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Provaci ancora, Alejandro Celestino

(1/30/2011) – Se i risultati degli ultimi sondaggi venissero confermati, Alejandro Celestino Toledo Manrique diventerebbe per la seconda volta presidente del Perù, con un consenso che, aggirandosi secondo gli attuali exit poll intorno al 24 per cento, è al momento ben diverso da quello che l’ex mandatario raccattò nel 2005: un miserabile otto per cento che lo consacrò, a quel tempo, come il presidente più impopolare degli ultimi decenni. Soltanto alla fine del suo mandato quel consenso era decollato, incredibilmente, fino al 54 per cento, ma resta il fatto che, per quasi tutti i cinque anni che lo videro alla guida del Perù, Toledo Manrique non riuscì a farsi amare, né a dare di sé una immagine diversa da quella di un presidente ambiguo e poco affidabile. Se scioperi e proteste, continui, paralizzarono in più occasioni il Paese, la personale moralità del mandatario venne macchiata da accuse di corruzione che riguardavano lui stesso e i suoi familiari, e da peccati privati come gli eccessi alcolici e il fatto di non avere mai voluto riconoscere la figlia Zarai, benché ne fosse il padre biologico.

Al governo del Perù dal 2001 al 2006, Toledo lasciò in eredità al Paese una situazione economica stabile ma, liberista ortodosso (e, a giudizio di tutti, economista eccellente), non risolse molti dei problemi che lo affliggevano quando prese il potere, a partire dalla ineguale distribuzione della ricchezza e dalla tutela degli indigeni e delle loro terre. Il suo “capitalismo dal volto umano”, sbandierato in campagna elettorale, si rivelò efficace nel risanare i conti pubblici e nello spingere la crescita economica legata all’espansione commerciale  (fiore all’occhiello di quel decollo furono l’accordo di Libero Commercio con gli Stati Uniti nel 2006 e l’incremento del traffico commerciale con la Cina, passato dai 400 milioni di dollari del 1999 a più di mille milioni del 2003),  ma non ebbe tempo né interesse a mostrare alcunché di quella umanità promessa.  A meno di un anno dall’insediamento, scesero in piazza contro il governo i campesinos della zona di Arequipa, per protestare contro la decisione di privatizzare le compagnie elettriche di Egasa e Egesur, con cui Toledo smentiva la promessa fatta di mantenere quelle compagnie allo Stato e che vennero invece vendute alla belga Tractebel (a causa delle proteste la privatizzazione venne però sospesa, fu dichiarato lo stato d’emergenza e il Ministro dell’Interno si dimise). Pochi mesi dopo furono i piccoli produttori di legno della regione de Madre de Dios a reclamare l’annullamento delle concessioni forestali alle compagnie private, e  da quel momento proteste e scioperi furono la regola nel contrastato governo di Toledo che, per rappezzare la sua calante popolarità, passò da un rimpasto all’altro, nessuno dei quali servi a nient’altro che ad aumentare il malcontento.

Eppure, per qualche tempo El Cholo (soprannome che viene dato agli indigeni che vanno a vivere in città) aveva incarnato l’aspirazione delle classi medie e medio-alte a una democrazia pulita (da contrapporre al governo né pulito né democratico del presidente uscente Alberto Fujimori) e per i poveri la speranza di un Paese più equo. Figlio di un muratore e di una venditrice di pesce, entrambi indigeni del dipartimento di Ancash, ottavo di sedici figli di cui nove morirono per le precarie condizioni della famiglia, per aiutare quest’ultima l’adolescente Alejandro si mise, da ragazzino, a lustrare scarpe e a vendere biglietti della lotteria. Era però anche un liceale brillante e mostrò spiccate doti letterarie e giornalistiche, tanto che finì per vincere una borsa di studio di un anno presso l’università di San Francisco, facoltà di economia. Scoperta l’America, da lì non si mosse per una decina d’anni, durante i quali ebbe modo di costruirsi un curriculum di tutto rispetto, a forza di dottorati presso l’università di Stanford e Harvard e di una serie di consulenze prestigiose alla Banca Mondiale e  all’Unicef.

Quando tornò in Perù, nell’81, era ben altro cholo da quello che ne era partito. Ringalluzzito dal successo straniero e da una bionda ed efebica moglie belga, Eliane Karp, un’antropologa appassionata di etnie quechua che aveva conosciuto in California, fu prima consigliere del presidente del Banco Central e poi del ministro del Lavoro durante la presidencia di Fernando Belaúnde, e professore di Finanza nella Escuela de Administración de Negocios para Graduados di Lima.

