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Friday, March 29, 2024
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Donald Trump, bibbia e moschetto…

Tutto, come già Eraclito aveva teorizzato moltissimi anni fa, è in continuo divenire. E non v’è dubbio che il divenire nel quale tutti noi stiamo oggi vivendo, rende ancor più arduo presagire, all’ombra della pandemia e di altre catastrofi, qualsivoglia forma di “peggio”. Soprattutto se, come nel caso, soggetto di questo “peggio” è Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, un personaggio che ha fin qui sempre smentito, pressoché all’istante, tutti coloro che, all’indomani di questa o quella “trumpata” – si trattasse d’una menzogna, d’una clamorosa testimonianza d’ignoranza, incompetenza o d’altro ancora – avessero annunciato il raggiungimento del proverbiale fondo dell’abisso.

Con Trump, notoriamente, il peggio è sempre in agguato dietro il più prossimo degli angoli. E tuttavia un pronostico, io credo, lo si può azzardare. Un giorno, quando, con la saggezza e l’obiettività della lontananza, agli storici toccherà scegliere quale in effetti sia stato il punto più basso toccato dal peggior presidente della storia d’America, tra i candidati all’oscar certamente ancora figurerà, con eccellenti possibilità di trionfo, quello da Trump marcato, nel tardo pomeriggio di lunedì, bibbia alla mano, sul sagrato della piccola chiesa episcopale di St. John, da sempre nota, data la sua prossimità alla Casa Bianca, come “the presidents’ church”.

Breve cronaca degli eventi. A quasi una settimana dall’omicidio di George Floyd e nel calore delle proteste – perlopiù pacifiche, ma in molti casi violente ed accompagnate da saccheggi e vandalismi – in ogni angolo d’America hanno fatto seguito, Donald Trump aveva infine annunciato, domenica sera, il suo primo discorso ufficiale (un classico “appello alla Nazione”) dedicato alla tragedia in corso. E, per una volta, non aveva mentito. Nel Rose Garden, con l’aiuto d’un teleprompter – e con la monotonia tipica dello scolaretto che legge, senza capirle, cose scritte da altri – Trump aveva davvero parlato. Ed addirittura aveva cominciato la sua dissertazione in termini passabilmente “presidenziali”, associandosi alla generale indignazione per la morte di Floyd e testimoniando la sua comprensione (“sono un vostro alleato”) per chi, contro questo crimine, va pacificamente protestando. Poche frasi (evidentemente di circostanza) oltre le quali il presidente ha tuttavia pressoché subito ritrovato (e boriosamente esibito) il se stesso di sempre: quello che, solo un paio di giorni prima – in una delle sue notturne raffiche di tweet – aveva preconizzzato l’uso di “vicious dogs”, cani feroci e di non meglio precisate “ominous weapons”, armi funeste, contro i manifestanti.

“I’m your president of law and order”, io sono il vostro presidente di legge e ordine, ha detto e ripetuto Trump, annunciando – in un preludio di quella che già in effetti è la sua campagna elettorale – la propria indefettibile volontà di mandare, con o senza il consenso delle autorità locali (ed infischiandosene della Costituzione), le forze armate nelle città e negli Stati dove quelle medesime autorità si rivelassero incapaci di “dominate the streets”, di domare la piazza. Brutte parole. Brutte anche per chi come Trump, mai ha avuto problemi nell’imitare i gesti e gli accenti dei peggiori dittatorelli bananeri. Parole– queste sì davvero “ominous”, nefaste, funeste e fino a ieri inimmaginabili nella “più antica democrazia del mondo” – che, sebbene pronunciate da un noto renitente alla leva, esalano un inconfondibile tanfo di caserma. E che, in altre latitudini, hanno, ben più d’una volta fatto da preludio alla morte di molte democrazie. Ma, trattandosi di Trump, il peggio era, ancora una volta, di là da venire. Anzi, di lá da andare, visto che proprio così il presidente ha infine, con un sinistro ammiccare, concluso il suo discorso: “Ed ora – ha detto – andrò in posto molto speciale”.

Quel posto “speciale” era, per l’appunto, la chiesa di St. John, dall’altro lato di Lafayette Square, il giorno prima vittima – qualcuno aveva appiccato un incendio nel suo scantinato – delle violenze che avevano fatto da contorno alle proteste in Washington D.C.. Per raggiungerla, attraversando senza impedimenti la piazza, Donald Trump aveva fatto violentemente sgombrare dalla polizia militare quelli che all’inizio del suo discorso aveva definito suoi alleati. Ovvero i molto pacifici manifestanti che riempivano giardini reclamando verità e giustizia. E l’odore dei lacrimogeni era arrivato fino al Rose Garden.

“Domata” eroicamente la piazza, il presidente ha infine raggiunto con passo marziale, tra due ali di poliziotti in tenuta anti-sommossa, il sagrato della chiesa. E qui ha infine, con molto serio cipiglio, mostrato al mondo un grosso libro nero. “È una bibbia?” gli ha chiesto da molto lontano uno dei giornalisti che seguivano la cerimonia. “È una bibbia” ha confermato il presidente, tornando a sollevare il libro verso il cielo. Tutto qui. Nessuna citazione biblica, nessuna preghiera. Solo Trump ed il “libro dei libri”, il Verbo ed il primo difensore del Verbo, Dio e la Patria, in quella che, nelle intenzioni, ingigantita dal silenzio, doveva sembrare la più ieratica delle accoppiate. E che invece aveva tutta la solennità della più triviale delle televendite. Quella bibbia poteva, nelle mani di Trump, esser qualunque oggetto in offerta. Un frullatore, un prezioso collier, un servizio di piatti di porcellana, o uno dei disinfettanti – Clorox, Lysol? – con i quali settimane fa il presidente aveva ipotizzato si potesse curare, via iniezioni nei polmoni, l’epidemia di coronavirus.

Ridicolo. Ridicolo e, in ultima analisi, blasfemo. “Sono indignata. Hanno usato la nostra chiesa e la bibbia come sottofondo d’una campagna pubblicitaria che, contro il messaggio cristiano, chiama alla repressione ed alla violenza”. Questo ha detto ieri Mariann Budde, vescovo episcopale di Washington. Ed altro non dovrebbe esser necessario aggiungere. Tranne, forse, una domanda. Quanti americani, nelle presidenziali del prossimo novembre, compreranno quel libro nero?

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