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Walter

20 giugno 2006

 

di Gabriella Saba

 

Mi ero appena seduta sulla panchina che il ragazzino mi è venuto incontro correndo, il banchetto da limpiabotas sotto il braccio. Ha indicato le mie scarpe: “Sono sporche”, ha detto. “Sono pulite”, ho risposto di malavoglia, gli occhi sul giornale. “Sono sporchissime”. Ho alzato gli occhi con l’intenzione di levarmelo di torno e ovviamente mi sono fregata: aveva occhi enormi spalancati sulle mie scarpe e un’espressione imbronciata. Era un bambino bellissimo. Ho tirato fuori dalla tasca dieci bolivianos e glielo ho ficcati in mano. “Va bene così”, gli ho detto tornando al giornale. Il ragazzino ha tirato su il banchetto e si è seduto nella panchina di fianco a me.

Ho ficcato la testa dentro a El Correo, cercando di concentrarmi sull’ultima dichiarazione di Linera a proposito delle malversazioni all’interno della compagnia di bandiera Lab. Il ragazzino non si muoveva. Avrei voluto far finta di niente, ma invece mi sono girata verso di lui e gli ho chiesto: “Non vai a lavorare?”. Erano le otto, era domenica mattina e la piazza principale di Sucre era vuota. Ha alzato le spalle. “Non c’è nessuno”. Aveva ancora il broncio e si era messo e giocherellare con le stringhe delle scarpe. “Ok”, mi sono detta, chiudendo il giornale. “Come ti chiami?”. “Walter”. “Walter, hai fame?”. Facevo un po’ la dura perché non potevo intenerirmi per ogni bambino-lustrascarpe che mi capitava tra i piedi. “Bastante”, ha risposto Walter senza guardarmi. “E allora perché con i soldi che ti ho dato non vai a comprarti da mangiare?”. Ha guardato il biglietto. “Cosa mi compro?”, ha chiesto più a quello che a me. “Cosa non lo so”, ho detto. “Un paio di saltenas, una coca”. Walter non ha sorriso. “E la mamma?”. “La mamma che?”. “Alla mamma che ci porto? Quella mangia sempre”. Ho pescato un altro biglietto da dieci. Di quel passo non sarei durata a lungo in Bolivia.  Walter mi ha guardato senza ringraziare. “Cosa si può comprare con questi?”. “Come sarebbe cosa si può comprare? Non lo sai quanto costa la roba?”. Ha scosso la testa, triste. “No non lo so, i soldi li prende la mamma”. “Ok, ok”, ho detto, e per un po’ non abbiamo parlato. “Che fa tua mamma, lavora?”, gli ho chiesto dopo qualche minuto. Ha scosso la testa. “Lavoriamo noi”. Ha aggiunto: “Jaime, il mio fratello piccolo”. Ero arrivata a un punto in cui non potevo più alzarmi e andarmene. Inoltre, ero curiosa. “A scuola,  ci vai?”, ho chiesto a Walter. “Si ci vado ma il sabato bisogna guadagnare”. “E il padre?”. Ha fatto un gesto che poteva voler dire qualunque cosa: se ne è andato, è morto, è in galera. Ma Walter non sembrava il figlio di un galeotto. Era un bambino straordinariamente a posto, anche se povero.

Gli ho detto, alzandomi: “Vieni con me”. Mi ha preso la mano che non gli avevo teso, ci si è aggrappato con una certa forza. Aveva una manina piccolissima che si perdeva dentro la mia. Abbiamo camminato per circa mezz’ora. Avrei voluto portarlo nella pasticceria più bella di Sucre e compragliela tutta. Avrei voluto compragli una casa, e anche un padre. “Quanti anni hai?”. gli ho chiesto. “Nove”. Ne dimostrava quattro, cinque. Per un po’ siamo andati in giro in silenzio, alla fine siamo entrati nell’unico locale aperto del centro. C’erano pani di tutte le forme ed empanadas e santa clara, e dolci di pasta che non conoscevo. Da un frigorifero gigantesco sbucavano coca e sprite ghiacciate. Ho detto a Walter: “Prendi quello che vuoi”. Ha aperto la mano sinistra e ha guardato i venti bolivianos stropicciati. Gli ho detto: “Quelli non c’entrano, quelli sono tuoi. Offro io”.

Il commesso si è chinato verso di lui, con tenerezza. “Scegli dai, che la signora ti paga”. Ma io non ho aspettato che decidesse. Mi sono messa a pescare da tutti cesti: sceglievo i dolci più allettanti, con crema e cioccolato, e le saltenas più grandi e profumate. Quando, alla fine, ho riempito tre buste ho chiesto a Walter cosa volesse da bere. Prontissimo, mi ha indicato questa volta le coca dentro il frigo. Siamo usciti con le braccia cariche di cibo. Walter non parlava. Gli ho detto: “Questa roba è per te, non la dai ai tuoi amici”. Dopo un po’, ho aggiunto: “Nemmeno a tua mamma”. Walter ha scosso la testa, con forza. Ha risposto: “Solo a Jaime”. Dalla piazza, un gruppo di ragazzini ci è corso incontro, i banchetti sotto il braccio. “Walterito”, hanno gridato, da lontano. Walter si è stretto alla mia gamba. Gli ho fatto una carezza, gli ho detto: “Cuidate mucho, io devo lavorare”. Eravamo arrivati davanti a un internet point e avevo un paio di cose da sbrigare. Walter mi ha guardato stranito. “Devo lavorare, piccolino. Devo lavorare”, ho ripetuto in fretta ficcandogli le buste tra le braccia. Era un bambino sgamato, e non potevo fare più niente per lui. I ragazzini lo hanno circondato ridendo. Mi ha guardato per un secondo mentre entravo nell’internet point. “Cuidate”, gli ho detto dalla porta. Si è girato verso i ragazzini, stringendosi i pacchi al petto. “E’ roba mia”, ha gridato a quelli, mostrando i denti. “E’ roba mia cabroncitos”.

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