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Santa Hillary martire, facci la grazia

In una serie di spot televisivi, John McCain beatifica, in chiave anti-Obama, la Hillary delle primarie – Hillary non abboca e, a Denver, lancia un vigoroso appello all’unità – Stranezze di una corsa presidenziale che i repubblicani ed il loro insignificante candidato non possono vincere, ma che i democratici ed Obama possono perdere…

 

11 agosto 2008

di M.C.

 

Da strega, a martire. Tra le sorprese di questa interminabile e, a suo modo, affascinante campagna elettorale, la più grande e paradossale, la più aliena foss’anche alla più fervida delle fantasie, è certamente questa. Martedì notte, Hillary Rodham Clinton è salita sul podio della convenzione democratica di Denver nelle inimmaginabili vesti dell’eroina repubblicana. Sì, proprio lei, quella medesima Hillary Rodham Clinton che la sempre febbrile fabbrica di calunnie della destra americana aveva, a suo tempo, trasformato in una sorta di spaventevole incarnazione del male, un distillato di purissima, inalterabile malvagità, sia quando con indicibile arroganza cercava d’imporre all’America quel derivato di “polpotiana” filosofia che, con raccapriccio, i guru del Grand Old Party usano chiamare “socialized medicine” (leggi: un decoroso sistema d’assistenza sanitaria garantito a tutti i cittadini); sia quando (la memoria corre ad un’altra straordinaria campagna presidenziale, quella del 1992), andava recitando, per compiacere media e pubblica opinione, la parte della tradizionale mogliettina, impegnata soprattutto a cucinare “coockies” ed a regalare al marito-candidato prolungati “adoring gaze” (quegli sguardi ricolmi di adorante e perduta ammirazione che, grazie a Nancy Reagan, avevano conosciuto la loro paradigmatica perfezione nel corso degli anni ’80).

Eppure proprio questo è avvenuto (e, volendo dar retta ai responsabili della campagna elettorale di John McCain, continuerà ad avvenire). Hillary, la demoniaca Hillary, è diventata, sul lato repubblicano, la luminosa protagonista d’una serie di spot televisivi che esaltano il suo sacrificio ed il suo coraggio (per vederli clicca qui). “Hillary ha conquistato milioni di voti – dice uno di questi annunci – eppure non è stata scelta come vicepresidente. Perché? Perché ha detto la verità (seguono brevi estratti di Hillary attaccando Obama nel corso delle primarie n.d.r.). La verità fa male. E ad Obama non piacciono, né Hillary, né la verità”. Incredibile. Qualcuno forse ricorderà come, nel corso della campagna presidenziale del 2004, un molto attivo e potente gruppo evangelico che senza riserve appoggiava il presidente in carica, non avesse esitato ad attribuire a George W. Bush un vero e proprio miracolo (o quello che il gruppo riteneva tale: la restituzione della parola e del sorriso ad una ragazzina dell’Ohio afflitta per la perdita della madre morta nel crollo delle Torri Gemelle). Ma qui, evidentemente, siamo già oltre il miracolo, oltre la resurrezione di Lazzaro e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Oltre le grandi conversioni che pure, da San Paolo in poi, in un susseguirsi di accecanti bagliori, sono parte integrante della storia del cristianesimo. Qui è Satana in persona che, in portentosa trasfigurazione, si fa, di repente, santo e martire…

Eppure, a dispetto dell’attonito stato di meraviglia che suscita la visione degli spot targati McCain, la ragione di questo fino a ieri inconcepibile prodigio sono, in realtà, piuttosto semplici. E, nella loro nient’affatto miracolosa semplicità, aiutano, in effetti, a capire la pressoché inedita natura di questo processo elettorale. Che è, forse, il più complicato e, al tempo stesso, elementare – di certo il più “unilaterale” – tra gli scontri presidenziali della storia americana. Nel 2004 la campagna repubblicana inventava miracoli tesi ad ingigantire la “cristianità” del suo candidato. Oggi non esita a beatificare Belzebù al fine di “scristianizzare” il rivale democratico. Perché questa differenza? Perché dopo 8 anni di George W. Bush il partito repubblicano ha, in quanto entità politica propositiva, cessato d’esistere. La sue idee non sono che l’impresentabile riflesso (un cono d’ombra, in effetti) della crisi in corso. Il partito repubblicano (e la destra in genere) non può sperare di vincere. Ma può sperare che sia il partito democratico a perdere. Il candidato repubblicano si chiama John McCain ed ha, per chi abbia voglia di esaminarlo, un curriculum non privo di luci (quasi tutte spentesi nel corso delle primarie). Ma poco o nulla cambierebbe se – per dire – quel candidato si chiamasse Donald Duck. L’uomo che conta, l’unica stella dotata di luce propria è, in queste elezioni, Barack Obama. O meglio: l’unica vera domanda che agita questa corsa alla Casa Bianca è se l’America accetta Obama o lo respinge. Più in breve: se l’America è “pronta”, o meno, per Barack Obama.

