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Gli esorcisti

 

13 gennaio 2007

di Massimo Cavallini

 

Ormai è chiaro: un cosmico complotto – gigantesco e mostruoso come un drago dalle cento teste, ma nel contempo capace di celarsi, come una serpe, tra le righe di messaggi apparentemente innocui – sta avvelenando, con quotidiana perversità, l’intero sistema dell’informazione. Obiettivo della diabolica trama: denigrare i leader progressisti dell’America Latina (Fidel Castro e Hugo Chávez in prima fila) dimenticandosi di tutti gli orrori e di tutte ingiustizie che riempiono l’universo. O, all’inverso: dimenticarsi di tutti gli orrori e di tutte le ingiustizie dell’universo denigrando i leader progressisti latinoamericani. Cambiando l’ordine dei fattori, notoriamente, il prodotto non cambia. E, in questo caso, il prodotto inesorabilmente rivela – come con apocalittici toni denuncia Gianni Minà sull’ultimo numero di Latinoamerica – una “irreversibile crisi di credibilità del giornalismo”.

Per quale motivo – potrebbe chiedersi qualcuno – i protagonisti di questa tentacolare cospirazione dovrebbero nascondere i mali del mondo per denigrare Fidel (o, al contrario, denigrare Fidel per nascondere i mali del mondo)? La lettura degli editoriali di Minà – o meglio, la rilettura del medesimo editoriale che, mutatis mutandi, Minà va scrivendo e riscrivendo su Latinoamerica da due anni a questa parte – non aiuta in alcun modo a svelare l’arcano. Ma senza esitazione addita i veri responsabili di tanta bruttura. Sono quei “reporters san frontières” che di recente (citiamo da Minà) “puntuali come orologi svizzeri…hanno intasato la rete telematica su un caso cubano, quello del giornalista Guillermo Farinas, che sta facendo lo sciopero della fame perché all’agenzia indipendente da lui fondata le autorità del suo paese negano l’accesso a Internet”. E questo mentre bellamente sorvolano sul “banale (pregasi notare l’ironia dell’aggettivo n.d.r.) infortunio occorso a ben 17 giornalisti uccisi in Iraq dal ‘fuoco amico’, cioè dei marines dell’armata di occupazione Usa”.

Che si tratti d’una macchinazione luciferina – fatta di grida e di silenzi – non può esserci dubbio alcuno. Provate a pensarci: “Reporters sans frontières” è un associazione fondata per difendere la libertà di stampa nel mondo. Eppure – come Minà instancabilmente torna a ricordarci in ogni articolo – si trova al centro d’un universale intrigo teso a far sprofondare il giornalismo nella succitata “irreversibile crisi di credibilità”. Non esitando, nel perseguire questo tenebroso obiettivo, a ricorrere ai più subdoli ed ingegnosi sotterfugi. Andate, infatti – se la discesa agli inferi non vi spaventa –, a dare un’occhiata al sito web di Rsf: nella pagina d’apertura, non troverete affatto – come sarebbe lecito attendersi – una denuncia della violazione della libertà di stampa a Cuba, ma – in un ovvio tentativo di depistaggio – proprio un elenco (nome, cognome, testata, circostanze della morte) dei giornalisti uccisi in Iraq (che sono non 17, come reclama Minà, bensì 86). Nella casa del diavolo, com’è noto, ogni cosa – il Bene ed il Male, la Verità e la Menzogna – appare capovolta e confusa in un (ovviamente) infernale gioco di specchi…

Fortuna vuole che, contro gli effetti di questa perfida trama (di cui le attività di Rsf non sono che la classica punta dell’iceberg) si vada ogni giorno mobilitando una sorta di “pronto soccorso”. O, se si preferisce, un piccolo ma assai motivato gruppo di esorcisti pronti a scovare (ed a debellare) il demonio ovunque esso si trovi. Alla guida dell’ambulanza (o della processione) c’è naturalmente il summenzionato Minà. Ma al suo lato sempre più spesso si nota, da qualche tempo, il professor Gennaro Carotenuto. E sempre più evidente appare come, in elegante gioco di squadra, i due si muovano sulla base d’una dinamica ed originale interpretazione dell’antichissimo detto: il diavolo si nasconde nei dettagli. Più in concreto: mentre Gianni Minà si occupa di attaccare direttamente il diavolo – ovvero: Robert Menard, fondatore di Reporters san Frontières (vedi il nostro articolo “Menando Menard”) – Carotenuto va a caccia di dettagli. Vale a dire: va a ricercare i molti satanelli che si nascondono nei più remoti e, talora, impensabili anfratti del mondo degli “italici media”.

