”right”]Tanto nel Messico d’allora, quanto nel Brasile di oggi, a protestare non erano i poveri ed i diseredati ([/quote] di oggi, a protestare non erano i poveri ed i diseredati (come sarebbe avvenuto nel 1989 durante ‘Caracazo’ venezuelano, o come, sia pure in forma meno netta, accadde nei giorni del ‘Que se vayan todos’, nell’Argentina del 2001), ma i giovani di una emergente classe media. Di fatto: proprio coloro che più avevano beneficiato dell’espansione economica o, se si preferisce, i figli del ‘boom’.

In Messico – e qui cominciano le differenze – al centro delle richieste del movimento studentesco c’era una richiesta di democrazia, l’esigenza d’uscire dalle strettoie d’un regime dominato da un partito –Stato (il Partido Revolucionario Institucional) che sovrastava un pluralismo di facciata (o una “dittatura perfetta” come la chiamò Mario Vargas Llosa). In Brasile – nel Brasile nato dalla lotta alla dittatura militare, passato indenne attraverso la crisi del debito, l’impeachment di Collor de Mello e, quindi forgiatosi negli anni di Fernando Henrique Cardoso prima, e di Lula da Silva poi – vige invece una democrazia, forte, piena. In Messico l’espansione della fine degli anni ‘60 – e più ancora quella degli anni ’70, nel pieno del boom petrolifero – non era che un’illusione, il preludio della crisi del debito, del ‘default’ del 1982, degli ‘ajustes’ neoliberali e di quella che, in tutta l’America Latina, sarebbe poi passata agli archivi come ‘la decada perdida’. L’ascesa del Brasile è, invece, parte essenziale di un’inarrestabile trasformazione dell’economia globale, quella marcata dalla crescita di nuovi e tutt’altro che effimeri protagonisti (i cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). In Messico Díaz Ordaz ed il suo segretario de gubernación (quel Luís Echeverria che sarebbe poi diventato presidente) uccisero – e non solo in senso metaforico – il movimento. Dilma Rousseff ha invece promesso – e non c’è ragione per non crederle – di ‘ascoltare la voce della piazza’.

In Messico il movimento che portò alla Piazza delle Tre Culture era parte d’un sussulto planetario – dal maggio Parigino, alla primavera di Praga – che, sospinto da eventi di storica portata (il Vietnam, la fine del colonialismo, la Guerra [quote float=”left”]Una “scintilla” da venti centesimi…ma quali sono le vere radici della protesta?[/quote] Fredda) si nutriva, ovunque, di grandi ideali. Quello che colpisce, nel caso del Brasile di queste ore è, invece, proprio l’infima – tanto infima e ‘deideologizzata’, in effetti, che si stenta a cogliere la relazione tra causa ed effetto – origine delle manifestazioni e dei disordini. Tutto è cominciato a causa dell’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a Sao Paulo: da 3,00 a 3,20 reali. Come dire: da 1,60 euro a 1,85 euro. Ed a capo delle manifestazioni che sono seguite non c’era alcuna grande organizzazione di massa – un partito, o un sindacato, come quello dei metallurgici di Sao Paulo che, negli anni ’80 vide l’emergere del dirigente operaio Luiz Inácio Lula da Silva – ma un movimento fino a ieri semi-sconosciuto: ‘Passe Livre’ (biglietto gratis). Una cosa del tutto analoga – e, in questo caso si tratta di una analogia che conta – era accaduto nel 2006 in Cile, quando, proprio per protestare contro le inefficienze del Transantiago, il sistema di trasporti pubblici di Santiago, gli studenti scesero in piazza dando vita ad un movimento che è ancor oggi uno dei protagonisti della vita politica cilena.

Il grande paradosso del caso brasiliano è, in fondo, proprio questo. La gente che scende in piazza non perché sta peggio ma perché sta meglio di ieri. E questa è anche l’essenziale differenza che – accanto a molte e più superficiali similitudini – divide gli ‘indignados’ di Sao Paulo e di Rio, da quelli di Madrid, di Roma o di Atene. Più esattamente: a Sao Paulo, a Rio e a Belo Horizonte quelli che protestano sono i figli d’una classe media che, in questi anni ha conosciuto, in pressoché tutti i paesi latinoamericani (quasi tutti sospinti dall’auge dei prezzi delle materie prime e, quasi tutti, capaci di conseguire eccellenti risultati nella lotta contro la povertà), una crescita senza precedenti. Gente che chiede una cosa semplice: che questa crescita si traduca in un nuovo (e vero) benessere: in più educazione, servizi più efficienti, in una vita davvero migliore (i più sofisticati dicono in un ‘diverso modello di sviluppo’), e non soltanto in tronfie esibizioni di potenza sportiva che si vanno consumando all’interno di stadi inutilmente faraonici. ‘Copa para quem?’, coppa per chi?, si chiama uno dei movimenti sorti in queste ore a ridosso delle proteste e delle repressioni.

Una domanda elementare e difficile. O meglio: ‘la’ domanda. Quella alla quale – se davvero, come dice, sta ascoltando – Dilma dovrà dare una risposta.

 

 

 

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