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Così Obama perse la bussola

12 dicembre 2010

 

Di Massimo Cavallini

 

“Narrative” – termine la cui più consona traduzione italiana è, probabilmente, “filo conduttore” – è, da qualche tempo, diventato parte essenziale del lessico politico americano. Ed è anche, a tutti gli effetti, il vocabolo più usato per spiegare, in negativo, le ragioni della batosta elettorale che, lo scorso novembre, ha, per i democratici, marcato il giro di boa del “mezzo termine”. Barack Obama – questo è il refrain che i politologi d’ogni colore hanno cantato nell’ultimo anno e, quindi, ribadito in assordante coro dopo il verdetto delle urne – è stato duramente punito dagli elettori (o da loro impietosamente “shellacked”, bastonato, come lo stesso presidente ha ammesso regalando al politicese un nuovo e già inflazionatissimo neologismo) perché ha,  in sostanza, perduto la sua “narrative”. O, per l’appunto, perché si è lasciato sfuggire di mano il filo conduttore, la capacità di “narrare” e rendere comprensibile al volgo la trama della sua presidenza.

La (o il) “narrative” – un racconto fatto di cambiamento e di speranza – era stata, nel 2008, la chiave d’una vittoria che era sembrata riscrivere le regole della politica americana, depositando la Casa Bianca nelle mani d’un presidente nero il cui nome riecheggiava quello del più sinistramente noto tra i terroristi islamici. E quella stessa “narrative” – una “narrative” smarrita, in pratica, appena varcata la soglia della magione presidenziale – spiega oggi le ragioni della sua  repentina disfatta. Barack Obama ed il partito democratico hanno perduto – o, più correttamente, straperduto – le elezioni di mezzo termine, non tanto per quello che non hanno saputo fare, quanto per quello che non hanno saputo dire. Meglio ancora: perché hanno lasciato nelle mani del nemico il compito di raccontare la politica che, al governo, loro stessi  andavano realizzando. E tanto repentino, totale ed  inspiegabile è, a tratti, apparso quest’abbandono del “filo conduttore”, che ha finito per sbalordire gli stessi beneficiari : “Nulla mi sorprende più del fatto che, in appena 20 mesi, Obama abbia completamente perduto il controllo ‘of his presidency’s narrative’, del ‘racconto’ della sua presidenza”. Questo, alla metà dello scorso settembre – nell’approssimarsi dell’ecatombe del “mezzo termine” – aveva scritto, in un editoriale aperto sul Wall Street Journal, uno che di “narrative” se ne intende assai. Ovvero: Karl Rove, il super-consigliere, l’uomo che – meglio noto come “the Bush’s Brain”, il cervello di Bush – aveva, con il suo “racconto”, contribuito a garantire otto anni di permanenza alla Casa Bianca al di più intellettualmente mediocre tra i 44 presidenti degli Stati Uniti. E che oggi, intessendo il filo da Obama lasciato cadere, è tornato ad essere, tramite la poderosa lobby “American Crossroad”, uno dei grandi manovratori della politica americana.

Va da sé che la sconfitta elettorale di Obama non può essere esclusivamente – o anche soltanto prevalentemente – spiegata in termini di “narrative”, o di mancanza d’adeguata comunicazione. E non v’è dubbio alcuno che la disfatta trovi una sua (ci si passi il termine marxiano) strutturale ragion d’essere nella mancata ripresa economica. Come il politologo Douglas Hibbs – padre della cosiddetta analisi elettorale quantitativa – ha implacabilmente spiegato in un saggio pubblicato quasi un anno prima dell’appuntamento del “midterm”, Obama ed i democratici hanno perso perché, date le stagnanti condizioni di un’economia ancora prigioniera della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, non potevano che perdere la quasi totalità di quello che avevano guadagnato nel 2008. Questo – letti numeri e statistiche sulle quali solo in minima parte hanno influito, in negativo o in positivo, le politiche presidenziali – era scritto nel destino dei democratici. E questo – non importa quale sia stato il ”racconto” delle cose – è ciò che puntualmente è accaduto.

