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Non c’e’ Rosales senza spine

10 maggio-2009

Di M.C.

 

Il professor Gennaro Carotenuto, docente di Storia del Giornalismo all’Università di Matera e gestore del sito Giornalismo Partecipativo, ha scritto “in esclusiva” per Latinamerica, la rivista diretta da Gianni Minà con la quale molto assiduamente collabora, un articoletto nel quale, ancora una volta, denuncia le magagne del quotidiano madrileno El País e di quel grupo Prisa che, editore di El País e di molti altre testate, il Carotenuto da sempre considera al centro di un complotto teso a discreditare la sinistra latinoamericana. Di che cosa, specificamente, il professore accusa questa volta El País? Di avere artatamente “nascosto”, nel riferire dell’approvazione nel Parlamento Europeo d’una mozione contro la “deriva autoritaria” del governo di Hugo Chávez in Venezuela (clicca qui per il testo in pdf), alcuni essenziali frammenti d’informazione. In particolare, il fatto che al voto della summenzionata mozione non hanno partecipato che 27 parlamentari (29 secondo la Efe). Vale a dire:  soltanto una minuscola frazione (il 3%) degli aventi diritto e solo un piccola parte, persino, dei  parlamentari dei partiti di centrodestra che l’avevano proposta.

Non è facile, leggendo la notizia pubblicata da El País – poche righe oltretutto riprese dall’agenzia Europa Press – comprendere appieno le ragioni dell’indignazione del professore. Ed anzi l’impressione è che il quotidiano madrileno, più che aver trascurato (o “nascosto”, come sostiene il Carotenuto) fondamentali  dettagli della notizia, abbia in realtà trascurato la notizia in quanto tale. E, presumibilmente, proprio per via di quei dettagli che ha in parte tralasciato di riferire. Ovvero: perché riteneva che quella risoluzione, votata da una sparuta pattuglia di deputati in un aula deserta, valesse – come, del resto, quasi tutte le “condanne” del Parlamento Europeo – meno del 2 di picche a briscola. Ma queste non sono, ovviamente, che nostre illazioni. Nella notiziola pubblicata da El País. anche in totale assenza della perfida cospirazione ventilata dal professore, il vizio di “disinformazione” indubbiamente c’è. E bene ha fatto il Carotenuto – al quale non si può impedire di lasciarsi prendere dalla paranoia ogniqualvolta legge El País – a sottolinearlo con cattedratica intransigenza (qualcuno la chiama pedanteia).

I problemi cominciano allorquando, a sua volta, il titolare del sito s’avventura, come si dice, in un approfondimento dei fatti. O, più in concreto, quando – senza mai abbandonare la superficie – comincia a spiegare con parole sue gli avvenimenti che hanno spinto quei 27 (o 29) deputati europei, sperduti in un’aula deserta, a reclamare una censura dei comportamenti del governo venezuelano. Perché è a questo punto che, in modo quasi caricaturale, il Carotenuto rivela, di suo, una tendenza alla disinformazione, alle mezze verità, ai silenzi misurati sul metro della più gretta ipocrisia, alla doppia morale e, quando occorre, alle più spudorate menzogne, che, non solo ne fanno un degnissimo allievo di Miná, ma fanno apparire come esempi di giornalismo d’eccellenza, le trascuratezze di El País, del gruppo Prisa e dei molti altri “media mainstream” contro i quali – non di rado a ragione – l’autore usa scagliarsi con savonaroliana irruenza nel suo sito.

Il modo in cui il Carotenuto racconta le vicende legate all’imputazione di Manuel Rosales – vale a dire: al caso che è alla base della risoluzione dei 27 –  è infatti, a dir poco, ridicolo. L’attuale sindaco di Maracaibo ed ex candidato presidenziale anti-Chávez, Manuel Rosales – scrive infatti in sostanza il Carotenuto (clicca qui per leggere l’articolo) – è accusato di corruzione e di malversazione di fondi, reati  consumati  negli anni (2000-2008) in cui è stato governatore dello Stato di Zulia. E, sebbene il professore ammetta d’aver parlato bene di Rosales in occasione della sua sconfitta nel 2006 (quando, con molto democratico fair play, ammise la regolarità della vittoria di Chávez), immediatamente aggiunge come solo menti perfidamente protese alla disinformazione (leggi Gruppo Prisa) potrebbero considerare il suo caso “politicamente motivato”. Rosales, insomma, altro non è, secondo il Carotenuto, che un ladro di pubblico denaro che, per sfuggire la giustizia del suo paese, ha cercato rifugio (ottenendolo) presso altri ladri patentati. Specificamente: presso quell’Alan García, presidente del Perù nonché “amico intimo di Carlos Andrés Pérez e di Bettino Craxi”, che, nella furia del suo j’accuse, il Carotenuto, definisce “a sua volta destituito per corruzione nei primi anni ‘90” (García, in realtà, non fu mai “destituito”. Fu a lungo indagato mentre si trovava in esilio in Francia, ai tempi di Fujimori. E venne infine assolto nell’anno 2000, per decorrenza dei termini, senza aver sciolto alcuno dei dubbi sollevati nel corso delle indagini  sui suoi illeciti arricchimenti. Ma queste sono quisquilie, essendo l’ignoranza, come vedremo, di gran lunga il meno grave dei difetti del professore).

