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Sunday, October 13, 2024
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Lula, ultimo atto

A São Bernardo do Campo tutto era cominciato, sul finire degli anni ‘70, quando, con i grandi scioperi dei metalmeccanici della cintura industriale di São Paulo, dalle tenebre della dittatura militare era emersa la figura luminosa d’un giovane operaio, tarchiato e barbuto – tal Luiz Inácio da Silva, meglio noto come ‘o Lula’ –  capace di incantare le masse (e far tremare il potere) parlando (senza microfono, vuole la leggenda) agli ottantamila operai riuniti nello stadio di Vila Euclides. E tutto a São Bernardo do Campo è quasi certamente finito ieri, quando quello stesso ‘o Lula’ – ora nelle duplici vesti d’ex presidente d’una delle più vaste nazioni del mondo e di imputato per corruzione – è stato prelevato dalla polizia per essere interrogato in merito ad almeno un paio dei colossali scandali (quello del ‘Lava Jato e quello detto degli ‘Zelotes’) che da oltre un anno scuotono il governo di Dilma Rousseff. L’operazione – condotta, raccontano le agenzie di stampa, da almeno 200 poliziotti e da almeno una mezza dozzina di ufficiali giudiziari che hanno perquisito ogni anfratto dell’abitazione di Lula  a San Bernardo– ha avuto tutta la spettacolarità che s’addice ad un cambio d’epoca. E non v’è dubbio che – quali che siano gli esiti delle inchieste giudiziarie – proprio di questo s’è trattato.

Solo qualche mese fa – agli inizi di settembre, per essere precisi – Lula aveva ufficialmente annunciato il suo ritorno nell’arena politica. E lo aveva fatto – ancora una volta parlando in quel di São Bernardo do Campo – con due precisi obiettivi: quello di difendere il suo passato e il suo futuro – nonché quelli dell’intero PT, Partido dos Trabalhadores, la formazione politica con la quale aveva, dal 79 al 2003, condotto la sua ‘lunga marcia’ verso la presidenza – dall’assedio di una campagna giudiziaria da lui definita (senza troppa fantasia, per la verità) ‘politicamente motivata’. E questo è quel che in effetti Lula ha fatto. Ha rimesso le mani nel piatto della politica attiva, non solo con discorsi ed analisi, ma anche marcando la sua rinnovata ed inevitabilmente assai ingombrante presenza con l’imposizione di alcune decisive scelte al governo della Rousseff. A cominciare dal molto discusso cambio ai vertici del ministero delle Finanze, due mesi fa passato da Joaquim Levy – un economista molto ortodossamente ‘austero’ – a Nelson Barbosa, molto più ‘luliano’ e propenso ad affrontare la crisi economica (forse la più grave dal ritorno della democrazia) senza drastici tagli alla spesa pubblica.

Il Lula che, ieri, la polizia ha prelevato nella sua abitazione di São Bernardo, era un leader che stava, con tutta evidenza, preparando un suo ritorno a Pálacio do Planalto nel 2019. Con risultati che tuttavia già apparivano, sotto gli implacabili occhi dei sondaggi d’opinione, assolutamente asfittici. Un’inchiesta IPSOS dello scorso ottobre aveva rivelato come solo il 25 per cento dei brasiliani considerasse Lula ‘una persona onesta’. E come il 67 per cento fosse, al contrario, propenso a considerarlo ‘corrotto come tutti gli altri’. Un cambio abissale rispetto al Lula che, nel 2006 – non per caso in un periodo di grande auge economica – era passato pressoché indenne, con una popolarità inchiodata intorno all’80 per cento, attraverso le forche caudine d’un altro scandalo: quello del ‘mensalão’ (compravendita di voti nel parlamento per la quale è finito in carcere José Dirceu, uno dei più antichi e validi collaboratori di Lula).

In questo Brasile – un Brasile inferocito che Lula, piaccia o no, ha comunque cambiato in meglio – la gente sembra ormai, come accadde illo tempore nell’Italia di ‘mani pulite’, riservare la sua ammirazione ad un solo uomo: Sergio Moro, il giudice (chiamatelo, se vi pare, il Tonino Di Pietro brasiliano) che oggi guida l’inchiesta sugli scandali di Petrobras, l’ente petrolifero di Stato. E l’operazione di ieri – la fase ‘numero 24’ delle indagini, stando al gergo giudiziario – non ha fatto che aggiungere devastanti simbologie all’implacabile caduta della stella luliana. Case lussuose che – nella metaforica ombra del mitico stadio di Vila Euclides, smantellato anni fa – sono state ristrutturate in cambio di favori politici. Ville con parchi nei quali – si legge – possono trovare posto 24 campi di footbal…Tutte cose che – in stridente sinfonia con i comunicati del PT che definiscono Lula un ‘prigioniero politico’ – lasciano intravvedere forme di corruzione personale. Voci non confermate che, tuttavia – vere, false o esagerate che siano – soffiano ormai ben più forte del rossiniano ‘venticello’ della calunnia.

Le inchieste ci diranno in dettaglio, si spera, quel che davvero è accaduto. Ma intanto, per cominciare ad inquadrare il problema si può partire da questa frase: ‘‘… Ho dovuto fare i conti con molte cose immorali, con ricatti…ma non c’è altro modo per governare il Brasile…’. Questo, nel marzo dell’anno del Signore 2010, è quanto Luiz Inácio ‘Lula’ da Silva disse – ‘con angustia’ e con un evidente ‘senso di colpa’ – a José ‘Pepe’ Mujica, neo-eletto presidente della Republica Oriental del Uruguay. O, almeno, questo è che quel Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz – i due giornalisti uruguayani che hanno stilato il più recente ed il più ‘ufficiale’ dei molti libri-intervista dedicati al ‘presidente povero’ – dicono che Mujica disse che Lula gli disse, durante un molto informale incontro che, cinque anni fa, in quel di Montevideo, si consumò ai margini delle cerimonie per la sua ‘toma de posesión’. Mujica faceva rilevare, in quel libro, come il ‘mensalão’ (che oggi sembra un uno scherzo rispetto ai nuovi scandali) fosse in realtà ‘más viejo que el agujero del mate (più vecchio della cannuccia con la quale si succhia il mate, come recita un’antica massima uruguayana)’. E sottolineava come la corruzione in Brasile altro non fosse – fatto tutt’altro che nuovo nella Storia dell’umanità – che ‘il prezzo infame per la realizzazione di grandi opere’, il fango nel quale, chiunque volesse, come Lula, cambiare il paese, doveva necessariamente immergere le mani.

Forse è davvero così. Ma quel che è certo è che la stagione di quel cambio – un cambio fatto di compromessi e che la storia di sicuro giudicherà più benevolmente delle cronache di questi giorni – si è oggi definitivamente chiusa. Come scrisse il Manzoni: ai posteri l’ardua sentenza.

 

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