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Dillinger, che rubava a chi rubava

13 novembre 2010

di Massimo Cavallini

 

“Un incrocio ed un semaforo nel mezzo. Una via centrale con una fila di botteghe, un ufficio postale, una chiesa. E, di lato, una dozzina di strade fiancheggiate da filari d’alberi d’acero che, di nuovo, si perdono nella campagna…”. Così, nel maggio del 1934, James Finan, inviato del New Yorker, descriveva ai suoi lettori la cittadina di Mooresville, Indiana. Un quasi invisibile agglomerato d’umanità nel mezzo della prateria, un minuscolo ma purissimo frammento dell’ “American Heartland” – “a wide, dark place in the road”, un’ampia, oscura appendice della strada – che la notte prima l’assonnato reporter aveva superato di slancio, senza neppure accorgersi d’avere attraversato un centro abitato. Qui, a Mooresville, la storia di John Herbert Dillinger Jr., il “pericolo pubblico numero uno”, era cominciata. E qui Finan era venuto, taccuino alla mano, per raccontarla dall’inizio. O, più esattamente, per ripeterla dalla fine, dal punto in cui quella storia era diventata una leggenda destinata a restare per sempre nell’immaginario collettivo americano. La stessa leggenda che, stando alle cronache dell’epoca, appena due mesi più tardi, la notte del 22 luglio, di fronte all’entrata del Biograph Theatre, una mano ignota avrebbe infine riassunto in quattro sgangherati versetti che, scritti a gesso sui marciapiedi di Lincoln Avenue, sarebbero rimasti, da allora, scolpiti nella pietra d’un mito che continua a vivere. “Stranger, stop and wish me well/ Just say a prayer for my soul in hell/ I was a good fellow, most people said/ Betrayed by a woman all dressed in red”. Passante sconosciuto, fermati ed augurami buona fortuna/ recita una preghiera per la mia anima all’inferno/ i più dicevano ch’io ero un buon tipo/ tradito da una donna tutta vestita di rosso…

Proprio questo James Finan stava cercando nel cuore del cuore d’America: le radici di quell’anima ingiustamente destinata all’inferno, le più antiche tracce d’un “buon tipo” che, in realtà, non era mai esistito. O che – come un miraggio, evanescente eppur visibilissimo – esisteva soltanto nel riflesso d’una struggente nostalgia, nel desiderio di qualcosa che non era più. E proprio questo era per lui, a conti fatti, quella cittadina che, nelle tenebre, neppure era riuscito a scorgere: non una “oscura appendice della strada”, ma il luogo metaforico nel quale l’America della Grande Depressione confrontava, nel mito di un “outlaw”, d’un fuorilegge in fuga, il proprio realissimo presente con il proprio immaginario passato. La storia di John Dillinger che Mooresville raccontava a se stessa ed all’America (e che Finan voleva rielaborare per i suoi molto sofisticati lettori newyorkini) era, infatti, quella d’un “buon ragazzo di campagna” traviato dalle tentazioni della vita metropolitana e, prima ancora, da un’ingiustizia subita. La storia, per molti aspetti, d’un giusto costretto alla fuga da una società ingiusta. “Mio figlio – dice a Finan John Dillinger Senior – era un buon ragazzo. E forse un buon ragazzo sarebbe rimasto se non lo avessero spedito in prigione a vent’anni, facendogli pagare colpe di altri. Poi Chicago ha fatto il resto. A questo punto, spero soltanto che John si riappacifichi con Dio, e che con Dio sia in pace nel momento in cui s’incontrerà col suo destino…”.

La Mooresville che Finan descrive ha, in molti tratti, la purezza d’un dipinto di Norman Rockwell, grande poeta di un’America che non fu mai. E dei dipinti di Rockwell ha lo stesso purissimo, contraffatto realismo, rude e melenso al tempo stesso. Il padre intervistato ancora in tuta, appena tornato dal lavoro nei campi. Il vecchio droghiere, Frank Morgan – lo stesso che il giovane Dillinger, dieci anni prima, aveva rapinato e ferito – pronto a spiegare, nella penombra della sua bottega odorosa di spezie, come lui, a John, quell’ “errore di gioventù” l’avesse perdonato da tempo. E come avesse firmato senza esitare la petizione per la concessione della libertà provvisoria. Il pastore della chiesa metodista First Christian Church, il reverendo Alan Houston, che mostra il banco che John occupava, di norma, durante le funzioni domenicali…

