05-06-2009 – Giornalismo partecipativo, gestito dal professor Gennaro Carotenuto, ci regala in questi giorni un Gianni Minà d’annata, in buona parte dedicato alla “bloguera” Yoani Sánchez. O, volendo esser più precisi: alle “dimenticanze” di quella che il Minà – molto irritato per un’intervista alla medesima Sánchez pubblicata dall’Unità – con ostentato disdegno definisce “la bloggera di moda”. Di che cosa, secondo il Minà, si è dimenticata Yoani? Ovviamente, di quello che, dal punto di vista d’una corretta informazione, davvero conta. Vale a dire: di raccontare, nel suo blog, come le grandi conquiste sociali della rivoluzione, “nel campo dell’educazione, della sanità, della cultura e dello sport” rendano oggi Cuba “pur con tutti i suoi errori, diversa, più libera, dai paesi che invece, negli anni, sono stati prigionieri del neoliberismo e del mercato, come quelli delle villas miserias delle grandi città o come i trenta milioni di bambini randagi del continente”. Questo dice Gianni Minà. E lo dice, non solo con gli stessi toni che Berlusconi usa quando si lancia nei suoi frequenti attacchi ai “media di sinistra”, ma anche con gli stessi contenuti. Poiché proprio di questo, a conti fatti, Minà accusa Yoani: di non ripetere, nella pagina che gestisce, le stesse cose che la propaganda di regime racconta ogni giorno attraverso i suoi media (tutti i media, nella realtà cubana). Contrariamente a quel che scrive la “bloggera”, afferma indignato il Minà, i giovani cubani conoscono assai bene il privilegio di vivere dove vivono. E ne sono felici. Come inoppugnabilmente dimostra un documentario che lui stesso – “forse” proprio “per ribattere queste dimenticanze” – ha di recente girato percorrendo con una sua troupe l’intera isola, da l’Avana a Guantánamo, al fine di dipingere un ritratto “non banale sulla Revolución ai tempi di Obama”. I giovani (quelli nati a Cuba e quelli che sono venuti a Cuba a studiare da tutta l’America Latina), sostiene il Minà forte di questa “non banale” esperienza, ignorano totalmente chi sia Yoani. E solo allorquando il medesimo Minà, con santa pazienza, ha provveduto ad informali su quel che Yoani pensa e scrive, hanno provveduto a far sapere all’intervistatore come – tanto assurde e lontane dalla realtà trovavano le denunce della “bloggera alla moda” – neppure riuscissero a capire che cosa quest’ultima “volesse dimostrare”.
La cosa divertente è che, a questo punto, anche Miná, forse perché sotto il cattivo influsso di Yoani, comincia lui stesso – cosa grave per chi, citiamo dal suo blog, ha alle spalle una “vita da cronista” – a dimenticare cose. Dimentica di chiedersi, ad esempio, come mai, se gli articoli della “bloggera” sono tanto lontani dalla sensibilità dei giovani cubani, lo stesso Fidel si sia preso la briga di attaccarla dai suoi luoghi di convalescenza. Ma non solo: come colto da una crisi di senile smemoratezza, il Minà, finisce per trascurare – o nascondere, con tutta la sciatteria che, di norma, distingue i giornalisti al servizio del potere – fatti essenziali . Giusto per citarne uno: nel fervore del suo attacco all’Unità, Minà ricorda come, tempo fa, le “Dame in Bianco”, un gruppo di dissidenti – o meglio: uno di quei gruppi di dissidenti che, secondo Miná, a Cuba nessuno conosce, ma di cui i media occidentali parlano in continuazione – fossero state accusate d’aver ricevuto danaro, tramite l’addetto all’Ufficio d’Interessi degli Usa, da un’organizzazione di assistenza giuridica, fondata a Miami da Santiago Álvarez, vecchio arnese oggi in carcere per il ritrovamento d’un arsenale d’armi. Dimentica però, il documentarista “non banale”, alcuni significativi dettagli della storia. Ed alcuni piuttosto pacchianamente li confonde. Dimentica, ad esempio, Gianni Minà, di raccontare in che modo le “Dame in Bianco” siano state accusate di tanto peccato (fu durante una trasmissione televisiva durata due ore, nel corso della quale un paio di giornalisti