Prendiamo, per meglio capire, la più recente di queste spettacolari performance esorcistiche. In ben due successivi articoli diffusi via e-mail da Latinoamerica – “se questo è giornalismo…” il primo, e “Come nasce una velina” il secondo – Carotenuto impietosamente e pubblicamente smaschera la congiura nascosta dietro un articoletto pubblicato giorni fa, a firma Omero Ciai, sul quotidiano la Repubblica. Come? Innanzitutto informandoci che quella che a noi, ingannati da Satana, era parsa una notiziola d’una cinquantina di righe, era invece, a dispetto delle apparenze, una “intera pagina” di giornale. Quindi rivelandoci, con straordinario acume, il terribile segreto che si cela nel nome stesso dell’autore (“qualcuno – scrive ammiccante Carotenuto – lo chiama CIA-i). E, infine, scoperchiando con quasi mistica furia i perversi meccanismi di disinformazione che si nascondono dietro quella che, a prima vista, poteva sembrare una innocua (quasi irrilevante) curiosità. Questa: Secondo il Daily Telegraph (ed anche secondo molte altri fonti) Cuba (che notoriamente è una delle capitali planetarie del baseball, ha cominciato – grazie anche ad un accordo siglato con la federazione britannica e all’aiuto di alcuni degli stati caraibici dove questo sport va per la maggiore – ad introdurre nell’isola quello che, del baseball, è un anziano e paludato antenato: il cricket. Il tutto con un certo successo, visto che, secondo la Tribuna de la Habana, nella sola capitale ci sono già almeno 500 giovani giocatori). Che cosa scrive, a tal proposito, il CIA-i? Dopo aver sottolineato come il baseball sia “lo sport preferito da Fidel e dai cubani”, ma abbia, nel contempo, creato anche “qualche problema al governo perché i buoni giocatori spesso lasciano l’isola per i contratti miliardari offerti dalle squadre del campionato americano”, aggiunge: “Pare che all’inizio Fidel Castro fosse molto scettico di fronte alle pressioni dei responsabili giamaicani e britannici, perché il cricket non è una disciplina olimpica e considerava superflua l’idea di favorire uno sport nel quale non avrebbe potuto battere gli americani…Ma a convincerlo sarebbe stato il fatto che dopo le prossime Olimpiadi a Pechino, nel 2008, neppure il baseball sarà più tra i giochi olimpici…”. Conclusione: per quanto Castro si sia, in questi anni, impegnato in molti tentativi di ingegneria sociale, agricola e persino zoologica, ben difficile è immaginare che stia davvero pensando di trovare un sostituto (o un surrogato) per uno sport che lui stesso ha praticato ricoprendo “tutti i ruoli, arbitro compreso, così era certo di non perdere mai”.

Lo confessiamo. La notizia ci aveva – prima che Carotenuto ci aprisse gli occhi – lasciato del tutto indifferenti. Ed al massimo ci aveva incuriosito il fatto che un paese diverso dalla Gran Bretagna (o dai paesi che, ai quattro angoli del pianeta, conobbero per un lungo periodo le meraviglie del colonialismo britannico) potesse anche solo ventilare l’idea di introdurre una pratica sportiva tanto irrimediabilmente noiosa. Non avevamo capito – e forse non potevamo capire – che ci trovavamo di fronte, non solo ad un lampante caso di velenoso anticastrismo, ma soprattutto al tentativo di nascondere, mettendo artatamente in primo piano quella che Carotenuto chiama una “non notizia” (o, per l’appunto, una “velina”), una “notizia vera” che all’anticastrismo avrebbe, al contrario, inflitto un colpo letale. Questa: Cuba è, contrariamente agli Stati Uniti, entrata nelle semifinali del Clasico Mundial, torneo di baseball tra selezioni nazionali in corso a San Juan di Puertorico dal quale il governo Bush aveva in un primo tempo, nel nome dell’embargo, tentato di escluderla. Scrive, quasi in trance, Carotenuto: “Purtroppo l’etnocentrismo razzista del quotidiano La Repubblica impedisce di capire che non tutto il mondo finisce in Europa o negli Stati Uniti. Nessun governo cubano avrà mai interesse ad estirpare il baseball. Ma Ciai nella sua supponenza non può limitarsi a far passare Castro come un tiranno. Deve anche farlo passare per un tiranno deficiente”. A noi era parso che CIA-i dicesse più o meno la stessa cosa (cioè che nessuno potrà mai estirpare uno sport che è parte della vita nazionale). Ma eravamo ciechi e sordi.