Tutto bello. Tutto pulito. E tutto (o quasi tutto) falso. Perché John Herbert Dillinger Jr. – che pure, come tutti, era sicuramente stato, a suo tempo, “un ragazzo” – “buono” poteva essere definito solo nella più ampia, generica e generosa accezione rousseauiana della bontà come stato naturale dell’uomo. E di certo non era mai stato, John, un ragazzo “di campagna”. Il futuro “pericolo pubblico numero uno” era, infatti, nato e cresciuto in città, a Indianapolis, nel quartiere di Oak Hill, dove aveva consumato, in piccoli furti e violenze, quello che uno psicologo chiamerebbe una tipica adolescenza difficile. A Mooresville si era trasferito, in realtà, solo quando aveva ormai quasi 18 anni. E più che possibile è che, tra le ragioni del “ritorno alla terra” del padre – un molto manesco immigrato alsaziano fino ad allora proprietario d’un piccolo negozio di alimentari -, vi fosse proprio il desiderio di sottrarre il figlio a quella che già allora aveva tutte le caratteristiche d’una classica deriva criminale.

Ma ben poco servì quel ritorno ai valori – veri o presunti – dell’America profonda. Cominciata in città, la deriva di John continuò imperterrita ai margini delle sconfinate praterie del Midwest. Continuò e, probabilmente, fu addirittura accelerata dalle frustrazioni d’un ragazzo di città – un “cattivo” ragazzo di città – incapace d’adattarsi alla realtà della campagna. Fuggito di casa, John s’arruolò in Marina, ma ben presto – dopo una serie di diserzioni e di violenze – venne congedato “con disonore”. E tornato a Mooresville non riuscì a trovare una ragion d’essere nel suo nuovo lavoro di macchinista (che, pure, dicono, praticava con grande perizia). Nel luglio del 1923, insieme a tal Ed Singleton, di dieci anni più vecchio di lui, assaltò la drogheria di Frank Morgan. Singleton era, probabilmente, la vera mente della rapina. Ma, arrestato, ebbe – contrariamente a John – l’accortezza di “collaborare con la giustizia”. Risultato: Singleton se la cavò con una condanna a tre anni. John uscì, invece, dall’aula di giustizia con il fardello d’una sentenza che gli affibbiava da dieci a venti anni di carcere duro, da scontare nella “Indiana State Prison” di Michigan City. E non tornò, infine, a riveder le stelle che quasi un decennio più tardi. Era il 10 maggio del 1933. John aveva 29 anni, un terzo dei quali passati in carcere.

Vuole la leggenda che, nel varcare le soglie della prigione, John Dillinger avesse detto ai suoi carcerieri: “I will be the meanest bastard you ever saw, when I get out of here”, quando uscirò di qui sarò il peggior bastardo che mai abbiate visto. Promessa mantenuta. Il “buon ragazzo di campagna” – o il cattivo ragazzo di città che di si voglia – tornò dieci anni dopo a Mooresville. Si recò nella bottega del vecchio Morgan e lo ringraziò per aver sottoscritto la richiesta di libertà provvisoria. Un modo per dire elegantemente addio a quell’America che non gli era mai appartenuta e per iniziare una nuova carriera: quella di rapinatore professionale di banche. In carcere, John aveva molto meticolosamente studiato le tecniche di Herman “the Baron” Lamm, da molti criminologi ritenuto il vero inventore della rapina “scientifica”. Ed in carcere aveva formato quella che sarebbe poi diventata la sua banda: Harry Pierpoint (da qualcuno ritenuto il vero leader) Charles Mackley, Harry Copeland, “Baby Face” Nelson.  Primo colpo: il 22 settembre all’American Bank di Bluffton, in Ohio. Primo colpo, primo arresto e prima evasione. Prima tappa d’una cavalcata selvaggia (“the Dillinger’s wild ride”) che, nella sua straordinaria brevità e nella sua straordinaria intensità (meno d’un anno, riempito da decine di audaci colpi “on the road”, da almeno un omicidio e da due spettacolari fughe da carceri di massima sicurezza) ancora non ha cessato d’affascinare l’America. Anzi: che, in qualche modo, dell’America è diventata parte.

