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Tea Time

13 febbraio 2010

 

Di Massimo Cavallini

 

Ricordate Joe the Plumber? Forse sì. La sua testona pelata – ed i suoi pensieri per molti aspetti ancor più rasi a zero – attraversarono come una meteora, a fine estate, la campagna presidenziale del 2008. Erano i giorni immediatamente seguenti la Convention repubblicana di St.Paul, chiusasi con quella che, allora, molti media definirono l’ “apoteosi di Sarah Palin”. E, nell’apoteosi, con il conseguente  risveglio dello “zoccolo duro” conservatore. Beppe l’idraulico – che, si scoprì poi, non era in effetti idraulico (plumber), né si chiamava Beppe (Joe)- apparve all’improvviso,  in quel di Toledo, Ohio, nella coda d’uno dei comizi di Barack Obama. Per intenderci: in uno di quei momenti in cui i candidati, terminato il discorso, ancora sotto gli occhi delle telecamere si concedono al classico “bagno di folla”, stringendo mani e baciando bambini. Perché mi vuole aumentare le tasse? aveva chiesto a bruciapelo Joe al futuro presidente. E quando quest’ultimo, con la consueta, didascalica pacatezza, gli aveva spiegato come, in realtà, lui le tasse intendesse ridurle a tutti coloro che guadagnavano meno di 250mila dollari all’anno (ovvero, al 95 per cento degli americani), Samuel Wurzelbacher (questo era il suo vero nome) aveva replicato accusandolo di voler soffocare nella culla il suo “sogno americano”.  La sua idea, spiegò infatti, era quella di rilevare un giorno l’impresa artigianale idraulica per la quale lavorava come dipendente. Ma come poteva lui intraprendere questa strada, disse rivolto al candidato democratico, se sul suo progetto gravava la spada di Damocle d’un fisco predatore? Obama gli aveva, di nuovo, risposto di non preoccuparsi. Che si godesse, nell’immediato, il taglio fiscale da lui promesso. E che si preparasse, nell’improbabile caso davvero gli riuscisse d’entrare nel club del 5 per cento più ricco d’America (il reddito medio di un idraulico è, negli Usa, si badi bene, di 47mila dollari all’anno), a dare il suo contributo alla ridistribuzione della ricchezza (“spread the wealth around”)…

Apriti cielo. Joe the Plumber divenne, nelle settimane che seguirono l’episodio, il simbolo di un’America – l’America del proverbiale “uomo della strada” – sul punto d’essere martirizzata dalla smanie collettiviste di Barack Obama. Meglio: del “socialista” Barack Obama, o di “Obama the redistributor” come, in una sorta di ritornello, presero  a definirlo, comizio dopo comizio, John McCain e – con molto più naturale e reiterata sfacciataggine – Sarah Palin, la vice che McCain aveva voluto al suo fianco per riaccendere le passioni, con lui da sempre tiepide, della base conservatrice repubblicana. Beppe l’idraulico – recitava il refrain – produce ricchezza. E Obama il socialista la ridistribuisce. A chi? A chi non produce e non lavora… Non durò molto. A fine settembre, con il fallimento della Lehman Brothers, esplose la crisi finanziaria, spalancando di fronte all’America il baratro d’una catastrofe evitabile (ed evitata) solo con un massiccio intervento dello Stato. Per la campagna elettorale fu – come qualcuno lo definì – un salutare bagno di realismo. La tigre populista di cui Beppe l’idraulico era divenuto il simbolo finì, ben prima del voto di novembre, per disarcionare entrambi i suoi cavalieri: tanto John McCain, goffo ed impacciato nei suoi nuovi panni di demagogo, quanto Sarah Palin che, pure, in quei panni – gli unici che abbia mai indossato nel corso della sua breve carriera politica – si trovava a suo perfetto agio. Il “socialista” Obama vinse ampiamente le elezioni. E Joe the Plumber parve svanire nel nulla…

