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Obama contro se stesso

O meglio: contro i fantasmi del passato – Di fronte a sé il candidato democratico ha un candidato di risulta (John McCain) ed un partito (il repubblicano) ormai ridotto ad un guscio vuoto. E tuttavia ancora capace di batterlo facendo leva sulla paura del nuovo

 

22 luglio 2008

di Massimo Cavallini

 

Barack Obama – o Barack Hussein Obama, come, con ammiccante pedanteria, lo chiamano quelli che, detestandolo, sperano di dipingerlo come una quinta colonna dell’estremismo islamico – è, da ieri, con tutti i crismi dell’ufficialità, il candidato del partito democratico alla carica di 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America. E quando quest’articolo verrà letto (se mai qualcuno si prenderà la briga di leggerlo), la sua nomina già sarà stata spettacolarmente suggellata (fatto, questo, che vanta un solo precedente, quello di John Kennedy nel 1960 – vedi l’articolo di David Broder sul Washington Post) da un “oceanico” discorso d’accettazione, non nel centro Pepsi dove s’è consumata la Convention, ma nello stadio Iveco di Denver, di fronte a 70mila persone. Oceanico e – anticiparlo è fin troppo facile – illuminato dalla straordinaria, trascinante eloquenza che, di Obama, è da sempre, ammirato o deriso, il riconosciuto marchio di fabbrica. Il tutto, al termine d’una Convenzione che – a dispetto delle attese dei cronisti, come sempre assetati di sangue – è stata , in ogni suo momento, un quasi assordante inno all’unità del partito. Martedì notte, Hillary Rodham Clinton – la grande rivale che, in queste ore, gli spot televisivi repubblicani vanno sfacciatamente dipingendo come una martire da vendicare – aveva pubblicamente e senza riserve dichiarato il suo appoggio ad Obama. Ed altrettanto, la notte seguente, aveva fatto l’ex presidente Bill Clinton, addirittura tracciando un lusinghiero parallelo tra se medesimo – ovvero: tra un “giovane governatore dell’Arkansas che, nel 1992, i repubblicani definivano, anche allora, troppo immaturo ed inesperto” – ed il nuovo aspirante democratico alla Casa Bianca. Poco più tardi, nel bel mezzo del “roll call” – la chiamata dei delegati per le dichiarazioni di voto – è stata la stessa Hillary a chiedere che il processo venisse sospeso e che la nomina del candidato presidenziale avvenisse per acclamazione…

Insomma un trionfo, un tripudio di applausi e di lacrime. Anzi, soprattutto di lacrime, come vogliono le regole d’una rappresentazione politica (quella, per l’appunto, delle convention) il cui forse più importante scopo è diventato, nell’epoca del dominio della televisione, quello di mettere in luce, tra verità e spettacolo, il famoso “lato umano” dei candidati, il loro essere padri, mariti, figli, gente di straordinarie ambizioni, ma di comunissimi sentimenti. Denver ha, in questo senso regalato, grazie alla perizia degli organizzatori ed all’attenzione della regia televisiva, scene memorabili. Su tutte: il primo piano – uno splendido “close up” – sul volto di Michelle Obama, mentre Beau Biden, figlio di Joe Biden, il senatore del Delaware nominato alla vicepresidenza, narrava ai microfoni della morte della madre e della sorella più piccola in un incidente d’auto. Era il 1972, Joe Biden, appena eletto senatore, si trovava a Washington. Il Natale s’approssimava ed a Scranton, in Pennsylvania, era tempo di comprare l’albero. Un’uscita in macchina. Neilia Biden, lui, il fratello Hunter e la piccola Amy, nata appena qualche mese prima. Un camion. Uno scontro. Ed un bambino che solo vagamente rammenta come la cerimonia di giuramento del padre si sia svolta accanto al suo letto d’ospedale. Ma che ben sa – ed oggi racconta con la contenuta commozione di ultraquarantenne divenuto Attorney General dello Stato – come quel padre lo abbia da allora accompagnato per il resto della sua vita. Come un’ancora. Come un amico e come una guida. Come un esempio. Come una presenza che ha compensato, ogni giorno, la tragedia , le assenze di quel giorno lontano…

Joe Biden, occorre ricordarlo, ha tenuto un eccellente discorso di accettazione. Ma di tanta eccellenza non sarebbe probabilmente rimasta grande traccia (i vicepresidenti sono, dopotutto, soltanto delle ombre) non fosse stato per quella storia – coronata dalla gioiosa presenza sul palco dell’intera famiglia, la madre ultranovantenne ed una sterminata tribù di bambini – e per quelle lacrime. O meglio: per quella lacrima che, colta dagli obiettivi delle telecamere, ha rigato il volto di Michelle per la felicità degli esperti d’immagine del partito. “Avete visto? – s’è affrettato a dire ai microfoni di Cnn, il mitico James Carville, uno degli uomini che, nel ’92, portarono Clinton alla vittoria – Michelle è stata descritta come una ‘nera arrabbiata’. Vi sembra che quella lacrima appartenga ad una persona arrabbiata?”