Questo, dunque, dice il Carotenuto.  E che cosa, invece, il Carotenuto NON dice? Molte cose. Molte ed assolutamente fondamentali.  Il professore, in effetti, con quasi comica sfacciataggine seleziona circostanze  e fatti , buttando via  – apparentemente convinto, come un bambino, che nessuno se ne accorga –  tutto quello  che contraddice la sua immagine del Venezuela chavista (cioè, per l’appunto, quasi tutto). Non dice, ad esempio, il professore di Macerata, che indagini sull’amministrazione Rosales erano in corso, senza risultati, dall’anno 2004. E che il mandato di cattura contro di lui si è concretizzato solo dopo che il presidente Hugo Chávez lo ha esplicitamente reclamato (ordinato?) in uno dei suoi molti discorsi, allorquando, alla luce dei sondaggi, chiarissimo era diventato il fatto che, nelle amministrative dello scorso 23 novembre, Rosales avrebbe ampliamente vinto la corsa per la poltrona di sindaco di Maracaibo (“Estoy decidido a meter preso a Manuel Rosales. (…) Es que lo voy a meter preso. Sépalo el Zulia y sépalo Venezuela porque una calaña como ésa tiene que estar en prisión y no gobernando un Estado o gobernando un municipio. No puede estar suelto”, disse Chávez il 28 ottobre. E pochi giorni dopo tanto la Fiscalia, quanto l’Assemblea Nazionale – completamente controllata dalle forze chaviste – aprirono inchieste parallele che, subito dopo la vittoria di Rosales, si concretizzarono in mandato di cattura). Non dice, il Carotenuto, che tra le accuse più gravi, serie e documentate a Chávez, vi è, per l’appunto, quella di avere (come il caso Rosales dimostra)subordinato il potere giudiziario al potere politico (cioè al suo potere personale). Non dice, il Carotenuto, che il caso Rosales non è affatto l’unico. Non più di qualche settimana fa, infatti, il presidente bolivariano ha pubblicamente accusato di corruzione (“Es un corrupto y tiene que andar preso….Su lugar es la carcel” il generale Raúl Isaías Baduel, l’ “eroe” che l’11 aprile del 2002 sventò,il colpo di Stato contro Chávez, ma che l’autoritarismo di Chávez denunciò poco prima del referendum costituzionale del  2 dicembre del 2007 (che Chávez clamorosamente perse). E non  dice che lo stesso destino – quello  di essere accusati di corruzione per ordine di Chavez – è toccato a molti altri dei personaggi  che, in qualche modo, hanno battuto o infastidiscono Chávez. Il meccanismo è sempre lo stesso: Chávez accusa, la magistratura imputa. Ed il tutto lungo le linee d’una strategia che, palesemente, punta a colpire proprio lí dove Chávez ha elettoralmente perso terreno. Ovvero: in tutte le regioni più sviluppate del paese, compresa quella Caracas dove – altra cosa che il Carotenuto non dice – lo scorso 23 novembre il chavismo ha perso nell’urna l’alcaldia, ma ha poi recuperato per il potere grazie ad una legge ad hoc (Berluconi docet) dell’Asseblea Nazionale che, in pratica, quell’alcaldia ha abolito. Per dirla con Douglas Bravo, vecchio e leggendario capo guerrigliero della Venezuela degli anni ’60: “Apparentemente nel Venezuela del “socialismo del XXI secolo” non è corrotto chi ruba, ma chi, in un modo o nell’altro, tradisce Chávez”.

Queste, e molte altre cose, il cattedratico di Macerata NON dice. Dicendo, in compenso, peste di tutti coloro che queste cose osano dire.  Davvero splendida (ed a suo modo coerente) è, comunque, la conclusione di questa cavalcata lungo le immense praterie della disinformazione, della memoria selettiva e dei calcolati silenzi. Povero Chávez, piagnucola il professore, lui sta cercando di sanare la piaga della corruzione, e tutto quello che gli torna indietro, dalla perfida Europa (per non dire dell’ancor più perfido Gruppo Prisa), è un’accusa di “deriva autoritaria”. E conclude: “Se la magistratura si occupa di corruzione finisce inevitabilmente per occuparsi degli enormi arricchimenti illeciti degli ultimi cinquant’anni che spesso corrispondono a personaggi attivi nell’opposizione e incorre nell’accusa di voler perseguire oppositori politici. Se non lo fa però, e negli ultimi dieci anni lo ha fatto troppo poco, il bubbone della corruzione endemica non verrà mai inciso. Ma non aspettatevi che questo ve lo spieghi “El País”. Giustissimo. Su El País – e su moltissimi  altri organi d’informazione, non quelli “mainstream”, ma quelli che raccontano i fatti per intero – si può leggere, invece, quel che accade nello Stato di Barinas, trasformato in una sorta di satrapia dalla famiglia Chávez . Un visibilissimo caso di corruzione che, tuttavia, nessun magistrato indaga perché ancora non arrivato (né presumibilmente mai arriverà) l’ordine dal presidente bolivariano.  Ma non aspettatevi, ovviamente, di leggere tutto questo su Giornalismo Partecipativo o sulla rivista di Gianni Minà.

 

 

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