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Stile Evo

12 gennaio 2007

di Gabriella Saba

 

Il presidente della Bolivia Evo Morales e la stilista Beatriz Canedo Patiño non hanno nulla in comune se non il fatto che sono arrivati molto in alto, ognuno nel suo campo. Quando lui – bambino e indio – portava i lama al pascolo nelle campagne intorno a Orinoca, la più adulta Canedo frequentava i college californiani. Mentre Evo si scontrava con la polizia alla testa dei suoi cocaleros, Beatriz (questa volta a Parigi) lasciava la facoltà di Scienze Politiche per iscriversi a Belle Arti, scopriva la moda e cominciava a bazzicare gli atelier, gli stilisti. Più tardi andò a New York per tentare la fortuna e con il tempo aprì uno show room, diventò famosa e dopo qualche anno tornò in Bolivia, dove era nata.

 

Eppure, quando i media europei attaccarono Morales per il look informale (il maglione a strisce colorate con cui andava in visita, subito dopo l’elezione, ai capi di Stato stranieri), lei si indignò. “Il presidente non è un uomo frivolo e ha problemi più seri dei vestiti”, spiegava dall’alto dei suoi tailleur perfetti, dei capelli scolpiti. Poi lui le chiese di disegnargli il vestito per la cerimonia di insediamento e Beatriz per l’emozione quasi svenne, anche se nel frattempo era diventata la stilista di quattro regine e di numerosi nunzi apostolici, aveva vestito capi di Stato e confezionato una mantella per Hillary Clinton e una cappa per il Papa. “Fu un onore grandissimo”, ricorda oggi e spiega che uomo appassionato, infaticabile sia Morales, ma quando le chiedi se l’abbia votato scantona: “Non mi interesso di politica, sono un’artista”.

 

A vederla, la Canedo sembra uscita da una saga sulle grandi dinastie: raffinatissima, bon ton, di età non dichiarata tra i cinquant’anni e i cinquantacinque. La sua famiglia è antica e colta e i genitori, che lasciarono il Paese per “motivi politici” negli anni Sessanta, la educarono all’arte e alla musica. Negli Stati Uniti disegnò per un po’ vestiti per il teatro, ma decise di diventare stilista solo quando, in Francia, scoprì l’alpaca: “Mi ero messa a frequentare lo studio di un noto stilista, e fui letteralmente fulminata da quel tessuto boliviano che non conoscevo e che nel mio Paese passava per rustico e in Europa, invece, era raffinato”. Quando tornò in America l’alpaca era la sua ossessione, e infatti decise di diventare una stilista di quel materiale. Affittò un appartamentino a Manhattan e si mise a disegnare vestiti, ma fu tutto in salita finché un’importante boutique si entusiasmò alle sue creazioni, le ordinò una collezione e la espose, e il New York Times le dedicò mezza pagina. A quel punto passò dall’appartamento a un atelier in una strada esclusiva e cominciò a vendere alle boutique più famose del Paese. La chiamavano pioniera dell’alpaca: aveva portato quel tessuto nell’alta moda. I suoi capi erano classici ma avevano sempre qualcosa di aymara, l’etnia indigena più importante in Bolivia, la stessa di Evo. Nel ‘94 rientrò nel suo Paese e lo trovò un po’ diverso da come lo ricordava: a colpirla fu soprattutto il ritorno alle origini, la riscoperta delle radici. “Cominciai a lavorare in quella direzione e il risultato fu che gli elementi aymara nei miei capi aumentarono”.

 

Nella boutique elegante (e casa di moda) che ha aperto a La Paz, le sue gonne richiamano in qualche caso la forma della pollera, la gonna tradizionale andina, e le sciarpe colorate somigliano alle tullma aymara. I capi vengono realizzati a mano nel laboratorio della casa di moda, la manodopera è boliviana. Quest’ultima, spiega la Canedo, “è di un livello altissimo ed è uno dei motivi per cui sono tornata”.

 

Dunque, subito dopo l’elezione di Morales, qualcuno del suo entourage le chiese di disegnare un abito che fosse semplice e adatto a una cerimonia di insediamento, ma che non distogliesse l’attenzione da quell’evento. Le spiegarono che il presidente non amava le cravatte, e che il vestito doveva rispecchiare la semplicità della sua cultura d’origine. Lei si sentì molto orgogliosa, molto onorata, ma preoccupata per la prossimità della cerimonia, che si sarebbe svolta due settimane dopo. Le toccò fare una prova di appena mezz’ora perché Morales non aveva tempo, mentre di solito ne occorrono almeno due, e più lunghe. Poi disegnò quell’abito di cui racconta, oggi, che la camicia candida, di cotone, era in purissimo stile aymara e che la giacca era di baby alpaca ma con due bande laterali, in colori naturali e che rappresentavano la Pachamama, la madre terra. “Peccato che abbiano cambiato il colletto della camicia”, ricorda dispiaciuta. “La mia era senza colletto”. In ogni caso, al presidente l’abito piacque e infatti la Canedo continua a disegnare per lui, sia pure in alternanza con altre case di moda andine. E’ sempre più apprezzata e lavora a ritmi dannati, lavora e viaggia. La invitano a sfilate un po’ in tutto il mondo, e di recente Bill Clinton e la moglie di Bill Gates hanno comprato capi con la sua firma. I disegni originari che ha realizzato per Evo vengono copiati, dice, in molti Paesi, c’è perfino una Barbie con i suoi vestiti andini. E a New York capita che, al guardaroba degli alberghi, rubino dalle giacche le etichette della sua casa di moda per attaccarle ad altri capi e vantarsi di avere un abito suo. Del presidente (che chiama il signor presidente Evo Morales e non familiarmente Evo come la maggior parte dei boliviani) ha ancora molta stima. “E’ un uomo serio, grande lavoratore, la vera razza di bronzo”. Razza di bronzo è l’indigeno della iconografia più classica, e un romanzo famoso del boliviano Alcides Arguedas. E’ un bel complimento. Vuol dire un duro, un ribelle, che non si abbatte mai.

 

 

 

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