Parve. Perché, in realtà, Joe è ancor oggi vivo e – per così dire – lotta insieme a noi. Joe è vivo fisicamente, com’è ovvio, ed ancora passabilmente visibile. Nell’autunno del 2008 ha smesso di lavorare come non-idraulico (che cosa facesse nessuno, infatt, l’ha mai ben capito) ed ha cominciato a fare, di mestiere, Joe the Plumber. Ovvero: il conferenziere-portavoce di quell’America dell’uomo qualunque di cui s’era autonominato simbolo domestico ed internazionale ( tempo fa le cronache lo hanno segnalato addirittura in Israele dove si era recato, a spese di una fondazione ultraconservatrice, per dire la sua sulla crisi mediorientale). Ma quel che, di Beppe l’idraulico, davvero vive e prospera – ben oltre la sua effimera celebrità di campagna – è, in effetti, lo spirito. La sua reincarnazione si chiama oggi Tea Party, il partito del tè. E non si tratta, in realtà, d’una reincarnazione, bensì di qualcosa d’immanente, d’una realtà profonda  di cui Joe the Plumber  non è stato, per molti aspetti, che il rappresentante  in chiave temporanea e macchiettistica durante la campagna elettorale. Una realtà che è riemersa ora – vincente – in forma di movimento.

Che cos’è il Tea Party? Come il nome stesso suggerisce è – a fronte di quell’ “atto di perdizione” che, per la destra americana, è stato il trionfo elettorale di Barack Obama – una proposta di ritorno ai valori originali della rivoluzione americana. O a quelli che la destra suppone esser tali (il Tea Party di Boston fu l’evento che, nel 1773, lanciò la parola d’ordine del “no taxation without rapresentation “, niente tasse, senza rappresentazione che, con incommensurabili conseguenze per il mondo intero, dette il là alla rivolta della colonia).  Per il nuovo Tea Party – formatosi sulla spinta delle concioni di alcuni predicatori della rete Fox New s (proprietà di Rupert Murdoch e riconosciuta fucina mediatica della destra) – quella di Barack Obama è, semplicemente, l’Anti-America. Al punto che proprio questo – “I want my country back”, restituitemi il mio paese – fu, a suo modo, il primo vagito del movimento, il suo primo (ed apparentemente disperato) appello:  rivoglio la mia America, la Nazione bianca e cristiana oggi finita nelle mani d’un presidente nero, socialista e “arabo”. Non per caso la prima scintilla della nuova “rivoluzione” venne accesa dai cosiddetti “birthers”. Vale a dire: da quanti andavano sostenendo – contro ogni evidenza – che Obama era un presidente illegittimo, perché nato fuori dagli Usa. Strumento e simbolo della protesta: l’invio a rappresentanti e congressisti vari – come a dire: attenti il popolo vi guarda – di bustine di tè. Ovvero: il cosiddetto ” tea-bagging”, termine del tutto inconsapevolmente preso a prestito dal gergo del porno “hard”, per il quale – come in America ben sa chiunque non sia un puritano o un frate trappista – il “tea-bagging” è una molto scostumata forma di sesso orale.  Tanto chiassoso e “weird”, bizzarro, tanto ridicolo e pateticamente rivolto al passato pareva, in effetti, questo anelito ad un ritorno alla “vera America”, che non pochi  – e con più d’una buona ragione – finirono per scambiarlo per una sorta di grottesco funerale. Quello, ovviamente, d’un movimento conservatore che la vittoria di Obama aveva condannato ad un permanente ed “estremistico” stato di minoranza, chiuso, per scelta propria, nel ghetto di quello che i media amano definire “the lunatic fringe”, il lato folle della politica. Ma così non era. O meglio: così era solo in superficie.

