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Obama e la moschea: un passo avanti e due indietro

21 agosto 2010

Di Massimo Cavallini

Breve aggiunta all’ultimo post dedicato alla cosiddetta “moschea di Ground Zero” ed all’ondata di islamofobia e xenofobia sulla quale il Partito Repubblicano – o quel che resta d’un Partito Repubblicano ormai prigioniero degli estremismi del Tea Party – cerca (apparentemente con successo) di costruire le sue fortune elettorali in vista del prossimo appuntamento del “midterm”. Vedo che molti –tra gli altri, su queste pagine, Furio Colombo e Angela Vitaliano – hanno sottolineato il “coraggio” con il quale Barack Obama è intervenuto nella polemica. Devo – con infinito dolore – testimoniare il mio disaccordo. E soprattutto devo – con ancor più profondo rammarico – rimarcare come non in questi termini quell’intervento (anzi: quell’intervento più la successiva rettifica), sia stato in effetti accolto dall’America che, in queste settimane, ha difeso il diritto e l’opportunità di costruire quella moschea.

Diritto ed opportunità. Ecco: questi sono i due termini – ineludibilmente interconnessi – del confronto. Ed è proprio tra questi due termini che Barack Obama ha finito per perdersi, replicando quella che, in questi 20 mesi, sembra esser diventata una costante della sua presidenza. Ovvero: ha una volta di più smarrito se stesso nella terra di nessuno d’un centrismo senza qualità, in una nebbiosa morta gora nella quale ogni sua parola finisce, immancabilmente, per esaltare quanti lo odiano e per deprimere quanti lo amano.

I fatti. Venerdì scorso, parlando nel corso della cena che la Casa Bianca ha offerto in occasione del Ramadan (una tradizione che, pensate, risale a Thomas Jefferson), Barack Obama ha ribadito, con la consueta eloquenza, come la libertà di culto sia un elemento portante della democrazia americana: “Come cittadino e come presidente – ha detto – io credo che i mussulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la propria religione che ha chiunque altro”. E questo, ha aggiunto, “include il diritto di costruire un luogo di culto in Lower Manhattan, nel rispetto delle leggi e dei regolamenti locali. Questa è l’America. Ed il nostro impegno nella difesa della libertà di religione non può conoscere tentennamenti”. Parole che, davvero, sembravano inequivocabili. Inequivocabili ed anche coraggiose, perché uscite dalla bocca d’un presidente che la parte più sbracata della destra (che è oggi la quasi totalità della medesima) ama definire – o, per meglio dire, lasciar credere che sia – un “mussulmano” (il tutto, peraltro, con un certo successo, visto che proprio questo, secondo un’inchiesta pubblicata ieri, crede un quinto degli americani). Parole, quelle di Obama, che, proprio perché inequivocabili e coraggiose, avevano anche (e prevedibilmente) d’acchito infiammato l’isteria dei nemici della moschea (tra i quali vanno annoverati  – per opportunismo o per convinzione – anche alcuni imprevedibili ospiti: tra gli altri, l’Anti Defamation League, nonché, da ieri, l’ex super-liberal segretario del Comitato Nazionale Democratico, Howard Dean).

E di quelle fiamme, evidentemente, Barack Obama ha sentito il calore al punto che, ventiquattrore più tardi, dopo una notte che, in apparenza, gli ha portato tutti i consigli peggiori, ha “rettificato”. In che modo? Sottolineando come le sue osservazioni del giorno prima, non fossero, a conti fatti, che un’annotazione d’ordine legale. “I non ho inteso, né intenderò in futuro – ha precisato – esprimere un parere sull’opportunità di costruire una moschea in quel luogo”. Il suo commento – un commento più da avvocato, a quel punto, che da leader politico – non riguardava dunque che, in generale, la libertà di culto. E non esulava dal territorio del diritto. Tutto qui. Peccato che – ridotto a questi minimi termini – il discorso di Obama finisse per non distanziarsi granché da quello ribadito dai nemici della moschea. Se si esclude infatti qualche superfanatico, nessuno – neppure l’ineffabile ed ormai onnipresente Sarah Palin – ha mai a parole negato la libertà di culto dei mussulmani. Quello che ai mussulmani viene ufficialmente negata è, per l’appunto, “soltanto” l’opportunità di costruire una moschea a tre isolati di distanza da Ground Zero. Perché? Perché costruirla è un offesa  alle vittime dell’attentato dell’11 settembre. E perché è un’offesa alle vittime? Evidentemente perché quel crimine va ritenuto come l’opera, non d’una setta di fanatici assassini, ma (con varie gradazioni) di tutto l’Islam. “È come se si volesse porre una svastica all’ingresso del museo dell’Olocausto” ha detto qualche giorno fa Newt Gingrich (quello della vittoria repubblicana del ’94), in una delle più volgari tra le molte volgari comparazioni fatte in questi mesi.