La decisione di diventare presidente (o almeno di provarci), la ebbe nel 1994, alla fine del primo quinquennio di Fujimori e alla vigilia di un’elezione che avrebbe con tutta probabilità portato El Chino (soprannome dell’allora presidente dovuto alle sue origini nipponiche) a governare il Paese per la seconda volta. Toledo aveva a quel tempo 49 anni e molta ambizione e grinta, e giocò il ruolo di uomo dell’opposizione e paladino di una democrazia illuminata. Fondò un partito che chiamò Pais Posible e che poi diventò Perù Posible, e si presentò come candidato. La sua comparsa sulla scena politica ebbe un clamore tale che lo ribattezzarono Fenomeno Toledo, ma nonostante i sondaggi lo dessero all’11 per cento, alla fine ne ottenne appena tre. Si candidò di nuovo nel Duemila, contro un Fujimori alla sua terza corsa. Quest’ultimo finì in vantaggio al primo turno, ma Toledo lo accusò pubblicamente di avere manipolato i risultati elettorali. In ogni caso, fu Fujimori a vincere al ballottaggio, sia pur barando,  ma la questione si sistemò comunque perché, in piena querelle tra i due candidati, saltò fuori un video che mostrava Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti e anima nera del presidente, mentre corrompeva al Congresso un esponente dell’opposizione. Il video scioccò il Paese e Fujimori, che in quel momento si trovava in Giappone, si dimise, mentre il Congresso lo dichiarava moralmente incapace di governare.

Le elezioni che si tennero qualche mese dopo consacrarono al secondo turno la vittoria di Toledo su Alan Garcia e toccò al Cholo, a quel punto, farsi carico delle sorti del Perù. Ripristinò la democrazia e fece un sacco di bei discorsi augurali e di gesti fortemente simbolici come  recarsi nelle sue terre indie a dedicare la vittoria agli antenati, ma in meno di un anno il Fenomeno Toledo si era sgonfiato.

La protesta più imponente fu quella che, nel 2003, portò in piazza più di due milioni di peruviani che manifestarono contro il mancato aumento degli stipendi. Poi ci fu la rivolta degli ex militari nazionalisti la cui repressione finì nel sangue, infine ci si mise Sendero Luminoso che, sbaragliato da Fujimori, risollevò la testa con una serie di sequestri. Ai disastri pubblici si aggiunsero gli scandali privati come la notizia degli eccessi alcolici di Toledo e l’arresto della sorella Margarita per falsificazioni nell’iter di iscrizione del partito fondato dal presidente. Se a quest’ultimo va riconosciuto, per contro, il merito di una politica fortemente integrazionista (per esempio fu sua la proposta di una Comunidad Sudamerica de las Naciones, che poi sarebbe diventata Unasur), va detto che questi traguardi non ebbero a quel tempo gran presa sui peruviani. La credibilità di Toledo andò a picco, tanto che decise di non ricandidarsi, e per un po’ sparì dalla scena. La sua ricomparsa è recente, è di novembre la notizia della sua candidatura. In poche settimane, non solo El Cholo ha conquistato consensi fino a superare sia il favorito Luis Castanada, ex sindaco di Lima, sia la soave Keiko Fujimori figlia di Alberto, ma il suo “capitalismo dal volto umano” ha guadagnato perfino il placet dei media.

Il nuovo Toledo, ormai 65enne, ammette umilmente ma con dignità gli errori passati. Dice di avere imparato da questi e che la lontananza dal potere politico, e in giro per il mondo, lo ha trasformato in una persona migliore, e in un possibile buon presidente. Il suo programma non è cambiato granché da quello del suo primo mandato, né sono cambiati gli uomini (sono pochissime le new entries), ma insiste molto sui diritti degli indigeni, sulla depenalizzazione dell’aborto terapeutico e sul matrimonio per i gay. Denuncia la guerra sporca che, in questo esordio di campagna, si sta scatenando contro di lui, e accusa di quella guerra il partito Apra dell’attuale presidente Alan Garcia, però pranza con quest’ultimo e dichiara alla stampa che i loro rapporti sono amichevoli. L’immagine che rimanda, secondo i media, è quella un po’ obamiana di compostezza e pragmatismo.

Quando la stampa avversa pubblica le foto delle sue vacanze in una zona esclusiva (Toledo che beve champagne insieme alla moglie sul bordo di una piscina per ricchi),  lui ribatte con moderazione. Meno banale, c’è la denuncia penale contro alcuni membri del suo Gabinetto che, durante il suo governo, autorizzarono la vendita di gas a compagnie straniere, mentre quel prodotto avrebbe dovuto, per legge, essere prima destinato al mercato interno. Il candidato ribatte invitando i suoi avversari a presentare proposte anziché sferrare colpi bassi. In ogni caso, sembra che i peruviani facciano poco caso a questi ultimi. Secondo una inchiesta del quotidiano La Republica, Alejandro Toledo sarebbe stato “eletto” il politico più interessante del 2010, con un sonoro 43 per cento dei consensi.

 

 

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