Altrettanto certo, tuttavia, è che il racconto delle cose, il modo con cui gli avvenimenti sono stati comunicati alla pubblica opinione ed alla pubblica opinione sono arrivati, ha inciso non poco sulle dimensioni della sconfitta. James Carville – un altro grande esperto di “narrative” elettorale, questa volta sulla sponda democratica – ha calcolato, non scientificamente, ma sulla base d’un intuito politico forgiatosi in mille battaglie (fu lui uno dei principali strateghi della vittoria di Clinton nel 1992), che il partito del presidente avrebbe potuto, con una più adeguata strategia di comunicazione, limitare a trenta seggi (contro la catastrofe degli oltre 60 perduti) l’emorragia nella Camera dei Rappresentanti.

Vero? Falso? Probabilmente vero, specie se considerato alla luce d’una contraddizione della quale oggi molto si discute. E della quale – è facile pronosticarlo – per molti anni continueranno a discutere storici e politologi. Coronati da una catastrofica sconfitta elettorale, i primi due anni della presidenza Obama sono stati, in realtà, tra i più produttivi nella storia degli Stati Uniti. Lo sono stati al punto da sollecitare (non sempre lusinghieri, ma comunque del tutto legittimi) paralleli con i bienni d’apertura che, negli anni ’30 e ’60, regnanti  Franklin Delano Roosevelt e Lyndon Johnson, regalarono all’America alcune tra le più importanti e durevoli riforme politico-sociali della sua ancor giovane esistenza: il sistema pensionistico del “Social Security”, il New Deal e le leggi antitrust del dopo-depressione, nel primo caso; il Medicare, le riforme della Great Society e le leggi per i diritti civili, nel secondo. Nei primi venti mesi del suo mandato, Obama ha fatto approvare, contro venti e maree, una riforma sanitaria che – arrivando laddove una mezza dozzina di presidenti, da Teddy Roosevelt in poi, non erano riusciti ad arrivare – finalmente raggiunge (almeno sulla carta e lungo molto contorti itinerari) il Santo Graal dell’assistenza universale; ha visto nascere il “Dodd-Frank Financial Reform Act”, la riforma finanziaria che (ancora una volta, sulla carta) mette Wall Street ed sistema del credito al riparo dagli eccessi che, nel 2008, li avevano portati  sulle soglie d’un completo ed apocalittico collasso; ha fatto approvare un programma di stimolo economico che – per quanto profeticamente definito del tutto insufficiente, ai fini della ripresa, da molti economisti della scuola keynesiana – ha probabilmente evitato che il paese precipitasse lungo la china della depressione. Ha salvato da morte certa, assumendo il temporaneo controllo della General Motor, l’industria automobilistica americana in piena bancarotta…

Tutto questo ha fatto Obama prima della sconfitta di novembre. E tutto questo è stato contro di lui raccontato, trasformandosi nel “senso comune” d’una caduta annunciata. La riforma sanitaria (popolarissima nel 2008) è diventata – nonostante non aggiungesse un solo centesimo al deficit pubblico – una dispendiosa e socialisteggiante “mostruosità”. La nuova normativa finanziaria s’è trasfigurata, nella nuova “narrative”, in una forma di inutile e vendicativa “class warfare”, lotta di classe, rivolta contro quei businessmen senza i quali l’economia non può funzionare. E, lo stimolo, è stato denigrato – spesso dagli stessi beneficiari – come un modo di gettar risorse al vento in tempo di crisi. In un recentissimo editoriale aperto sul New York Times, il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, ha chiamato tutto questo “The Humburg Express”, il treno delle frottole, rammentando come, sparando cifre del tutto inventate, i repubblicani abbiano trasformato l’Amministrazione Obama in una sorta di nuovo Leviatano impegnato ad ingigantire la burocrazia federale (rimasta in realtà ai medesimi livelli dei tempi di Bush) e pronto a divorarsi l’intero apparato economico e la libertà di tutti. È contro questo immaginario Leviatano che la destra americana è riuscita – sostenendo tutto ed il contrario di tutto – a dirottare su Obama le ansie e le paure di un paese ancora psicologicamente immerso in una recessione che proprio delle politiche della destra è riconoscibilissima figlia. Ed il tutto con indiscutibile, travolgente successo. Persino a Detroit – laddove più ovvi sono stati i positivi effetti della politica di Obama – gli operai salvati dall’acquisizione governativa, hanno votato in massa contro il presidente in carica…

