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Le catene di Chávez e il berretto di Capriles

Milletrecentocinquantanove contro ottantaquattro. Questo, secondo un calcolo dell’Università Cattollica Andrés Bello, era, alla fine di luglio – vale a dire: ad un mese dall’inizio ufficiale della campagna elettorale – il rapporto tra i tempi di presenza in tv dei due principali candidati alla presidenza: 1.359 minuti per Hugo Chávez Frías, presidente in carica, e 84 per Henrique Capriles Rodonski, candidato della Mesa de Unidad Democratica (MUD), suo sfidante. Sedici (o poco più) a uno. Un record assoluto, probabilmente, in termini di, chiamiamola così, “dispar condicio”. Un record che, tuttavia, gli arbitri della contesa si sono categoricamente rifiutati, non solo di correggere, ma addirittura di omologare. Perché a loro – alla maggioranza dei membri della Comisión Electoral Nacional (CNE), per i quattro quinti fedelissimi militanti del partito di governo – risultavano in realtà altre cifre. Altre al punto che a godere d’un lieve vantaggio (pari a circa il 20 per cento) era, secondo i loro calcoli, proprio il candidato dell’opposizione.

[quote style=”boxed” float=”right”] Le “catene” – va ripetendo il presidente bolivariano – sono una “prerogativa del presidente”. E come tali nulla hanno a che vedere con la campagna elettorale.[/quote] Che la matematica possa, in politica, diventare un’opinione, è un fatto ormai universalmente riconosciuto. Ma come si spiega una tanto abissale differenza di risultati? Si spiega, ovviamente, con il fatto che i professori dell’Università Bello e i membri del CNE sono andati leggendo numeri diversi. Mentre, infatti, i primi considerano tutte le presenze televisive, i secondi si limitano a considerare quelle – i tre minuti giornalieri di pubblicità gratuita – regolamentate dalle leggi elettorali. E, di quei tre minuti, Hugo Chávez non ne aveva in effetti usati, alla fine di luglio, che una parte. Tutto il resto – il 90 e passa per cento dei 1.359 minuti  consumati concionando dai piccoli schermi, erano “cadenas”. Ovvero: trasmissioni obbligatorie a reti unificate. Una pratica che il CNE – facendo ossequente eco ad una tesi più volte ribadita dallo stesso Chávez – considera “fuori dalla sua giurisdizione”. Le “catene” – va ripetendo il presidente bolivariano – sono una “prerogativa del presidente”. E come tali nulla hanno a che vedere con la campagna elettorale.[quote style=”boxed” float=”left”]Nel corso dei tre mesi di questa campagna elettorale, Chávez ha fatto usa della “cadenas” 80 volte, per un totale di circa 4.500 minuti. Ed in otto casi su dieci ha usato la sua presenza televisiva per toccare temi squisitamente elettorali, nonché per attaccare, con la consueta levità di toni, direttamente il suo rivale[/quote]

Qualche dato per meglio inquadrare il fenomeno. Dal giorno della sua entrata nel palazzo di Miraflores, 14 anni or sono, Chávez ha fatto uso della “cadenas” per quasi 3.000 volte. Il tutto per una media di un’ora ogni due giorni. Un’ora e 45 minuti, se il calcolo viene fatto a partire dal 2004, anno nel quale il fenomeno ha subito una impetuosa accelerazione. Una presenza massiccia, ineludibile, soffocante, soprattutto se si considera che quella ora e 45 minuti si è, in grande prevalenza, concentrata nel “prime time”. Nel corso dei tre mesi di questa campagna elettorale, Chávez ha fatto usa della “cadenas” 80 volte, per un totale di circa 4.500 minuti. Ed in otto casi su dieci – i dati sono sempre quelli della Università Cattolica – ha usato la sua presenza televisiva per toccare temi squisitamente elettorali, nonché per attaccare, con la consueta levità di toni, direttamente il suo rivale. Breve florilegio degli insulti rivolti al “candidato dell’impero”: “majunche” (mezza tacca), “jalabola” (leccapiedi), nazista (Caprile, sia detto per inciso, è ebreo ed alcuni dei parenti di sua madre sono morti nell’Olocausto). Ma tutto questo non ha – per Chávez e per il CNE – rapporto alcuno con il voto del 7 di ottobre.

Il che, naturalmente, non significa che l’arbitro – il CNE, per l’appunto – non vada rigorosamente  vigilando sul rispetto delle regole del gioco. La più importante delle quali è, evidentemente, quella che considera la denuncia della violazione delle regole, il peccato più grave. Come ben testimoniato dalla perentoria rapidità con la quale sono stati, nelle scorse settimane, affrontati due molto disdicevoli casi. Il primo: quello d’un annuncio televisivo a pagamento – immediatamente fatto ritirare – che, cifre alla mano, deplorava le disparità televisive di cui sopra. Il secondo caso: quello – davvero scandaloso – del berretto che Henrique Capriles usava (e che tuttora usa, visto che, a riprova della sua vocazione sovversiva, ha sfidato l’autorità del CNE) nel corso dei suoi comizi. Aveva ed ha, infatti, quel berretto, i colori rosso, giallo e blu della bandiera nazionale. Il che palesemente configura una violazione della norma che proibisce l’uso di simboli patri nel corso di manifestazioni elettorali. Chávez – un candidato che, non solo indossa simboli patri in quantità industriali, ma che mai si stanca di rammentare come sia, lui stesso, la Patria – ha ovviamente duramente stigmatizzato la disobbedienza del rivale.

Sembra una barzelletta. Ed invece è soltanto un frammento di quello che – suscitando le ire di qualche commentatore – nel precedente post avevo definito un processo elettorale “libero, ma non equo”.  Il che ci porta ad affrontare il tema dello stato complessivo del sistema mediatico venezuelano, dopo quasi tre lustri di chavismo. Lo farò prossimamente.

Dal blog di Massimo Cavallini per “Il Fatto Quotidiano”

 

 

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