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Tuesday, December 3, 2024

Capolinea K?

La bastonata è tremenda: meno 22 per cento. Tremenda ed anche assolutamente prevedibile, anzi, assolutamente prevista, considerato che – per una delle molte ed enigmatiche bizzarrie della politica argentina – queste elezioni erano state precedute, lo scorso agosto, dalle cosiddette PASO (Primarias Abiertas Simultaneas y Obligatorias). Ovvero: da elezioni primarie che tali, in realtà, non furono affatto, visto che vincenti e perdenti sono poi tornati a misurarsi, due mesi più tardi, nella “vera” contesa, quella chiamata a decidere a chi, in effetti, andranno gli scranni parlamentari. E se la cosa vi risulta incomprensibile, non preoccupatevi: la storia e la cronaca argentina sono quasi sempre – e per tutti, argentini inclusi – un irrisolvibile rebus. Sicché (attenendoci ai fatti) questo e quel che è accaduto: bastonato nelle urne al tempo delle PASO, il governo di Cristina Fernández de Kirchner è stato non sorprendentemente ri-bastonato (appena dieci settimane più tardi e con molto modeste varianti) nelle vere elezioni.

[quote style=”boxed” float=”right”]Dal trionfale 54 per cento delle presidenziali di due anni fa, il FpV è passato al 32 per cento. Si avvicina il capolinea?[/quote] Il Frente para la Victoria (FpV), la coalizione che sostiene Cristina, è passato, su scala nazionale, dal trionfale 54 per cento ottenuto nelle presidenziali di due anni fa, al 32 per cento di domenica scorsa. Ed ha perso in ancor più rovinosi termini in tutti i cinque più importanti distretti, compreso quello di Buenos Aires dove si concentra quasi il 38 per cento del corpo elettorale e dove Sergio Massa (un peronista “dissidente”, dettaglio questo che rende ancor più dolorosa la sconfitta) ha battuto sonoramente Martín Insaurralde, il candidato dalla “presidenta” molto monarchicamente scelto “a dedo” (col dito). E, per questo, molto disciplinatamente sostenuto anche da Daniel Scioli, governatore della provincia ed aspirante erede “presidenziale” del kirchnerismo.

O, più propriamente, di quel che resta del kirchnerismo. Poiché proprio questa è la domanda che spontanea germoglia dalle aride cifre emerse dalle urne: è, il kirchnerismo, giunto al suo capolinea? Ha, questo risultato elettorale, chiuso una vicenda politica che, negli ultimi dieci anni, non solo ha dominato la scena politica argentina, ma ha preteso di raccontare se stesso – attraverso il cosiddetto “relato”, il racconto, per l’appunto – come una storica ed irreversibile svolta (il cosiddetto “modelo”) nella politica e nell’economia del paese?

Rispondere non è facile, per molti motivi. Il primo dei quali, ovviamente, è che mai l’aggettivo facile (nel senso di facile da comprendere) ha avuto spazio nella storia argentina. E poi perché, per quanto chiarissimi, gli stessi numeri della sconfitta rivelano non poche contraddizioni. La prima delle quali, prevedibilmente sventolata dai sostenitori di Cristina (convalescente per una non grave operazione a cervello e, per questo, silenziosa) rivela come, nonostante la bastonatura, il FpV resti (con il suo 32 per cento) la prima forza politica del paese, e continui, nel contempo, a mantenere la maggioranza parlamentare, a fronte di un’opposizione arrembante, ma divisa. Le elezioni di mezzo termine hanno infatti rinnovato, non i seggi dei parlamentari eletti due anni fa in contemporanea con le presidenziali (metà dei deputati e due terzi dei senatori), ma quelli scelti nel 2009, quando il kirchnerismo aveva subito un’altra sonora bastonata. In breve: i seggi coperti con le elezioni di domenica erano già, in gran parte, nelle mani dell’opposizione. Ed è per questo che gli effetti pratici del terremoto sono stati, in termini puramente parlamentar-aritmetici, molto limitati.

Né bisogna dimenticare come il kirchnerismo – tanto duramente colpito nel 2009 – fosse poi trionfalmente uscito dalla crisi regalando a se stesso, appena due anni dopo, una travolgente vittoria alle presidenziali. Molti ricorderanno. Quattro anni fa, logorato dalla lunga (ed infine perdente) battaglia per aumentare le imposte ai produttori agricoli (la cosiddetta “batalla de las retenciones”) il kirchnerismo era passato attraverso un’umiliazione elettorale marcata a fuoco, non solo dalle cifre complessive (appena migliori di quelle registrate ieri), ma soprattutto dalla sconfitta che il leader storico del movimento (l’ex presidente Néstor Kirchner, per l’appunto) aveva subito – anche questa volta  ad opera di un peronista dissidente, Francisco De Narváez – nella sua corsa per un seggio senatoriale a Buenos Aires. Orbene: alla fine del 2010, De Narváez s’era come dissolto nel nulla. E, nel nome di Néstor – nel frattempo morto d’infarto, beatificato e diventato, semplicemente “El”, Lui, con la maiuscola – Cristina aveva riportato una vittoria che, per le sue dimensioni, era a molti apparsa “definitiva”.

[quote style=”boxed” float=”left”]Anche nel 2009 il kirchnerismo aveva preso una tremenda legnata. Ma poi, due anni dopo…[/quote] Si ripeterà la storia? Difficile crederlo. E non solo perché le emozioni suscitate dall’improvvisa morte di Néstor Kirchner – emozioni che, d’acchito, regalarono alla moglie Cristina, più di 20 punti di gradimento nei sondaggi – appaiono ben difficilmente riproducibili. Il voto di ieri – su questo tutti concordano – ha definitivamente sbarrato la strada all’emendamento costituzionale indispensabile perché la stessa Cristina possa ripresentarsi alle presidenziali del 2015. Il che significa che il kirchnerismo – movimento carismatico marcato, come vuole la peggior tradizione peronista, dal culto del gran capo, o della gran “capa” – dovrà, dunque, correre con un candidato di scorta il cui nome, al momento a stento s’intravvede. E non solo: Cristina – prevedono molti – dovrà a questo punto fare i conti con un’altra delle peculiarità del peronismo. Ovvero: del grande enigma che avvolge gli ultimi settant’anni della enigmatica storia argentina. Nato come movimento dichiaratamente fascista, il peronismo è, tra mille violenze, andato trasformando se stesso nel corso degli anni – talora come vittima, talaltra come aguzzino e, spesso, nelle due vesti contemporaneamente – fino a diventare qualcosa di indefinibile. Tutto e nulla. O, come scrisse Jorge Luis Borges, tutto proprio perché è nulla. O, per venire allo specifico, perché è, nel nome della lealtà al capo (o all’ “autentico” pensiero di Juan Domingo Peron-Evita) una perenne  corsa al “tradimento”. Molti prevedono che, dopo la sconfitta, non pochi deputati eletti sotto le bandiere del FpV, passino armi a bagagli dalla parte del vincitore, trasformando Cristina in una classica “anatra zoppa”.

Il peronismo, ha di recente affermato a Sergio Massa, grande vincitore di domenica, è “una perenne proiezione verso il futuro”. Quale futuro non si sa. Di certo, un futuro peronista. Sempre la stessa storia e, insieme, una storia tutta da raccontare…

Articolo originalmente pubblicato nel blog di Massimo Cavallini per “il Fatto Quotidiano”

 

 

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