Il vero dibattito è sempre stato, non attorno alla legalità della costruzione (quasi mai negata, dopotutto la Costituzione parla chiaro), ma, per l’appunto, attorno alla sua opportunità. E soprattutto alle ragioni – alla visione dell’Islam – che fanno di quella costruzione “un gesto inopportuno” o, come più spesso si afferma, “un insulto”. Ed ha perfettamente ragione il Washington Post quando sottolinea, in un suo editoriale, come, proprio su questo punto Barack Obama avesse il dovere di misurare la sua capacità di leadership politica, una volta deciso di entrare nella polemica. C’è una parte d’America che è convinta che l’Islam sia, in quanto tale, responsabile degli attentati. E non vuole moschee, in realtà, né nel sud di Manhattan, né in alcun altro luogo (come testimoniano le manifestazioni anti-Islam che, organizzate dal Tea Party, si stanno svolgendo in ogni parte del Paese). Quella della distanza da “Ground Zero” non è, in ultima analisi, che una scusa, un’occasione per lanciare – con fini che vanno al di là delle elezioni di novembre – una campagna islamofobica (o, più in generale, xenofobica) a tutto tondo. La prova? Almeno due moschee già esistono nella zona. Ed una moschea – creata poco dopo l’11 settembre – funziona  da anni all’interno del Pentagono, che di quegli attentati fu un altro degli obiettivi (quasi 300 morti). Perché, dunque, proprio il “Cordoba Center” rappresenta un “insulto”? Semplice. Perché il “Cordoba Center” si pone, non come una qualunque moschea, ma come uno strumento di dialogo, come testimonianza di un Islam che rifiuta la violenza e che si sente parte dei “valori dell’Occidente”. L’Imam Feisal Abdul Rauf, che di quel centro è il promotore – e di cui ora, gli islamofobi vanno freneticamente setacciando tutte le dichiarazioni in cerca di “prove di estremismo”  –  è sempre stato un convinto assertore di questo incontro. E proprio questo – la sua ricerca del confronto – è quello che davvero disturba (fatta salva la buona fede di alcuni) i nemici della moschea. Il vero insulto è parlare di pace di fronte a chi vuole la guerra.

Molti si sono chiesti, in questi giorni, dove sia finito il Barack Obama del discorso del Cairo. Ovvero: il presidente che aveva – in quel caso davvero con coraggio – posto al centro del suo programma l’inizio di un dialogo “rispettoso e profondo” con l’Islam, inteso, non solo come necessità d’un mondo che si va globalizzando, ma come indispensabile premessa della lotta ad un terrorismo che – in piena sintonia con gli islamofobi – pretende di rappresentare tutto l’Islam. E su il New York Times, Maureen Dowd ha ieri, con una certa perfidia, fatto notare come, con il suo duplice discorso (un tipico “flip-flop”), Obama sia rimasto “molto al di sotto” del molto (e molto giustamente) vituperato George W. Bush, l’uomo che, pure, ha regalato al mondo (ed all’estremismo islamico) le guerre in Afghanistan ed in Iraq. “Questa guerra contro i terroristi – ha scritto la Dowd – non è una guerra contro l’Islam. Anzi: è impossibile condurre una guerra efficace contro i terroristi, se questa guerra è, contemporaneamente, una guerra all’Islam. George W. Bush lo aveva capito (sia pure solo a parole n.d.r). Ed è strano constatare come in Obama, questo principio, sembri essere meno chiaro che nel suo predecessore”.

Strano e molto triste. Non resta che sperare, a questo punto, in una rettifica della rettifica.

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