Quante banche Dillinger ed i suoi abbiano in effetti rapinato tra il settembre del 1933 ed il luglio del 1934, ancora non è chiaro. E, non pochi, tra gli storici impegnati a smantellare la leggenda, sembrano convinti che le malefatte di Dillinger siano state, in realtà, ad arte rigonfiate da Edgar J. Hoover, allora capo della polizia federale ed in procinto di fondare – con poteri molto dilatati – l’attuale Fbi. Né manca, tra i “dillingerologi”, chi è convinto che molte delle rapine siano, in effetti, state concordate con i direttori delle banche assaltate (per frodare le assicurazioni, o per spartirsi il bottino). Ma il punto vero della leggenda – la sua “verità”, per molti aspetti – non sta nei numeri, né nell’accuratezza della relazione tra fatti e racconto, bensì, come in ogni leggenda, nella realtà d’un incontro. Nel caso specifico: nell’incontro tra la storia a suo modo disperata di John Dillinger e la disperazione di un’America ormai incapace di riconoscere se stessa. Il censo del 1925 aveva rivelato come, per la prima volta, gli abitanti delle aree urbane avessero superato quelli delle aree rurali, o delle molte Mooresville nelle cui virtù l’America era solita specchiarsi. Ed il paese che, nel 1933, dopo più di nove anni passati in gattabuia, veniva incontro a quell’immaginario “bravo ragazzo di campagna” era una landa devastata dalla Grande Depressione. Fabbriche chiuse, 25 per cento di disoccupati, campagne inaridite da troppi anni di coltivazione intensiva senza rotazione e percorse dalla biblica punizione della perenne tempesta di polvere del “Dust Bowl”; banche che, o finivano nel precipizio (più di diecimila furono quelle che chiusero dopo il crash del 1929), o diventavano il simbolo, nelle vesti di implacabili ed avidi creditori, della catastrofe che incombeva su milioni di americani in procinto di perdere la casa nella quale vivevano, o la terra che lavoravano.

Dillinger come Robin Hood? Nessuno, neppure i più fanatici tra i sostenitori di questa tesi, ha, in verità, mai cercato di dimostrare l’impossibile. Ovvero: come anche soltanto un cent dei soldi delle rapine della “Dillinger gang” (un gruzzolo, secondo i calcoli più attendibili, attorno ai 300.000 dollari) fosse in effetti finito ai poveri o, comunque, fosse stato speso in luoghi diversi dai bordelli e dai night club di Chicago – la Chicago di Al Capone – nei quali Johnny trascorreva (abitudine, questa, che gli sarebbe infine risultata fatale) gran parte del suo tempo libero. Ma la cosa poco importa. John Dillinger rapinava banche, molte banche, più banche di ogni altro in quegli anni che, per molti americani, erano di fame, di sudore e di polvere. Dillinger era, anzi, il miglior rapinatore di banche che ci fosse sulla piazza, il più spettacolare ed eclatante. Dillinger, insomma, rubava a chi rubava. E tanto bastava per fare di lui un eroe popolare. In tempi che videro la più grande espansione di bande criminali della storia degli Stati Uniti, Dillinger era, nella fantasia popolare, l’ultimo degli “outlaw”, un romantico fuorilegge nella lordura d’un mondo di “gangster”. Città contro campagna. Mooresville contro Chicago. La vecchia America delle praterie contro l’America di Al Capone, del contrabbando, del gioco d’azzardo e della corruzione. Spazi aperti e libertà, contrapposti alla sporcizia delle jungle d’asfalto. Al Capone era, per un pezzo d’America, soltanto un’aberrante forma di contropotere. Dillinger era invece, nella sua fuga breve e senza speranza, semplicemente contro il potere…

Ed è questo Dillinger, reale e, insieme, immaginario, che, alle 10,50 del 22 luglio del 1934, tradito da “una donna vestita di rosso” (la prostituta romena Anna Sage che lo denunciò in cambio della promessa di non essere deportata) andò incontro al suo destino all’uscita del Biograph Theatre. Morì sul colpo, faccia all’ingiù sul cemento del marciapiede di Lincoln Avenue, colpito da tre pallottole. E, da allora, ogni anno, l’America non ha mai mancato di “pregare per la sua anima all’inferno”. O di celebrare, ricordando la leggenda della sua morte e della sua “cavalcata selvaggia”, una parte perduta di se stessa. O quello che avrebbe voluto essere, e non è mai stata.

 

 

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