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OBAMA!

L’America, democrazia fondata da proprietari di schiavi, elegge il suo primo presidente nero

 

3 novembre 2008

di Massimo Cavallini

 

Barack Obama ha vinto. L’America – democrazia fondata da proprietari di schiavi – avrà, dal prossimo 20 gennaio, un presidente di pelle nera. La sentenza è arrivata alle ore 9,30 della East Coast (3,30 di stamane in Italia), quando, sulle grandi mappe delle reti televisive, lo Stato dell’Ohio si è, inesorabilmente, colorato di blu. E, soprattutto, quando i suoi 20, decisivi voti elettorali sono, altrettanto inesorabilmente, passati nella casella di Barack Obama. L’Ohio era, per John McCain, una sorta d’ultima frontiera, quel che restava della sua speranza – già alla vigilia piuttosto remota – di raggiungere la fatidica soglia dei 270 voti elettorali. Il responso delle urne era stato, fino a quel momento, perfettamente in linea con le attese. John McCain era andato conquistando, mano a mano che i seggi si chiudevano e le prime proiezioni cominciavano ad arrivare, tutti gli Stati che i sondaggi già gli avevano attribuito come “certi”: Kentucky, Alabama, Tennessee, pezzi dell’ “America profonda” dove il candidato repubblicano non poteva non vincere. Ed Obama aveva , come previsto, fatto suoi tutti gli Stati del Nordest: dal piccolo Vermont, al Massachusetts, a New York. Poi, alle 8,30, erano arrivati i risultati (tutt’altro che scontati) della Pennsylvania. E la vittoria di Obama aveva cominciato a prendere corpo.

La Pennsylvania era, infatti, uno degli Stati nei quali una possibile rimonta repubblicana poteva, in teoria, cominciare a materializzarsi, contro la spietata realtà dei sondaggi. Più specificamente: era lo Stato nel quale il voto del “blue collars”, gli operai di pelle bianca poteva – nelle speranze repubblicane – materializzare nelle urne il molto discusso e temuto “effetto Bradley”, la grande incognita della resistenza razziale al voto per il nero, l’ostilità (presente anche se non registrata dai radar dei sondaggi) verso un candidato dipinto dai suoi avversari (inclusa la Hillary Clinton delle primarie) come “elitario” e lontano dai sentimenti dei lavoratori e del proverbiale “uomo della strada”. Ma in Pennsylvania, dicevano ora con chiarezza le proiezioni, Obama aveva vinto. E vinto bene. Era il primo segnale di quello che stava per arrivare.

Alle 9,30, anche se il voto popolare indicava una battaglia ancora molto ravvicinata (con Obama al 50 per cento dei voti e McCain al 49), la molto specifica aritmetica elettorale americana (quella dei collegi elettorali), già parlava un linguaggio inequivocabile. Barack Obama aveva 194 voti elettorali (contro i 99 di John McCain). E considerato che nulla – tranne un sisma elettorale di apocalittiche dimensioni – poteva togliere al candidato democratico il pacchetto di 73 voti dei tre Stati della West Coast (California, Oregon e Washington), Obama si trovava a quel punto, con 267 voti, ad un passo dal traguardo. Ergo: John McCain doveva vincere in tutti i restanti Stati ancora in bilico: a cominciare, per l’appunto, dall’Ohio, tradizionale “battleground State”, lo Stato “campo di battaglia” senza il quale nessun candidato repubblicano è mai riuscito a conquistare la Casa Bianca. Barack Obama, annunciavano le proiezioni, aveva vinto in Ohio. Il che significava che Obama era ormai, virtualmente, il nuovo presidente degli Stati Uniti. Nell’hotel Biltmore di Phoenix, dove John McCain aveva stabilito il suo quartier generale in attesa dei risultati, le bandiere cominciavano ad ammainarsi. Ed alle 11 esatte della notte (cinque di stamane in Italia), quando i voti della West Coast proiettavano infine, d’un colpo, Obama a 297 voti, ben oltre la meta, esplodeva la gioia nel Grant Park di Chicago, tra le placide acque del lago Michigan e le luci dei grattacieli della più nera metropoli degli Stati Uniti. O meglio: della città dove il nero Obama, “anomalo” frutto del matrimonio tra uno studente keniano ed una bianchissima ragazza del Kansas, s’era infine incontrato, dopo il più anomalo dei percorsi – dall’Indonesia, alle Hawaii, all’università di Harvard – con la realtà dell’America nera.

È stata, quella esplosa a Chicago, una gioia incontenibile, “storica”, carica di un’emozione che le parole possono difficilmente raccontare o spiegare. E carica, anche, di simboli che non si possono ignorare. Il Grant Park fu, nel fatidico anno 1968, il luogo dove, nell’ombra cupa della guerra in Vietnam e nel fuoco dei violentissimi scontri che marcarono la Convezione democratica, morì il vecchio partito democratico. La nuova maggioranza repubblicana che, prima con Nixon e poi, più marcatamente, con Reagan, avrebbe (con le parentesi di Carter e Clinton) governato l’America nei successivi 40 anni, era, di fatto, nata lì, tra i fumi acri dei lacrimogeni, sulle ceneri d’un partito che non aveva saputo cogliere il nuovo e rappresentare un paese in fermento. Un paese che aveva, in quello stesso anno, visto perire nel sangue, con Martin Luther King e Bob Kennedy, i suoi sogni e le sue speranze.

E lì, ieri, la speranza è rinata, tra canti e lacrime, celebrando la vittoria d’un candidato nero con nome mussulmano. Nessuno avrebbe, fino a solo qualche mese fa, potuto immaginare nulla di simile. Nessuno avrebbe potuto immaginare una vittoria che, a dispetto della sua imprevedibilità, è stata molto più di una semplice sommatoria di voti. Perché la vittoria di Obama è al contrario – e questo è il suo aspetto più interessante – il frutto di un movimento di base costruito con pazienza, facendo leva su forze in grande prevalenza nuove. La speranza è rinata dove era morta, nel Grant Park di Chicago. E con la speranza si va ora delineand, quello che gli analisti politici chiamano un “nuovo ordine”. Con le elezioni di ieri i democratici hanno conquistato anche una maggioranza nei due rami del Congresso che consegnerà alla prossima presidenza un inusitato potere di decisione a fronte di una crisi economica che, per la sua epocale profondità, reclama misure radicali.

Gli orizzonti sono cupi. I tempi – come Obama ha prevedibilmente sottolineato nel suo discorso di fronte alla folla estasiata del Grant Park, sono difficili ed incerti. “Due guerre, il pianeta in pericolo, la più grave crisi finanziaria in un secolo, ha ricordato il vincitore. Ma l’America, ha aggiunto, ha cominciato ieri il nuovo cammino accettando – come sempre è stato nella sua Storia – la sfida del futuro. “Se qualcuno si chiedeva se l’America fosse ancora se stessa, se ancora fosse il paese dove i sogni dei nostri padri si realizzano, questa è la risposta”.

Così ha parlato Obama, nel suo primo discorso da presidente eletto, ripercorrendo in poche parole – con tutto il carisma e con tutta l’eloquenza che lo hanno portato alla vittoria, con i toni del maestro più che con quelli del comiziante – l’intera storia d’una democrazia la cui forza deriva, ha detto, dalla sua costante “imperfezione”, dalla sua capacità di cambiare continuamente se stessa. E adesso si ricomincia di nuovo, si volta nuovamente pagina. Domani – come recita la più famosa battuta di “Via col Vento” – è davvero, per l’America e per il mondo, un altro giorno. Yes, we can.

 

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