A dispetto, infatti, delle molte barzellette e dei doppi sensi con cui un piccolo esercito di “standup comedians” ha in questi mesi commentato, in innumerevoli monologhi, le attività dei “tea-baggers” (vale a dire, di quanti andavano praticando il “tea-bagging”, via posta o nelle piazze), proprio attorno al movimento del Tea Party è andato in quest’ultimo anno consolidandosi il crescente malessere per l’apparente evanescenza del “cambio” promesso dalla nuova presidenza. Epicentro di questo imprevisto terremoto (imprevisto per rapidità e forza): il faticosissimo (ed inconcluso) dibattito congressuale sulla riforma sanitaria. Per molte ragioni, quello che doveva essere il perno del processo di rinnovamento di cui l’elezione di Obama era stato l’annuncio, è progressivamente divenuto, agli occhi di molti Joe the Plumber (quelli veri), un’opera d’incomprensibile ingegneria sociale, un simbolo del distacco tra Washington – con i suoi rituali ed i suoi tutt’altro che limpidi interessi , con la sua vocazione a sperperare il pubblico denaro – e quella cosa (in parte anch’essa immaginaria, ma da tutti anelata) che si chiama “paese reale”.

Per Barack Obama non si tratta d’una storia nuova. Prima ancora che la testa rasata di Joe the Plumber facesse la sua apparizione in Ohio, il tema del “gap” tra quell’intelligentissimo e molto eloquente “professore di legge” e l’America dei “colletti blu” era stato il vero cavallo di battaglia di Hillary Clinton (ed almeno in alcuni stati aveva funzionato alla perfezione) nel corso della maratonica battaglia delle primarie democratiche. E la natura “elitaria” della personalità e della politica di Obama era divenuta, nella fase finale della corsa per la Casa Bianca, un elemento fisso, anzi, un vero e proprio canovaccio, della molto ruspante arte retorica di Sarah Palin. La stessa Sarah Palin che, non più d’un paio di settimane fa, a Nashville, nella prima grande assemblea nazionale del Tea Party, è tornata ad infiammare la platea con i suoi attacchi alle “elite” d’ogni tipo. Quelle della finanza e quelle dei media, quelle della cultura e, ovviamente, quelle della politica. Tutte altrettanto ovviamente identificate con l’Amministrazione Obama. “How ‘s that hopey changey stuff working out?”, come ha funzionato per voi questa storiella della speranza e del cambio? ha chiesto Sarah alla platea con molto popolareschi accenti. Ed ha ricevuto in cambio, dai “tea-baggers” di Nashville, una – una delle tante – standing ovation…

Per i politologi – in molti caso gli stessi che, durante la campagna elettorale, avevano deriso le ripetute gaffe di Sarah – è ormai un dato di fatto. Sarah Palin – la candidata alla vicepresidenza che non aveva idea di quale fosse il ruolo del vice presidente, la donna che “sapeva di politica estera” perché dalla sua finestra, in Alaska, poteva “vedere la Russia” – è oggi il vero leader del Tea Party. Ed il Tea Party – punto di coagulo d’una nuova “insorgenza populista” – è, a sua volta, la vera anima d’una riscossa repubblicana che già s’è nutrita di tre inequivocabili vittorie elettorali. Una delle quali – quella per il seggio senatoriale in Massachusetts,lo stato dell’originale Tea Party di Boston e lo storico feudo dei Kennedy – di straordinario valore simbolico (simbolico e pratico, visto che proprio la perdita di quel seggio ha tolto ai democratici la maggioranza a prova di filibustering che sembrava garantire il passaggio della riforma sanitaria).

I paragoni storici si sprecano. Ed il più accreditato è, prevedibilmente, quello con il 1994. Ossia: con la grande vittoria nelle elezioni di mezzo termine che, due anni dopo l’ingresso di Bill Clinton alla Casa Bianca, regalò al partito repubblicano di Newt Gingrich (oggi tra i più impegnati nel corteggiamento del Tea Party) la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Alla base di quel trionfo ci fu una linea politica – quella sancita nel cosiddetto “Contratto con l’America” – che aveva alla sua base due cose:  la drastica riduzione del deficit (vera e propria ossessione populista del Reform Party di Ross Perot, in auge in quegli anni) e la sconfitta dei progetti di riforma sanitaria elaborati da Hillary e mai giunti al voto del Congresso. Le analogie saltano, come si dice, agli occhi. Siamo dunque in prossimità di un bis?

