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Thursday, December 5, 2024
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Putin: gas, bomba, fascismo e disperazione…

“A gas station with nukes”, un distributore di benzina con bomba atomica. Non è chiaro – sebbene molti ne attribuiscano la coniazione a John McCain, il senatore repubblicano dell’Arizona che, nel 2008, contese la presidenza a Barak Obama – chi, per primo, abbia fatto uso di questa espressione. Ma due cose appaiono oggi ragionevolmente certe. La prima: chiunque abbia, a suo tempo, inventato quella frase, lo ha fatto per negare alla Russia, nei termini più dispregiativi, lo status di “potenza mondiale” che Vladimir Putin è andato con crescente intensità e aggressività reclamando nell’ultimo ventennio. E, la seconda: quali che siano state, all’origine, le intenzioni dell’inventore, sono oggi proprio i due elementi in quell’espressione citati – il gas e la bomba – quelli che meglio definiscono lo stato delle cose nella guerra in Ucraina.

Con la rovinosa – anche se in termini puramente territoriali piuttosto contenuta – ritirata nella regione di Kharkiv, la Russia di Vladimir Putin ha dimostrato d’essere davvero una “gas station with nukes”. O, fuor di metafora: una non-potenza che, prigioniera del proprio passato (zarista, molto più che sovietico) rimane strutturalmente e, per molti aspetti, pateticamente debole a fronte delle proprie dichiarate ambizioni. E che, al tempo stesso, se non proprio “forte”, è di sicuro fortemente, anzi apocalitticamente pericolosa in virtù proprio degli elementi che definiscono la sua strutturale debolezza: il gas – simbolo di quella “Dutch Disease”, causa di fondo del cronico rachitismo economico della Russia – con il quale Putin va oggi ricattando l’Europa; e la bomba atomica – turpe eredità dei suoi veri o presunti “anni di gloria” – il cui spettro (ed il cui possibile uso) Putin va implicitamente ma inequivocabilmente agitando – “questo non è un bluff” ha detto e ripetuto nel suo ultimo discorso – di fronte suoi nemici.

Molti – e con ben più d’una buona ragione – hanno definito “disperate” le parole e le scelte di Putin. Ed è certo che, disperate o meno, sono le parole d’un generale che, comunque finisca la storia, già ha perduto la sua guerra. Anzi, peggio: che ha perduto una non-guerra che, da lui originalmente dissimulata come una semplice “operazione militare”, era nei piani di battaglia destinata a durare non più di qualche settimana e con un fine specifico: “denazificare l’Ucraina”. O, più esattamente: sostituire in punta di baionetta il governo attualmente in carica con uno filo-russo composto – per dirla con Berlusconi Silvio, “statista” italiano mai avaro quando si tratta di mettere in imbarazzo il paese in cui è nato – da “persone per bene”. Quella “operazione militare”, di fatto sconfitta dalla resistenza dei “denazificandi” ucraini, cittadini, secondo Putin, d’una Nazione che mai è stata tale (o che tale era diventata solo per decreto di Lenin) si è, com’è noto, ingloriosamente conclusa lo scorso aprile, alle porte di Kiev, con una non troppo strategica ritirata e con una ancor meno strategica modificazione degli originali obiettivi. Scopo della non-guerra – una non-guerra già di fatto perduta e divenuta una vera guerra di logoramento – era, adesso, il consolidamento del potere delle repubbliche autonome sorte anni fa, grazie ad un’altra “operazione militare” russa millantata come ribellione, nella regione del Donbass.

La nuova e, ancora una volta, nient’affatto strategica ritirata di Kharkiv ha chiuso – e chiuso con un’altra ed ora non più occultabile sconfitta, anzi, con una vera e propria disfatta – anche questo secondo capitolo. E ne ha aperto un altro, dagli imprevedibili e potenzialmente terrificanti esiti, nel quale alla Russia di Vladimir Putin non restano, al di là d’ogni finzione, che due cose: quelle che davvero definiscono il suo potere. Per l’appunto: il gas e la bomba. Il mito della forza militare russa è svanito nel nulla, sostituito, senza ritorno, dalla veritiera immagine d’un esercito strutturalmente povero, male organizzato al vertice e privo di motivazioni alla sua base. Meglio ancora: dal profilo d’una tipica soldatesca di stampo imperiale, “carne da cannone” prevalentemente formata, con la forza bruta o con il ricatto della povertà, dai suoi più periferici ed oppressi membri. Alexey Kovalev, ricercatore di Meduza – un sito che, prima d’esser soppresso dal regime, era uno dei pochi spazi di libertà d’informazione rimasti in vita nella Russia di Putin – ha calcolato percorrendo i bollettini (molto parziali e censurati) della non-guerra d’Ucraina, una soverchiante presenza di caduti di etnie “non-slave”. Uzbeki, kagiki, buryati, dagestani, tuvani, yakuti. Tutti sudditi di serie B. E, accanto a loro mercenari, molti mercenari. A partire dai membri di quel Gruppo Wagner che, di sé stessi, già tanto macabre prove avevano offerto, al servizio di Bashar al-Assad, nella macelleria siriana.