Tutto perfetto, dunque. E certo è che i democratici escono da questa Convenzione meglio di come erano entrati lunedì scorso, accompagnati, com’erano, dal fantasma, se non d’una possibile divisione, quantomeno del riemergere palese dei rancori lasciati dalla lunga e feroce stagione delle primarie. Niente di tutto questo. Niente, al punto che, sul fronte dei media, i più irriducibili teorici della divisione si ritrovano ora ad ipotizzare il fatto che proprio in quell’eccesso di unità si celi, in effetti, una “pillola avvelenata” per Obama. In sostanza: i Clinton avrebbero tanto entusiasticamente abbracciato la causa dell’unità (e, di conseguenza, quella della candidatura di Barack Obama) al solo e macchiavellico scopo di monopolizzare i lavori della Convention e di mettere il ombra il candidato nominato.

Sciocchezze. Eppure, al di là della nostalgia per la battaglia che non fu (quella tra i Clinton ed Obama), un fatto è certo. Nonostante tutto, scacciato il fantasma della divisione, i democratici escono da questa Convenzione ancora pieni di paura, inseguiti dai molti altri spettri (spettri di sconfitte) che hanno accompagnato tutta la loro storia. Il primo, paradossalmente, è proprio quello del loro successo. Barack Obama è un fantastico candidato, una meteora di straordinaria luminosità che, ovunque vada, attrae grandi folle ed uragani d’applausi. E di fronte a lui ha un concorrente di risulta (McCain ha vinto le primarie repubblicane quasi per caso, più per l’insipienza degli avversari che per meriti propri) che rappresenta un partito allo sbando. Ed è esattamente questa combinazione di fattori – apparentemente favorevolissima – a suscitare una malcelata ansia. Dopo otto anni di George W. Bush e Dick Cheney il movimento conservatore americano è, di fatto, un guscio vuoto. Ma proprio perché vuoto d’idee di forza d’attrazione, questo guscio ha moltiplicato la sua capacità di produzione di propaganda negativa. Più esattamente: ha moltiplicato la sua capacità – elevata in questi anni allo stato d’arte da Karl Rove, il rasputiniano assistente di George W. Bush – di colpire (facendo male) non nei punti d’apparente maggior debolezza del fronte nemico, ma nei suoi punti di, altrettanto apparente, maggior forza. Ricordate John Kerry? Il suo punto di forza era, o sembrava essere, nel 2004, quello di essersi coperto di gloria e di medaglie in Vietnam (ed il tutto a fronte di un George Bush che, grazie alle raccomandazioni del padre, s’era imboscato nella Guardia Nazionale). Orbene, attraverso la famosa campagna dei “swifboat” – una serie di provate menzogne a proposito degli eventi che avevano provocato la decorazione di Kerry – questi punti di forza s’erano rapidamente trasformati in palle al piede.

Obama piace? Obama attira grandi folle? Proprio questo dimostra che è soltanto una sorta d’hollywoodiana celebrità (uno spot televisivo lo ha paragonato a Britney Spears) incapace di dirigere la più grande potenza del pianeta. Obama viene accolto all’estero come un grande leader? Segno che non è abbastanza americano (sullo schermo scorrono le immagini della straordinaria folla che, a Berlino, ha riempito il Tiergarten). Obama è intelligente? Certo. E proprio per questo appartiene ad una elite intellettuale incapace di comprendere i problemi della gente che lavora…

Sembrerà strano, ma non pochi strateghi democratici, stanno in queste ore partendo da Denver con la non dichiarata eppur ovvia convinzione che il bagno di folla che ha concluso la Convention, possa alla lunga giocare contro il candidato democratico. Così come nel 1908 – corsi e ricorsi della storia, l’ultima volta che la Convention democratica si svolse a Denver – i grandi successi di folla alla lunga giocarono, nella corsa contro lo scialbo William Howard Taft, a sfavore di William Jennings Bryan (uno dei più grandi populisti della storia americana che, tuttavia, nonostante tre tentativi, non riuscì mai a diventare presidente). L’antidoto? Scendere nello specifico, abbandonare l’affascinante, ma vaga predicazione del “nuovo – “yes, we can” – a favore di una dettagliata illustrazione di programmi e di proposte. Unico problema: scacciato in questo modo lo spettro populista, questa linea richiama un altro ed ancor più terrificante fantasma: quello di Michael Dukakis, il governatore del Massachusetts che, nel 1988, consumò in un mare di noia il grande vantaggio che, in estate, lo separava da George Bush il Vecchio…Spostarsi più a sinistra? Ecco profilarsi l’ombra tetra di George McGovern, massacrato nel 1972 da Richard Nixon…

Ogni angolo, un fantasma. Ogni svolta, un brutto ricordo. Barck Obama comincia così, tra trionfalismo e paura, una corsa che lo vede, di fatto, unico concorrente. Ed il suo vero problema è, per l’appunto, quello di riuscire ad essere se stesso correndo contro se stesso. Sembra uno scioglilingua e invece è la vera chiave – una chiave che ancora nessuno sa quali porte possa aprire – di questa corsa presidenziale.

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