E da ciechi e sordi avevamo finito per credere che davvero, come malvagiamente insinuato da CIA-i (il quale, fa notare Carotenuto, non presenta in materia, né una tabella, né “un grafico, un diagramma a torta, a barre o come sia”) ci fosse stato un qualche esodo di “peloteros” cubani verso gli Stati Uniti. Avevamo a dato credito al fatto che Liván Hernández, giudicato il miglior giocatore dell’anno quando, nel 1997, vinse le World Series con i Marlins di Miami (oggi gioca negli Nationals di Washington DC), fosse un cubano giunto via Messico nel 1996, insieme a Luis Rolando Arrojo (oggi stella degli Yankees di New York), dopo avere abbandonato in quel paese la selezione nazionale cubana. Ed avevamo pensato che cubano fosse anche il suo famoso fratellastro, Orlando Hernández, detto “El Duque”, giunto negli Stati Uniti a bordo d’una zattera (balsa) nel 1998 insieme ad altre 8 persone. Così come a bordo di una balsa ci eravamo convinti fosse arrivato in Florida, nel giugno del 2004, Kendy Morales, considerato la più grande promessa del baseball isolano (con lui, sulla zattera c’era anche, con altre 17 persone, l’ex allenatore della nazionale cubana, Orlando Chinea). Tutti attratti – come molti altri giocatori latini – dai miliardi delle “grandes ligas”. Ma tutti, contrariamente agli altri, costretti a fuggire per raggiungerli.

Ora, grazie a Carotenuto, finalmente sappiamo. E ci sentiamo, per gratitudine, in dovere di restituire almeno un po’ della luce che gli esorcisti ci hanno regalato (anche se, purtroppo, si tratta di una brutta notizia). Gianni Miná e Gennaro Carotenuto appartengono, con tutta evidenza, alla categoria di coloro che leggono soltanto se stessi. E fanno naturalmente benissimo. Ma di tanto in tanto dovrebbero, per sicurezza, dare un occhiata, non tanto agli scritti che scomunicano, quanto a quelli che, previa benedizione, pubblicano su Latinoamerica. Il fatto è che – mentre loro andavano esorcizzando, a beneficio del mondo, l’anticastrismo che svilisce la dignità del giornalismo”, il nemico è penetrato in casa. Citiamo infatti dall’articolo di Wayne Smith, l’ex responsabile dell’Ufficio degli Stati Uniti a Cuba ai tempi di Jimmy Carter, da Minà chiamato, nell’ultimo numero della rivista, a scrivere un articolo sulla NED (National Edowment for Democracy). “Comunque, a prescindere dal fatto che il governo cubano sia repressivo come o più di quelli degli alleati statunitensi – scrive Smith – resta il fatto che si tratta di un governo repressivo. A Cuba c’è poco spazio per la libertà di espressione e di riunione, e ci si può ritrovare in carcere per la più arbitraria delle ragioni…”.

Nemmeno Lucifero Menard ed il satanello CIA-i avevano mai osato tanto. Il diavolo, ormai, non si nasconde più solo nei dettagli. È già in sacrestia e si appresta a bruciare la chiesa. Come risolveranno, adesso, il problema a Latinoamerica?. Con una cerimonia di “despojo”? O con un “acto dei auto-repudio?”

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