E Hillary? Come si è mossa Hillary in questo inedito ruolo di strega con aureola? Hillary è stata, martedì notte, nel Pepsi Center di Denver, semplicemente, Hillary. Ovvero: se stessa, la prima della classe che è sempre stata. Impeccabile, bravissima, eloquente ad arguta, uno straordinario, disciplinatissimo animale politico che, una volta di più, ha dimostrato di avere tutti i numeri (ed anche qualcuno in più) per aspirare alla più alta carica politica del pianeta Terra. Tutti, ovviamente, tranne quell’alone di novità che, infine, ha sospinto Barack Obama, per un proverbiale capello, davanti a lei sulla linea del traguardo. Le circostanze le imponevano un discorso di unità. E lei un discorso di unità ha pronunciato. L’ha fatto senza riserve, con precisione e bravura, in quello che – eliminati gli inviti ad appoggiare Barack Obama – sarebbe stato uno splendido “acceptance speech” (il discorso di accettazione alla candidatura che, tradizionalmente, chiude ogni convenzione). Anche tra i sostenitori della prima ora di Obama – si può esserne certi – qualcuno avrà provato, nell’ascoltarla, un senso di rimpianto.

“No way, no how, no McCain”. Non si dà il caso, quali che siano i rancori lasciati delle primarie, che chi ha sostenuto me possa oggi anche solo pensare di votare per McCain. Questo ha detto e ripetuto Hillary, senza nulla tralasciare. Ha usato le giuste parole per ironizzare sulla presunta “indipendenza” di McCain. Ha sottolineato il valore storico del voto per Obama ed il disastro che, per l’America dell’uomo della strada rappresenterebbero “altri quattro anni di dominio repubblicano”. Ha esaltato le grandi virtù dell’uomo che l’ha sconfitta e quelle di Joe Biden (il senatore che, stando agli annunci repubblicani, le avrebbe “rubato” il posto di vicepresidente). E neppure ha tralasciato di elogiare (“sarà una grande first lady”) quella Michelle Obama che, il giorno prima, aveva entusiasmato la platea con un saggio di quasi perfetta oratoria. Resta ovviamente da vedere quanto il grande discorso di Hillary influirà sulla parte più “arrabbiata” dei suoi sostenitori (o, più spesso delle sue sostenitrici; e si tratta, secondo i più recenti sondaggi, d’un quarto, circa, dei 18 milioni di voti che Hillary ha raccolto nel corso delle primarie). Probabilmente non molto. Anche se difficile è dire quanti, alla fine, seguiranno l’invito – votate per McCain – che una tal Debra Bartoshevich, ex sostenitrice di Hillary Clinton, entusiasticamente rivolge agli elettori da uno degli spot televisivi del candidato repubblicano. Più probabile è che quei consensi finiscano per disperdersi nella terra di nessuno del non-voto (nella democrazia americana tradizionalmente pari a quasi la metà del totale), forse compensata dai nuovi elettori e dai nuovi entusiasmi sollevati dal “fenomeno Obama”.

E proprio su Obama (e solo su Obama) tornano, di nuovo, a puntarsi i riflettori. Il vero punto di questa straordinaria corsa resta lui, la sua capacità di trovare la connessione tra il generico messaggio di rinnovamento che gli ha consentito di trionfare a sorpresa nelle primarie e le ansie dell’America più profonda. Ansie nuove create dalla crisi economica, dal crescente impoverimento della classe media e da sempre più marcate diseguaglianze. Ansie vecchie e paure antiche d’un paese che fatica a liberarsi dai propri peccati originali, dal razzismo che corre nelle sue vene. Riuscirà Obama a superare, nel suo discorso di domani, il gap che lo separa da una possibile vittoria? Tutti se lo chiedono.

Quel che dirà McCain al termine dell’imminentissima Convenzione repubblicana, non se lo chiede invece nessuno. Probabilmente neppure Debra Bartoshevich, la donna che, a novembre, voterà repubblicano per vendicare il sangue di Santa Hillary, martire dell’obamismo. Ed è proprio in questa differenza (o in questa indifferenza), che oggi, in fondo, si giocano i destini dell’America.

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