Probabilmente no. E non solo perché la Storia non ripete se stessa (o se lo fa, lo fa , come vuole un’abusatissima massima marxiana, in forma di farsa). Anzi: probabilmente no, proprio perché – volendo passare ad un’altra abusatissima massima di segno opposto – chi non impara la Storia è condannato a ripeterla. Giorni fa, in un op-ed sul Wall Street Journal, Michael Barone, columnist di chiara fede conservatrice, rammentava come, pur avendo, in alcuni casi, “mosso montagne”, il populismo, di sinistra o di destra, sia sempre stato, in America, una forza perdente. Il più grande populista della storia americana, William Jennings Bryan, infiammò gigantesche platee con i suoi attacchi alle elite che crocifiggono”the little man”, l’uomo qualunque (famosissimo, un vero e proprio classico del populismo,  è il suo discorso su “The cross of gold “, la croce d’oro); ma poi perse con distacco, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,  tre consecutive elezioni  contro due tra i meno memorabili dei presidenti statunitensi: William McKinley e William Howard Taft. Sconfitto dalla storia (e dalla morale) fu il populismo segregazionista e razzista di George Wallace, negli anni ’60 e ’70. Sconfitti sono stati anche – in modi diversi – Ross Perot (il cui Reform Party è svanito nel nulla) e lo stesso Newt Gingrich, la cui vittoria nel ’94 altro non fece che preparare l’ampia conferma di Clinton nel ’96…Perché mai il Tea Party – che tra i populisti è forse il più grossolanamente populista – dovrebbe conoscere un diverso destino?

La vera sfida, per la destra americana sta oggi – al di là dei contingenti computi elettorali – nella ricomposizione del fenomeno politico-sociale che fu alla base del reaganismo. In sintesi: nella replica dell’incontro tra il liberismo economico (il monetarismo trasformatosi in religione del libero mercato) ed i “valori” – Dio, Patria e Famiglia – dell’ “America profonda”. O, se si preferisce, il matrimonio – un matrimonio d’amore e di convenienza al tempo stesso –  tra Wall Street e Joe the Plumber. Dai ai ricchi e lascia che a loro volta i ricchi, creando più ricchezza, lascino sgocciolare (la famosa teoria del “trickle down”) la loro ricchezza verso il basso. Meno tasse, meno regole, meno governo, perché l’inarrestabile marea del Dio Mercato possa liberamente sollevare tutte le barche. Il problema è che, oggi, la marea del Dio mercato è appena diventata uno tsunami che le barche – la barche di tutti – ha travolto ed affondato. La qual cosa sembra, in effetti, lasciare spazio, in casa repubblicana, molto più al piccolo cabotaggio della politica che all’elaborazione grandi strategie.

Strane cose stanno avvenendo in casa populista. Mentre, dal palco di Nashville, Sarah Palin va fustigando, con rustica ineleganza, un’Amministrazione la cui politica “premia i responsabili della crisi” (leggi: il grande capitale finanziario), i grandi maggiorenti del partito, dopo essersi perduti in sperticati elogi del Tea Party, fanno anticamera negli uffici di quel medesimo capitale finanziario reclamando la giusta ricompensa – proprio la scorsa settimana, un articolo del New York Times rivelava come le grandi banche abbiano ripreso a finanziare massicciamente il Grand Old Party –  per la loro ferma opposizione alle proposte di riforma del sistema avanzate dai democratici (le famose “Volcker’s rules”) al fine d’evitare un replica della crisi. O più precisamente: per evitare il ripetersi di una crisi che, in ultima analisi, è proprio la crisi di quel reaganismo la cui purezza la destra americana, con o senza bustine del tè, cerca di ripristinare.

Chissà. A dispetto dell’euforia che oggi – dopo il Massachusetts – anima la “riscossa repubblicana”, alla lunga (o anche non tanto alla lunga) finiranno per avere ragione proprio coloro che, nella nascita del “partito del tè” hanno visto, essenzialmente, la celebrazione d’un funerale….

 

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