di stato presentarono, senza contradditorio alcuno, prove “inconfutabili” , ma solo nel senso che a nessuno era permesso confutarle o verificarle). Dimentica di riferire che cosa le Dame a quelle accuse abbiano risposto (Laura Pollán, che dirige il gruppo – e che Minà, in un’ennesima prova di sciatteria confonde con Martha Beatriz Roque – ha negato d’aver ricevuto denari da Álvarez); e dimentica di spiegare che fine abbiano fatto quelle “inconfutabili” accuse (nessuna: tutto è cominciato e finito con quella puntata speciale de la “Mesa Redonda”. Il che lascia sospettare, di inconfutabile, non ci fosse, in quell’operazione, che la volontà di denigrare le Dame). Dimentica, il Minà, di chiedersi chi e come abbia fornito ai “liberi” giornalisti della “Mesa Redonda” (avanziamo una maliziosa ipotesi: che siano stati gli uomini della Seguridad?). Ma soprattutto il buon Minà, molto banalmente dimentica di offrire ai suoi lettori, da cronista, un minimo di “background” sulla ragion d’essere di un gruppo nato sull’onda di molto concreti e drammatici fatti di cronaca. Ovvero: dimentica di segnalare come le “Dame in Bianco”, altro non siano che le madri, mogli o sorelle delle 75 persone che, nel marzo del 2003, vennero arrestate, processate a porte chiuse e, nel giro di 24 ore, condannate a pene tra i 18 ed 28 anni di carcere per reati che nessuno conosce, ma che, di certo, nulla hanno di violento. O meglio: per reati che possono essere considerati tali solo da codici e da procedure liberticide. Quegli arresti e quelle condanne che Minà dimentica non furono, in ogni caso, un’invenzione della “bloggera di moda”, o dei media occidentali che costantemente deformano la realtà cubana o, ancora, di quella “Freedom House” che Minà denuncia come lunga mano dell’Impero. Furono cose vere, fatte da un governo che nega ogni forma di libertà di espressione e di associazione. Così come vere furono, in quei giorni, le condanne a morte – anch’esse decise ed eseguite in 24 ore, dopo un processo a porte chiuse – dei tre poveracci che, armati di coltelli e senza versare una sola goccia di sangue, tentarono di dirottare il traghetto di Regla.
Di tutto questo – di questi diritti e di queste vite calpestate – Gianni Minà non sembra ricordare che la formuletta, tragica e ridicola al tempo stesso , con la quale il regime sinistramente tentò allora (e tuttora tenta) di giustificare quelli arresti, quelle condanne e quelle fucilazioni. “Nel 2003 – scrive Minà – …ci fu una vera e propria strategia della tensione, con aerei e traghetti sequestrati…”. E qualcosa del genere, aggiunge il documentarista “non banale”, sta succedendo ancor oggi, sia pur a più basso livello, con l’attenzione riservata alla “bloggera alla moda”…
Il finale è, a tutti gli effetti, un classico. Gianni Minà ricorda a quanti, dall’Unità a Internazionale, sotto l’influsso dell’Impero danno spazio a Yoani Sánchez, come in Messico ed in Colombia, “nazioni allineate sulle vecchie politiche degli Stati uniti e dei farisei europei”, lo sport di uccidere i giornalisti sgraditi sia ancora molto praticato. Giustissimo. A Cuba , invece, i giornalisti indipendenti li mandano soltanto in galera per una vita e, quel più conta, solo in casi estremi. Perché, di norma, quella che a Cuba che prevale è una sana politica di prevenzione. Perché esistono leggi che impediscono – a tutti, non solo ai giornalisti – di esprimere quelle “idee sgradite” che potrebbero metterli nei guai. Qualcuno – e, purtroppo, anche qualcuno di sinistra – chiama tutto questo “repressione”. Gianni Minà lo chiama progresso e ci racconta come, in questo progresso, i giovani si crogiolino felici in barba a Yoani ed agli ammiratori di Yoani. Ed ha, ovviamente, ragione lui. Per ché, quando si tratta di rivelare, su Cuba, le mezze verità (o le menzogne intere) che piacciono al governo, nessuno, in nessuna parte del mondo, riesce, in effetti, ad essere più banale di Gianni Miná, cronista smemorato.