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Sallinge e Zinn, la ricerca dell’innocenza perduta

30 gennaio 2010

 

Di Massimo Cavallini

A nessuno, probabilmente, mai sarebbe venuto in mente di accomunarli in vita. Ma ad affiancare i loro nomi, in una rapida e curiosa sequenza di eventi, ha provveduto il fato. O meglio: quella finale ed ineludibile parte del fato che si chiama morte.  J.D. Salinger e Howard Zinn se ne sono andati a poche ore di distanza l’uno dall’altro, nel suo eremo del New Hampshire, il primo, nella sua casa di Santa Monica, in California, il secondo. Ed avevano, quando se ne sono andati, quasi la stessa età: rispettivamente, 91 ed 88 anni. Tanti anni. Anni che Salinger e Zinn hanno speso in modo molto diverso – antitetico persino – lungo un comune tratto di Storia. Entrambi appartenevano, infatti, a quella  che va sotto il nome di “The Great Generation”. Entrambi avevano conosciuto le pene della Grande Depressione e gli orrori della Seconda Guerra Mondiale (partecipando al D Day ed alla battaglia delle Ardenne, J.D. Salinger, come pilota di bombardieri, Howard Zinn). Ed entrambi – in modi e tempi diversissimi – ci hanno infine lasciato qualcosa di prezioso e di indefinibile. Un seme di ribellione o, più esattamente, l’idea – disperata in Salinger, luminosa e colma di speranza in Zinn – che da sempre è alla base d’ogni ribellione. E che più d’ogni altra, forse, ha marcato la generazione del ’68: tutto quello che vi hanno insegnato è falso.

Jerome David Salinger è l’autore di “The Catcher in the Rye” (“Il giovane Holden” per i lettori italiani). Howard Zinn è il professore che ha scritto “A People’s History of the United States”. Il primo ci ha raccontato una storia – quella del sedicenne Holden Caulfield e dei suoi tre giorni di fuga in una spettrale New York – che era la “nostra” storia. Tanto nostra, in effetti, da sembrare un furto, una sfacciata violazione del copyright sull’autobiografia che ciascuno di noi – noi che avevamo 16 anni quando il libro divenne un “miracoloso” successo editoriale, noi che abbiamo avuto 16 anni in uno qualunque degli anni che sono seguiti – teneva racchiusa in qualche segreto cassetto della sua adolescenza. Howard Zinn ci raccontato, invece, la storia della Storia o, se si preferisce, la storia dietro la Storia, la storia di chi non ha Storia: quella dell’uomo comune, dei suoi movimenti, delle sue idee, dei suoi eroi collettivi e senza potere. La storia, in qualche misura, dei molti Holden Caulfield che hanno fatto la storia ai margini della Storia. J.D. Salinger si è separato dal mondo la cui falsità il suo giovane eroe (o anti-eroe) aveva denunciato. Ed ha consumato in mezzo secolo di solitudine e d’assoluto silenzio gli anni seguiti al suo primo ed unico trionfo letterario. Howard Zinn ha vissuto, invece, una vita solare, a cavallo tra l’Accademia e l’attivismo politico, scrivendo e parlando. Ed è morto per un infarto mentre nuotava nella piccola piscina d’un complesso edilizio – quello dove lui da sempre abitava – che è anch’esso, a suo modo, un simbolo di resistenza. Una breve linea di modeste “townhouses” ad affitto controllato (“rent controlled”) che, a ridosso dell’oceano, ricordano gli anni in cui anche la Santa Monica “north of Wilshire” – oggi un ghetto per super-ricchi, al nord del grande boulevard che spacca in due la cittadina – era un enclave”bohemienne”  per intellettuali di sinistra e gente comune. All’ingresso, sotto una falce e martello, una scritta beffarda: “The Soviet Republic of Santa Monica”. La lotta è stato il marchio di fabbrica di Howard Zinn. Quello di J.D. Salinger, la fuga. La fuga di Holden Caulfield dalla scuola che stava per espellerlo. La sua personale fuga da un mondo di fama e di successo – ma “phony”, fasullo, come Holden mille volte ripete nel romanzo – che stava per inghiottirlo.

