12 novembre 2010
di Gabriella Saba
Il vero problema di Ollanta Humala, 47 anni, probabilmente il candidato più interessante alle presidenziali peruviane del 2011 (ha corso per la stessa carica nel 2006, perdendo di poco e solo, sostengono i maligni, in virtù dell’aperto ed entusiastico appoggio di Hugo Chávez) è quello di provenire da una famiglia impresentabile. Imbarazzante politicamente, quella di Humala è infatti una famiglia da realismo magico, poco indicata per un futuro presidente. La madre di Ollanta, Elena Tasso, avvocatessa e professoressa di lontane origini italiane, ha rilasciato alla stampa dichiarazioni come questa: “Tutti i miei figli sono presidenziabili. Li abbiamo educati alla spartana, all’amore per la patria e per la razza e tutti hanno respirato politica fin da bambini”. Il padre di Ollanta, Isaac, è il fondatore di un movimento xenofobo dall’esotico nome di etnocacerista ed è impegnato da anni nel riscatto del millenario impero inca. I sei fratelli di Ollanta hanno nomi coloriti, incaici o tratti dalla mitologia greca: Ulises per amore dei classici, Pachacutek (“riformatore del mondo”, nella mitologia inca), Cusi Coyllur (“stellina allegra”, in quechua) Imasúmac (“la più bella”), Antauro (“stella cobriza”) e Ollanta (“il guerriero che vede tutto”) in omaggio agli antenati indigeni. Ulises, un ingegnere laureato alla Sorbona e ferocemente nazionalista, si è candidato anche lui alle scorse presidenziali, ha raccattato meno dell’uno per cento dei voti ma ha dichiarato che continuerà la sua battaglia in piena coerenza con le sue idee. Un altro fratello, Antauro, si è fatto un bel po’ di galera per avere partecipato all’assalto a un commissariato che è costato la vita a quattro poliziotti.
Fin dalla culla, i rampolli Humala hanno ricevuto insegnamenti politici fondati sull’esaltazione nazionalista, l’odio per il sistema ed il desiderio di riscatto indigenista mischiato al disprezzo per i politici e a vaghi e confusi sentimenti populisti. L’anziano Isaac ha creato, oltre al suo inquietante movimento (che deve il nome ad Andres Avelino Caceres, eroe della guerra che il Perù combatté contro il Cile alla fine dell’800), un Istituto per gli Studi Etnogeopolitici articolato in facoltà che cominciano per etno: etnofilosofia, etnostoria, etnobiologia. Ha una morbosa adorazione per le Forze Armate ma negli anni Cinquanta ha bazzicato il leader guerrigliero Hector Bejar, dell’Esercito di Liberazione Nazionale, e militato nel Mir.
Quel bizzarro pastrocchio educativo ha prodotto un fenomeno come Ollanta, un ex colonnello ultranazionalista dell’esercito che fino a cinque anni fa nessuno conosceva, ma oggi è al quarto posto nelle intenzioni di voto, a dieci punti dal favorito Luis Castañeda Lossio, ex sindaco di Lima, e a sette dalla soave, 34enne Keiko Fujimori del partito Fuerza 2011, figlia dell’ex presidente attualmente in carcere (sta scontando una pena di 25 anni per violazioni dei diritti umani), e seguace di un fujimorismo meno autoritario di quello del padre ma in ogni caso inquietante.
Furbissimo e molto abile nel gestire la sua immagine, Ollanta ha avuto il talento di deviare dalla linea familiare quel tanto che bastava per diventare presentabile. E infatti 27 intellettuali di spicco gli hanno dichiarato, di recente, il loro appoggio. E perfino gli industriali hanno ascoltato con interesse i promettenti progetti politici dell’ex colonnello, che oscillano tra un sano realismo e una tendenza bipartisan non si sa bene se ispirata al buon senso o a calcolo. Un bel successo se si tiene conto della burrascosa e poco ortodossa traiettoria del candidato, che raggiunse il punto di non ritorno il 29 ottobre del 2000, quando, insieme al fratello Antauro, assaltò un’installazione mineraria per chiedere le dimissioni dell’allora presidente Alberto Fujimori. Poi, i due se ne andarono per un mese in giro per il Perù a fare proseliti contro il governo e infine si consegnarono alla polizia militare (nel frattempo Fujimori era stato deposto democraticamente), insieme ai 50 militari che li avevano seguiti nell’impresa. Amnistiato due mesi dopo, Ollanta venne spedito come attaché militare a Parigi e poi a Seul e in quel ritiro forzato ebbe tutto il tempo di capire cosa voleva fare da grande.