Perché e come, dunque, Barack Obama ha perso, tra il 2009 ed il 2010, il filo del discorso cominciato nel 2008? Rispondere non è facile. E del tutto probabile è che una risposta unica non esista. Di certo, in questa storia da altri raccontata, c’è solo la conclusione. Ed il fatto che Obama ha bruciato sugli altari di un’illusione di grande riconciliazione nazionale – da sempre parte della sua visione della politica – un programma di rinnovamento che solo nel conflitto poteva prosperare. La sua ricerca d’amore in luoghi impossibili – o, per meglio dire, la sua ricerca di impossibili consensi tra i repubblicani – ha aperto, paradossalmente, la strada ad un periodo di rabbiosa faziosità che, marcato dalla crescita del cosiddetto “Tea Party”, probabilmente ha avuto pochi eguali nella storia del paese. Ed è proprio lì – in questa inestricabile canea di vecchio e di nuovo, di nostalgia per l’America bianca che fu e di timore per il futuro, di antichi pregiudizi e di nuove xenofobie, in quest’America più che mai divisa e spaventata, più che mai percorsa dall’ “Humburg Express”, che Obama ha perso il filo conduttore della sua presidenza, la capacità di raccontare se stesso al paese che, due anni or sono, l’aveva trionfalmente eletto.

Ed ora la domanda è: riuscirà Obama, nel 2011 appena cominciato, a riafferrare quel filo? Riuscirà, riafferrato quel filo, ad arrivare vincente all’appuntamento del 2012? O i risultati delle elezioni di mezzo termine non sono a conti fatti stati che il preludio d’una lunga deriva verso una nuova e definitiva sconfitta? Molto – ancora una volta – dipende dalla “narrative”. O da come (e da chi) verrà scritta la storia dei prossimi due anni. E per la verità qualcosa, nel racconto, già ha cominciato a cambiare. Anzi: già è cambiato al punto che – ennesimo paradosso d’una lunga serie – il 2010 s’è di fatto chiuso, per Obama, con un imprevisto “filotto” di note positive, da più d’un osservatore già battezzato con l’ironico, ma assai incoraggiante titolo di “The Lame Duck’s song”, la canzone dell’anatra zoppa. Più concretamente: con una serie di vittorie legislative giunte a coronamento di quello che lo stesso Obama ha definito, questa volta in piena sintonia con i media, il “più produttivo fine di legislatura della storia d’America”. Il vecchio Congresso, in procinto di cedere il passo al nuovo, uscito dalle urne lo scorso novembre, ha, infatti, uno dopo l’altro approvato – contro ogni previsione e grazie all’attivismo presidenziale – tre leggi di grande e molto “bipartisan” momento: l’assai controverso compromesso (tanto controverso, in effetti, da assomigliare all’esito d’un ricatto) che ha confermato per due anni le scandalose riduzioni fiscali da Bush a suo tempo concesse (e concesso senza copertura finanziaria) agli americani più ricchi, in cambio del prolungamento delle indennità di disoccupazione; la ratificazione del trattato START con la Russia per la riduzione degli arsenali nucleari; e, infine, la cancellazione della legge – la cosiddetta “Don’t ask, Don’t tell” – che di fatto precludeva agli omosessuali il libero accesso alle Forze Armate.