J.D. Salinger è, anche, un mistero irrisolto. Come tutti (o quasi) i misteri irrisolti è diventato un mito. E come tutti (o quasi) i miti, resta ancor oggi, nella sua essenza, una  fragilissima realtà, il precario frutto d’un delicatissimo equilibrio di tempo e di emozioni. Il suo “The Catcher in the Rye” è, ormai, parte della storia della letteratura americana. Il giovane Holden splende – insieme al Huckleberry Finn di Mark Twain, al Jay Gatsby di Scott Fitzgerald ed a molti altri – nella galleria dei personaggi che meglio rappresentano lo “spirito americano”. Ma mentre “Le avventure di Huckleberry Finn ed il “Grande Gatsby” possono essere rivisitati senza pericolo e con immenso piacere, ogni ritorno in direzione di “The Catcher in the Rye” è, come si usa dire, “a proprio rischio e pericolo”. Specie se consumato lontano dagli anni dell’adolescenza. Molti di coloro che l’hanno fatto non hanno ritrovato nulla. Molti altri (chi scrive tra questi) hanno accuratamente evitato ogni ritorno proprio per non distruggere la magia di quel primo incontro. Ed ora stanno probabilmente augurandosi che Salinger non abbia – come qualcuno sospetta – lasciato altre eredità letterarie. Ovvero : che non abbia scritto, durante il suo autoimposto esilio, nulla che possa alterare quella memoria tanto accuratamente conservata sotto la proverbiale campana di vetro.  Oggi, “The Catcher in the Rye” è, per molti aspetti, un classico. E, come tale, si studia nelle scuole. Ma non per questo ha superato le controversie che, a suo tempo, ne accompagnarono il successo. Molti continuano a considerarlo, più che un capolavoro letterario, una sorta di fenomeno sociale (o, addirittura, di generazionale innamoramento), legato più alle circostanze della sua apparizione ed a quelle della eremitica scelta del suo autore, che ad un suo intrinseco valore. Insomma: qualcosa di “phony”, anch’esso, come il mondo che il giovane Holden respinge e dal quale si sente respinto.

E “phony” è stato, in certa misura, considerato anche Howard Zinn dai suoi pari del mondo universitario. Ovvero: dagli storici con pedigree. “So che mi considera un irredimibile reazionario – ha scritto di lui Arthur Schlesinger Jr., icona della storiografia “liberal” – ma non importa. Howard Zinn, in fondo, non è uno storico. È essenzialmente un polemista”. E forse aveva ragione, Schlesinger, a dispetto delle assolutamente impeccabili credenziali accademiche di Zinn. Forse davvero, nella “The People’s History of the United States”, la ideologia, o meglio, una molto specifica idea di ciò che la Storia deve essere, ha prevalso sul lavoro di ricerca e sulla anodina ricostruzione dei fatti. Ma nessuno – neppure quanti hanno, nel tempo, ripetutamente svillaneggiato il suo “radicalismo” – ha mai potuto vedere alcunché di fasullo nel modo con cui Howard Zinn ha, con impeccabile stile, rivelato quanto di davvero “phony” la Storia ufficiale, quella notoriamente “scritta dai vincitori”, ama offrire come verità. Esemplare questo capoverso dedicato al presidente Andrew Jackson: “Se si leggono i nostri testi scolastici, si scoprono il Jackson uomo di frontiera (Jackson fu, in effetti, nel 1829, il primo presidente  non proveniente dai territori della vecchia colonia britannica n.d.r.), il soldato, il democratico ‘uomo del popolo’. Ma in nessuna parte appare il proprietario di schiavi, lo speculatore immobiliare, il fucilatore di soldati dissidenti ed il massacratore di indiani…”. Se Salinger è – suo malgrado o per sottilissimo calcolo – diventato un mito, Zinn ha passato la sua vita ad abbattere i miti sui quali un’altro e più grande mito – quello dell’ “eccezionalismo americano” – è stato costruito. E c’è perlopiù riuscito .