Gli eventi di Kharkiv hanno prevedibilmente scatenato – un po’ ovunque, ma particolarmente negli USA, capitale di quell’ “occidente” dal quale Putin si dice aggredito – una frenetica corsa ai paralleli storici. Per qualcuno la vittoria ucraina è paragonabile a quella – molto relativa in termini strettamente militari ma risultata poi decisiva sul piano politico-storico – che le milizie del Congresso Continentale americano conseguirono, nel 1777, in quel di Saratoga, contro il poderoso esercito di sua maestà britannica. Andando indietro nel tempo e tornando nella vecchia Europa, qualcun altro ha addirittura rievocato la battaglia navale di Gravelines che, nell’anno del Signore 1588, dette il là al declino – a tutto vantaggio, in questo caso, di sua maestà britannica – della “invencible armada” della corona di Spagna. Ed altri ancora, tornando al ventesimo secolo e spostandosi in Asia, hanno ritirato in ballo Dien Bien Phu, la battaglia che, nel marzo del 1954, vide il trionfo dei Viet Minh del generale Võ Nguyên Giap e la fine della lunga avventura coloniale francese in Indocina.

Tutti storici eventi nei quali (con l’eccezione, forse, della battaglia di Gravelines) il più debole ha avuto ragione del più forte, cambiando il corso della Storia. Anche se probabilmente il raffronto più appropriato – se di raffronti davvero c’è bisogno – è in realtà un altro: quello, sempre restando in Vietnam, con la battaglia del Têt (o per meglio dire, con l’offensiva del Têt come di norma la si chiama, trattandosi non d’un luogo, ma d’una ricorrenza), consumatasi tra il gennaio ed il febbraio del 1968. Perché il Têt? Perché, almeno da un punto di vista militare, non fu affatto una vittoria. Dopo due mesi di feroci combattimenti nelle campagne e nel cuore delle principali città di quello che era allora il Sud Vietnam, i Vietcong si ritirarono con enormi perdite materiali ed umane, senza aver provocato, come nelle intenzioni, il totale collasso dell’esercito fantoccio sudvietnamita, sorretto, allora, dalla presenza di mezzo milione di truppe Usa. Tanto che anni più tardi lo stesso generale Giap, il vincitore di Dien Bien Phu che di quell’offensiva era stato, con Ho Chi Minh, l’ideatore ed organizzatore, avrebbe candidamente ammesso come la resistenza vietnamita fosse uscita da quella estenuante campagna, letteralmente in ginocchio.

Di fatto sconfitti in Vietnam, tuttavia, i Vietcong avevano però vinto – e vinto in modo decisivo – negli Stati uniti d’America. Avevano vinto perché avevano, in casa del nemico, cambiato la percezione della guerra. Più in concreto: perché, arrivando fin sulle soglie del palazzo presidenziale di Saigon, avevano rivelato la menzogna ch’era alla base della guerra americana nel Sudest asiatico. Per anni il generale Westmoreland ed il Pentagono erano andati millantando i grandi successi e la progressiva distruzione di un nemico che, più forte che mai, era all’improvviso riaffiorato in ogni pertugio di territori già dichiarati liberati e, beffardamente, anche nel cuore delle più grandi città. Dopo il Têt, di quella guerra in procinto d’esser vinta nel nome del “mondo libero” non restava, al di là degli esiti dell’ultima battaglia, che, per l’appunto, una cosa: la guerra. Una guerra che continuava e s’approfondiva, agli occhi dell’America e del mondo, in tutta la sua infame, ineludibile sostanza. La guerra dei morti ammazzati, dei massacri, del napalm, del “draft”, il reclutamento forzato, via lotteria, di giovani chiamati a combattere per una causa che, cominciavano a rivelare i sondaggi, più del 60% degli americani considerava sbagliata.

Anche Putin, come Westmoreland ed il Pentagono allora, ha speso gli ultimi mesi magnificando i successi d’una guerra (o di una semplice “operazione militare”) che, lanciata nel nome dei diritti storici della Grande Madre Russia – storici o addirittura divini come, in appoggio a Putin, sostenne il patriarca Kirill –, veniva della Grande Madre Russia prevalentemente combattuta da non-russi. Ora non più. Dopo la ritirata di Kharkiv, la guerra è per i russi – come dopo il Têt avvenne, mutatis mutandi, per gli americani nel caso del Vietnam – arrivata infine davvero a casa. Tra i provvedimenti che, giorni fa, Putin ha annunciato in risposta alla rotta di Kharkiv, non c’è solo la definitiva annessione – via referendum-farsa – dei territori occupati del Donbass, accompagnata dalla per nulla velata minaccia d’uso della bomba atomica in difesa di tale conquista. C‘è anche l’annuncio di una “mobilitazione parziale” della riserva, destinata a regalare alla sua non-guerra almeno 300mila nuovi combattenti.