Appena tre acuti, tre passi di danza che (a parte forse il primo) si muovono, in realtà, ai margini delle grandi questioni attorno alle quali si giocherà la corsa presidenziale (di fatto già cominciata) del 2012. Ma abbastanza per rappresentare un segnale di vita, una prova – per parafrasare Mark Twain – di quanto altamente esagerata fosse stata, subito dopo novembre, la notizia della morte di Obama e dell’obamismo. Il passato insegna. Come Obama nel 2010 – ha rammentato la scorsa settimana, sul Washington Examiner, Michael Barone, uno dei più stimati politologi conservatori – anche Ronald Reagan nel 1982 e Bill Clinton nel 1994 erano usciti “shellacked”, con le ossa rotte, dalle elezioni di mezzo termine. Ed entrambi hanno poi trionfalmente vinto, due anni più tardi, la corsa per la rielezione alla presidenza. Accadrà la stessa cosa ad Obama? Misurare allo stato delle cose la probabilità d’un simile evento – scrive Barone – è del tutto azzardato. E moltissimo, ovviamente, dipende dall’andamento di un’economia che – contrariamente a quanto avvenne dopo l’82 e dopo il ’94 – difficilmente s’eleverà al di sopra dei livelli d’una asfittica ripresa. Certo è, tuttavia, che a vantaggio del presidente in carica giocano – ben al di là dei catastrofici esiti del “mezzo termine” – almeno tre fattori. Il primo: per quanto “bastonato” dagli elettori, Barack Obama continua a mantenere livelli di personale popolarità – un rispettabile 49 per cento – di diversi punti più alto di quello che, nell’82 e nel ’94, gratificava Reagan e Clinton. Il secondo: l’appuntamento del 2012 dovrebbe, per la sua importanza, riportare alle urne i settori sociali – i giovani, i neri, gli hispani, i “nuovi americani” in genere – che nel 2008 hanno votato in massa democratico e che, nel 2010, hanno ingrossato i ranghi, tradizionalmente amplissimi, degli astenuti . Il terzo (e più importante): adesso, dopo il trionfo del mezzo termine, anche il partito repubblicano deve cominciare a raccontare se stesso. O meglio: deve definire la “narrative” della propria sfida presidenziale ad Obama.

E non sarà un racconto facile. Fino a ieri, il filo conduttore della politica del Grand Old Party è stato molto semplice e molto semplicemente definito dalle parole di Mitch McConnel, stagionato leader della minoranza repubblicana al Senato: far tutto quello che serve perché Obama sia un “one term president”. Il che è stato abbastanza per cavalcare la tigre del malessere contro un avversario perduto dietro l’irrealistico sogno bipartisan (o post-partisan come Obama ama definirlo) di coinvolgere nella sua politica un partito capace soltanto di desiderare la sua caduta. Ed abbastanza, anche, per vincere il “midterm” oltre ogni più rosea attesa. Troppo poco, invece, per sperare di riconquistare la Casa Bianca tra due anni. I sondaggi parlano chiaro: “shellacked” nelle elezioni del mezzo termine, Barack Obama è ancor oggi in grado di battere piuttosto agevolmente tutti i potenziali candidati repubblicani (perlopiù collaudate mediocrità già esibitesi nelle primarie del 2008). Ed il suo vantaggio sulla grande eroina del trionfante Tea Party – l’ineffabile Sarah Palin, che già tanto contribuì ad affondare le speranze di John McCain nel 2008 – appare addirittura abissale.

E proprio questo è, se vogliamo, l’ultimo paradosso di questa paradossale vicenda. Il trionfante Partito Repubblicano sta, per molti aspetti, assai peggio del nemico che ha appena malmenato nelle urne. E rischia ora di essere affossato dalle stesse forze che l’hanno trascinato alla vittoria. Obama ha una “narrative” da ritrovare (anche se la sua parte più innovativa, quella della lotta alla diseguaglianza, è, probabilmente, già perduta senza rimedio). I repubblicani hanno invece una “narrative” – quella alternativa al “no” a tutto – da inventare. Il racconto della corsa del 2012 ricomincia da qui. Vincerà chi lo scrive. Ma chi lo scriverà (e come lo scriverà) è impossibile dire.

 

 

 

 

 

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