Quando tornò in patria, era una persona un pochino diversa da quella che ne era partita. Mentre Antauro, lasciato l’esercito e alla testa del suo gruppetto di avelinisti (ancora da Avelino Caceres) distribuiva con militaresca ostinazione l’etnocacerista quindicinale Ollanta, l’ex colonnello già da lontano faceva discretamente sapere che lui non c’entrava più niente con quelle storie. Rientrato in patria, prendeva inoltre le distanze dalle posizioni un filino estreme del vecchio Isaac, addolcendo nei comizi gli insegnamenti etnocaceristi: lui non era affatto razzista, nossignore, era solo contrario alla “stranierizzazione” del Paese, i bianchi non andavano espulsi e non erano affatto dei peruviani falliti, e quanto alla guerra al Cile caldeggiata dai familiari (per questioni territoriali) non era necessaria, il punto era costruire “relazioni esterne e una politica della difesa”.
Oggi Ulises e Isaac dicono che Ollanta li ha delusi. “E’ troppo ambizioso e ha tradito l’educazione familiare”. E infatti il secondo dichiarò, quattro anni fa, di avere votato per Ulises il quale, come lui, era seguace della teoria del Tahuantinsuyo che considera come parte di una stessa, grande nazione anche gli ecuadoreni e i boliviani. Ulises correva con il partito Avanza Pais, una versione più strutturata del Movimiento etnocacerista. Ollanta era in lizza con la lista Partido nacionalista uniendo al Perù, nato dall’alleanza tra i partiti Union por el Perù e Partido nacionalista peruano. Oggi, abbandonata quella coalizione che si è schierata con Alan García, l’attuale presidente, annuncia che si candiderà con il Partido Nacionalista, ma puntualizza che non si tratta di un nazionalismo etnico: “Noi non crediamo nel nazionalismo etnico”, tuona oggi. “Crediamo in un nazionalismo culturale. Non è importante il colore della pelle ma l’impegno in un progetto. Parliamo anche di nazionalismo economico, e cioé dell’economia nazionale di mercato. Non accettiamo altri tipi di nazionalismo etnico, che abbiamo visto che fine hanno fatto in Europa”.
Il programma di Ollanta è in realtà, secondo molti, piuttosto confuso. Nei suoi discorsi punta soprattutto sulla superiorità nazionale, mentre le proposte economico-sociali si riducono a una imitazione poco convinta di quella boliviana: nazionalizzazione delle risorse, inclusione degli indigeni e (ma qui la Bolivia non c’entra) moralizzazione dell’esercito che – è un chiodo fisso di Ollanta – va ribaltato se si vogliono ottenere “Forze Armate moralmente forti e fisicamente dissuasive”. Un altro obiettivo è quello della lotta alla corruzione, che Ollanta affronta nel suo solito modo suggestivo, e cioè proponendo di internare i politici corrotti in un apposito carcere nel cuore della selva. Pur riconoscendo i successi economici del governo di Alan Garcia, che ha portato il Paese a una crescita record nel 2008 del 9,8 per cento, il candidato nazionalista lo ha definito, pubblicamente, un cabron. I candidati che non siano lui sono d’altronde, per Humala, fujimoristi senza Fujimori, dato che nessuno di loro vuole cambiare la costituzione del ’93 fatta approvare dall’ex presidente.