Narrano le cronache come a quest’annuncio siano seguite proteste di piazza ed arresti. E da qui vale la pena partire per cercare di capire quello che verrà. Putin ha perso la guerra. L’aveva già persa in aprile quando la “Nazione che non esiste” gli aveva sbarrato la strada verso Kiev. Ed ora la ritirata di Kharkiv ha presentato alla Russia, spietatamente, l’intero conto di quella verità occultata. Il trono di Vladimir Putin, nuovo zar di tutte le Russie, sta vacillando. Con quali possibili conseguenze?

Qualcuno già ipotizza una possibile caduta del sovrano nel calore delle proteste popolari e dell’infrangersi, nell’onda d’urto della crisi, del sistema di potere che ha fin qui garantito il semi-dittatoriale potere dell’attuale presidente. E prefigura questa caduta come, non la più probabile, forse, ma certo la più auspicabile e “dolce” delle possibili conclusioni della crisi ucraina. Tolto il dente Putin, tolto il dolore. Niente più minacce atomiche e porte finalmente aperte ad una soluzione diplomatica che, senza umiliare la Russia, sancisca la sconfitta dell’aggressione. Peccato che le cose non siano così automaticamente semplici. L’ascesa di Putin e la sua lunga campagna per riportare l’Ucraina (e non solo l’Ucraina) nel grembo della sua vera, naturale e divina Patria, è il prodotto d’un fenomeno – la rinascita del nazionalismo cristiano russo, o del “euroasianismo” da non pochi del tutto legittimamente considerato una variante russa del fascismo – che va oltre i destini dell’ex agente del KGB assurto alla presidenza anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica (da lui di fatto considerata come un prolungamento, via Stalin, del vecchio impero). In Russia può certo esserci, come contraccolpo della sconfitta in Ucraina, un cambio di regime. Ma assai alte sono le probabilità che si tratti di un cambio in peggio. Vale a dire: non a vantaggio degli Alexei Navalny e dei nazionalisti liberali e pacifisti che Putin ha in questi anni incarcerato, avvelenato ed assassinato nei modi più svariati, ma di quanti vanno oggi reclamando, contro l’eccessivo permissivismo putiniano, mano dura (dura e, ovviamente, nucleare) accompagnata – altro che 300mila nuove reclute! – da una mobilitazione generale contro l’Ucraina, contro dissenso interno e contro l’Occidente (leggi: contro la democrazia).

Il putinismo e l’aggressione all’Ucraina non sono, in ultima analisi che questo: il riaffiorare, come l’insanguinata punta d’un iceberg, d’un nazionalismo cristiano radicale e reazionario, autoritario (lo si voglia o meno chiamare fascismo) che, in varie forme, un po’ ovunque reclama, contro presunte élite “globaliste”, un ritorno alle glorie d’un immaginario passato. Per questo Putin aveva incontrato (e in molti casi continua ad incontrare) un tanto amorevole seguito tra le varie destre fasciste europee. Alcune delle quali – vedi Meloni in Italia – oggi lo condannano per l’avventura ucraina, continuando però a con lui condividere le radici nazional-fascio-cristiane che di quell’avventura stanno alla radice. Questo fenomeno è stato ovunque, ma particolarmente nella Russia post-sovietica, il prodotto del vuoto strategico che ha marcato, lungo ormai quasi tre decenni, la fine della Guerra Fredda. O, se si preferisce, è il prodotto del fallimento del Nuovo Ordine Mondiale frettolosamente proclamato all’indomani della caduta del muro di Berlino. Oggi, di fronte a questa minaccia globale occorrerebbe, in Ucraina ed altrove, una globale risposta democratica di cui non si vedono però che trascurabili tracce.

Nel suo recente discorso davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, Joe Biden, non è andato oltre un generico appello in appoggio – con armi, denari e parole – all’Ucraina aggredita. E, considerate le minacce atomiche di Putin, in un “op-ed” sul Washington, il columnist David Ignatius ha suggerito al presidente degli Stati Uniti di studiare con attenzione, alla ricerca d’una strategica risposta, la crisi dei missili cubani dell’ottobre 1962.

La storia non si ripete (se non, com’è noto, in chiave di farsa). Joe Biden non è John Fitzgerald Kennedy. Vladimir Putin non è Nikita Krushev, e Volodymyr Zelensky non è Fidel Castro. Però è lecito sperare – in una sorta di minimo comun denominatore della speranza universale – che almeno la bomba sia la stessa d’allora. Chiusa negli arsenali. Per tutto il resto c’è tempo. Poco tempo, ma pur sempre tempo rubato all’Apocalisse.

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