Nei suoi cinquant’anni di solitudine, J.D. Salinger ha fatto (sempre indirettamente, ma con molto minacciosa sonorità) sentire la sua voce soltanto per proibire qualunque riproduzione cinematografica del suo unico vero romanzo (gli altri sono tutti racconti brevi, alcuni dei quali, come “A Perfect Day for a Bananafish”, di straordinaria bellezza). E sebbene, alla metà degli anni ’90, Matt Damon avesse comprato – con l’ovvia intenzione di farne un film epico – tutti i diritti di “The People’s History (“il più bel libro che abbia mai letto”, lo definì a suo tempo l’attore-produttore) anche Howard Zinn e la sua “storia del popolo” sono fin qui rimasti fuori delle porte di Hollywood. Eppure entrambi, Salinger e Zinn, sono diventati parte (non preponderante, forse, ma qualitativamente fondamentale) della storia del cinema.  Il giovane Holden si è trasfigurato ne “Il Ribelle” con James Dean, ne “Il selvaggio” con Marlon Brando e – forse più d’ogni altro – ne “Il laureato” con Dustin Hoffman, più una lunga serie di altri personaggi (Donnie Darko, Rushmore…) chiaramente ispirati al protagonista di “The Catcher in the Rye”. Ed anche l’ “altra storia” di Howard Zinn ha finito, a pezzettini ma con grande impatto, per essere raccontata sul grande schermo in film come “Il piccolo grande uomo”, “Soldato Blu”, “Ballando con i lupi”…Segno che, in qualche modo, l’uno e l’altro – il “radicale” e l’eremita – sono, per vie diverse, entrati nel senso comune d’America…

E tuttavia non è certo qui, nel senso comune, che J.D. Salinger e Howard Zinn, curiosamente uniti dalla morte, si sono incontrati in vita. Per trovare il vero punto di convergenza – e per capirlo – occorre forse andare all’ultimo capitolo di “The Catcher in the Rye”, quello nel quale il giovane Holden ritrova la sorella minore e rivede in Lei, finalmente, una ragione di vita, qualcosa di autentico, di non “phony”, oltre l’accumularsi di falsi valori che hanno riempito e motivato la sua fuga. Ed anche quello nel quale si risolve, infine, il mistero di quel titolo -” l’uomo che afferra nel campo di segale” – risultato comprensibilmente intraducibile in italiano. Che cosa ti piacerebbe fare nella vita? chiede la sorellina a Holden. E Holden le risponde citando (peraltro in modo sbagliato) un antico poema (“Comin’ thro the Rye”) di Robert Burns, nel quale si parla di bambini che attraversano un campo di segale in direzione di un abisso. Quello che mi piacerebbe, risponde Holden, è esser quello che salva (afferra) i bambini che camminano tra le segale…Salvare la loro vita. O meglio: salvarli dalla vita, impedire loro di precipitare nell’abisso di falsità che, di fronte a loro, è l’arte di crescere. Bambini per sempre. Come Peter Pan. Come l’Oscar Matzerath del “Tamburo di latta” di Gunter Grass…

Quello che davvero unisce, in una comune idea di ribellione, J.D. Salinger e Howard Zinn è, per vie diverse e quasi contrapposte, proprio questo: la ricerca dell’innocenza perduta. L’innocenza – a suo modo tutt’altro che radicale e, anzi, molto romanticamente patriottica – di una nazione fondata sul presupposto, subito tradito, che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, nel caso di Zinn. L’innocenza, nel caso di Salinger, d’una vita che cerca una ragion d’essere in un mondo che, consumato in se stesso, sembra non averne alcuna,. Il ’68 – ed i molti ’68 che ci sono stati prima e dopo il ’68 – non sono stati in fondo, anch’essi, altro che questo: una ricerca dell’innocenza perduta, di ciò che, smarrito tra l’impulso alla fuga ed il desiderio di riscatto, dovrebbe essere e non è. J.D. Salinger e Howard Zinn se ne sono andati. Resta il giovane Holden. Restano, tra noi, la fatica di vivere ed il seme della rivolta.

 

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