All’origine del suo nazionalismo c’è, va da sé, l’assioma che il Perù deve appartenere ai peruviani. Tra i suoi cavalli di battaglia spicca la lotta alla diseguaglianza, dato che i poveri sono, in quel Paese, circa il 54 per cento della popolazione. Secondo i sondaggi sono soprattutto i giovani, gli indigeni e gli emarginati a votare per Humala: stanchi dei politici corrotti e abulici di cui l’uscente Alan Garcia e il predecessore Alejandro Toledo (di nuovo in corsa anche per le prossime elezioni), sono solo gli ultimi esempi e fiduciosi in quell’uomo sanguigno, che promette riscatto al Paese e ai poveri una vita migliore. E infatti i consensi non calarono (o almeno non per troppo tempo) nemmeno quando il programma televisivo Panorama esibì, qualche anno fa, alcuni testimoni delle sparizioni e delle torture che un certo “capitano Carlos” (era il nome di battaglia di Ollanta) avrebbe ordinato, agli inizi degli anni Novanta in alcune località della selva, nel corso delle attività antisovversive. Ovviamente Humala ha smentito. E’ vero, ha ammesso, che ha militato in quelle zone e in quegli anni, solo non era quel Carlos ma un altro Carlos, e i testimoni si sono confusi o, peggio ancora, a montare quella messinscena sono stati i suoi nemici per screditarlo.
Eppure sembra che, persi consensi da una parte, Ollanta trovi il modo di guadagnarli dall’altra. Per tacitare le accuse di antisemitismo ha voluto incontrare i vertici della comunità ebraica. E’ riuscito ad accattivarsi le simpatie di una parte dell’impresariato puntando sulla difesa dell’industria nazionale e giocando sull’incertezza provocata dal frazionamento della destra (secondo una recente inchiesta, il 12 per cento degli imprenditori vedrebbe di buon occhio l’elezione di Ollanta).
Benché la coalizione delle forze di sinistra gli abbia assicurato il suo appoggio, ha dichiarato di non essere di destra né di sinistra e che la distinzione è obsoleta. Alle accuse di essere un burattino di Chavez ha ribattuto che il suo obiettivo è quello di instaurare rapporti di amicizia con tutti i governi latinoamericano ma senza preferenze. E a un giornalista che gli ha chiesto cosa pensasse delle limitazioni alla libertà di stampa decretate in Venezuela ha ammesso, prudentemente, di non saperne niente, ma ha garantito che, nel caso venga eletto, farà di tutto perché quel diritto venga rispettato.
Ollanta Humala è solo un golpista frustrato, ha scritto il quotidiano argentino Pagina/12. Sarà, però non è un fesso. Nel confuso immaginario politico di una parte dei latinoamericani Ollanta è un homo novus sulla strada dell’affrancamento dagli Usa e del riscatto dei popoli oppressi.
Alcuni analisti hanno affermato che è un gioco facile, per un politico come lui avere successo oggi, dato che nessuno dei candidati è esattamente nuovo né fa promesse che facciano presagire un cambio. La cosa più surreale è che nemmeno Ollanta lo è. I suoi discorsi ricordano molto quelli che faceva, nel 1990, l’allora sconosciuto Fujimori e, quando già era al governo, l’ex presidente Toledo. Oltrettutto, nel nazionalismo familiare di Humala ci sono parecchie crepe. I suoi congiunti tuonano contro gli stranieri ma i sette fratelli hanno studiato nelle università occidentali, e metà di loro sono sposati con europei.
E’ vero che Ollanta con la famiglia è un po’ in rotta, al momento. O meglio, la famiglia è un po’ in rotta con lui. Lo accusano, tra l’altro, di avere utilizzato il movimento etnocacerista all’inizio della campagna e di averlo scaricato quando era diventato politicamente ingombrante. Solo il fedelissimo Antauro (quello dell’assalto al commissariato) non lo rinnega.
E va detto che, per il momento, nemmeno Ollanta rinnega Antauro. Ha puntualizzato soltanto, con la consueta prudenza, che lui con quell’assalto non c’entra, e che condanna lo spargimento di sangue. In altre parole, ancora una volta dice e non dice e si chiama fuori.