23novembre 2006
di Massimo Cavallini
Chi è Robert Menard? E perché Gianni Minà– ormai da mesi ed in rossiniano crescendo – parla tanto ossessivamente male di lui? La lettura di due chilometrici ed alquanto divaganti articoli pubblicati – a firma del medesimo Minà – sull’ultimo numero della rivista Latinoamerica, aiuta solo in parte a rispondere a questi due quesiti. Ma almeno due punti appaiono passabilmente chiari. Il primo: Minà nutre per Menard un assai profondo disprezzo (professionale ed umano) perché, in un ovvio rapporto di causa-effetto, l’organizzazione da lui fondata, Reporter sans Frontière, ha, 1) ricevuto denaro da agenzie governative statunitensi; e 2) avuto, una volta incassati i soldi, la deplorevole “disonestà intellettuale di partecipare, con campagne di disinformazione, alla ‘strategia della tensione’ organizzata dal Dipartimento di Stato Usa contro Cuba, il Venezuela ed altri paesi non convenienti alle politiche di Washington”. Secondo punto: Minà – che questo ritornello già è andato cantando per tutto il 2005 – non intende rallentare la sua offensiva contro le forze mercenarie. E promette di continuare – da “vecchio giornalista che crede nell’etica” – una campagna che nutrirà “con prove, dati ed argomentazioni inoppugnabili”.
Non è ovviamente nostro compito difendere Reporters sans Frontiere (che, peraltro, si difende da sola, in questa nota , dall’accusa di riservare a Cuba un trattamento speciale). Né, lo confessiamo, siamo particolarmente ansiosi di conoscere, se mai arriveranno, le nuove rivelazioni promesse da Minà. Perché? Per una semplicissima ragione: l’esperienza di questi mesi ci ha dimostrato come le prove contro Menard e la sua organizzazione siano fin qui state, forse davvero “inoppugnabili”, come tanto appassionatamente sostiene l’autore, ma soprattutto irrilevanti. E talora persino pateticamente irrilevanti. Minà ha scoperto – con oltre un anno di ritardo rispetto ad un’analoga denuncia del Granma International a firma Jean-Guy Allard – qualcosa che, giusto o sbagliato, Reporters sans Frontière sostiene essere sempre stato alla luce del sole . Ovvero: che l’organizzazione diretta da Menard ha ricevuto denaro dalla National Endowment for Democracy (che non è mai stata, come sostiene Minà, “un’agenzia della Cia”, ma non stiamo a sottilizzare), nonché da alcune corporazioni dalla pessima fama (Coca Cola, Bacardi, e Publicis). E fin qui, come si dice, ciascuno è libero di pensare tutto il male che crede. Dove tuttavia le “prove” (passate e, presumibilmente, future) presentate dall’accusa appaiono inoppugnabilmente inesistenti è proprio là dove il vero reato viene denunciato. A quale “campagna di disinformazione” contro Cuba ha, con spirito mercenario, partecipato Robert Menard? Minà, a questo punto, comincia, con logorroica e sistematica passione, a parlar d’altro…
Le campagne di disinformazione si basano, notoriamente, su notizie false o, comunque, su verità manipolate. Visitando il sito di Reporter sans Frontiere abbiamo trovato, alla voce Cuba (che davvero c’è sembrata una piccola parte del tutto), affermazioni di cui riportiamo un breve florilegio (ed il cui tono ci è parso del tutto simile a quello usato per altri paesi “a rischio”): “22 giornalisti (dei 27 arrestati e condannati nel marzo del 2003 n.d.r.) sono ancora in carcere, incluso Ricardo Gonzales, corrispondente locale di Reporters senza Frontiere…Tutti sono stati accusati di ‘attentare all’indipendenza nazionale’ e di ‘sovversione’ e condannati a pene tra i 14 ed i 27 anni di carcere…La situazione della libertà di stampa è disastrosa…Tutto l’apparato d’informazione è sotto il controllo del governo e tutti gli articoli pubblicati debbono passare al vaglio del Departamento de Orientación Revolucionaria, un organo che dipende dal Comitato Centrale del Partito Comunista…”.
C’è qualcosa di falso in tutto questo? C’è qualcosa di manipolato? A noi non pare. E presumiamo che continuerà a non parerci quali che siano le “prove, i dati e le argomentazioni inoppugnabili” che Minà tirerà, domani, fuori dal suo cilindro di “vecchio giornalista che crede nell’etica”. Robert Menard potrebbe aver preso denari da Belzebù in persona nel più profondo dei gironi infernali, ma la questione della negazione d’ogni libertà di espressione a Cuba resterebbe quella che in effetti è: un problema troppo serio e troppo importante – troppo doloroso, soprattutto a sinistra – per essere coperto sotto le maldestre palate d’un interminabile “teque” (il cubanologo Minà ci passerà il cubanismo) di pasticciata retorica anti-americana. Vuole Minà qualche valido esempio di manipolazione della verità? Gliene regaliamo un paio. Citare Abu Ghraib per giustificare l’arresto dei giornalisti a Cuba è una manipolazione della verità. Spiegare con l’esistenza dell’embargo gli atti di repressione d’un regime che è, in sé, repressivo, è una manipolazione della verità. Perché, per quanto verissima sia tutta la vergogna della politica americana verso Cuba (un inestricabile misto d’arroganza e d’imperiale imbecillità), l’assenza di libertà nell’isola non è (non è mai stata) la dura necessità d’una politica d’autodifesa della rivoluzione, ma – al contrario – la tomba delle grandi e belle speranze che quella rivoluzione aveva sollevato. E che ancor oggi, per molti aspetti, appartengono all’umanità intera.
Per parafrasare un vecchio slogan antifumo: le campagne anti-Menard di Minà danneggiano anche te (e, soprattutto, danneggiano Cuba). È bene che qualcuno, al più presto, gli dica di smettere.
P.S. Prorio ora notiamo questo su Caffe Europa questo articolo dedicato proprio a Reporter sans Frontière. Come si può vedere il caso di Cuba – o meglio, la “campagna di disinformazione contro Cuba”, secondo Minà vera ragione di vita dell’organizzazione (o della “confraternita” come molto sottilmente la definisce) – neppure viene menzionato.