18 aprile 2006
di Gabriella Saba
L’autobus ha sterzato con violenza e poi ha sbandato, per qualche secondo ha pencolato paurosamente come se fosse incerto se ribaltarsi o meno, ma all’ultimo si è rimesso in asse. L’autista era davvero bravo, nel suo genere.
Ho guardato Tamara, la ragazza israeliana. Aveva gli occhi sbarrati e mi fissava con terrore: “Do something”, ha sussurrato. “Do something please”.
Mi sono alzata e sono entrata nella cabina di guida. Tre persone si sono girate a guardarmi, una era l’autista. “Che c’è?”, mi ha chiesto brusco. “Lei guida molto bene”, ho detto compiacente, “ma saremmo tutti molto più tranquilli se rallentasse un po’”. Il tipo ha riso. “Non posso, mi spiace. Dobbiamo essere a La Paz alle 6”. Ho riso anch’io. “Non ci arriveremo mai se continua a questo modo”. Avevamo evitato tre frontali in mezz’ora, e fuori pioveva di brutto, una di quelle inondazioni di cui ogni giorno parlavano i giornali.
“Tranquila, no pasa nada”, ha detto il ragazzo. Aveva un enorme sacco di foglie di coca sul cruscotto e una bottiglia di qualcosa che sembrava acqua, vuota a metà.
Per un momento ha lasciato il volante. Si è tolto il berretto, l’ha lanciato verso il tettuccio, poi l’ha ripreso con i denti. “Tranquila, gringa”, ha guaito.
La donna che era con lui nella cabina ha riso. “Questo è un Paese per gente ruda, tesoro, no para senoritas”. Avrà avuto una cinquantina d’anni, e tutti i denti davanti cerchiati d’oro.
“Ok”, ho detto. “Come volete”. Mi sono seduta di fianco al conducente. “Io da qui non mi muovo”, sentendomi morire perché il viaggio da Sucre a La Paz dura dodici ore, ne era passata appena una e avrei dovuto passare il resto del tempo seduta lì dentro per controllare che quel matto non ci facesse schiattare tutti.
Sono uscita per fare cenno a Tamara che era tutto ok, ma quando sono rientrata l’autista aveva ripreso a fare il pazzo. Si era attaccato alla bottiglia e la teneva in perpendicolare rispetto alla bocca. Intanto, l’autobus se ne andava per i fatti suoi. “La prego”, ho detto quasi piangendo. Ma quando l’ho guardato in faccia ho capito che era una storia persa. Era così strafatto che faceva fatica a capirmi.
Mi sono seduta accanto a lui, mi tremavano le mani e le gambe. Mi tremava la voce. Improvvisamente, ero in preda al panico.
Il ragazzo aveva chiuso gli occhi. Rideva come un demente e blaterava frasi insensate. “Con los ojos cerrados. Guido senza mani e con los ojos cerrados, y no pasa nada”. “Hay que tener fe en Dios”, ha sospirato dopo un po’. “Dios ci aiuta a noi peccatori”.
Gli ho detto: “Le prometto una buona mancia se rallenta”. Il tipo ci ha pensato un secondo, ha bisbigliato, come tra sé: “Una buona mancia?”. Si è tolto il berretto, di nuovo lo ha sbattutto ovunque. “Ok, rallento. Una buona mancia dice”.
Se ha rallentato non me ne sono accorta, ma a un certo punto ho deciso di smettere di avere paura, o forse mi sono distratta, e non so come mi sono trovata a masticare foglie di coca anch’io, e a entrare nelle storie di quei tre, l’autista e il suo aiutante e la donna, Dona Kata, una domestica come mi ha spiegato poi. A ogni storia l’autista buttava in alto quel suo cappello, e per l’entusiasmo accelerava e sgommava e io chiudevo gli occhi e dicevo “Si, non c’è da fare altro che avere fede in Dio” e se c’è stato un momento nella mia vita in cui ho avuto la tentazione di credere è stato quello.
“La vita è dura cara , cara signora”, diceva ogni tanto la donna, una meticcia. “Ma lei quando ha paura faccia così, preghi nostro Signore Dio dei cieli che allontani la paura e i cattivi pensieri”. Si è segnata. “L’autista è matto, Dio lo sa che è matto, ma se il Signore non lo permette non ci succederà niente anche se è matto, e guida come un matto. Perché se non c’è la fede a uno davvero gli viene la paura che ci andiamo a sfracellare da qualche parte con un autista così”.
L’autista ha sospirato: “L’autista lavora diciotto ore al giorno, come vuoi che non sia matto, alla fine? Sempre coca e coca per restare sveglio e come vuoi che non sia matto alla fine, donna Kata?”. L’assistente dell’autista ha detto: “Dai, donna Kata, raccontaci dei tuoi amanti”.
Donna Kata ha sospirato. “Che vuoi che ti dica, figlio mio? Gli amanti sono gli amanti. Un regalino ogni tanto, per arrotondare, ma il cuore non c’entra, il cuore è del marito”. L’autista mi ha guardato, ghignando. “Adesso chissà come pensa male la gringa”. Ho detto: “Non penso niente. A ognuno le sue cose”. Donna Kata ha continuato. “Non è che uno lo fa per fare male. Ma lo sa, la tentazione. Tanta miseria, e quei ricchi che ti promettono tante cose……..”. L’ho guardata fissa per capire se mi fossi persa qualcosa. Non mi ero persa niente. Era una delle donne più brutte che avessi visto nella mia vita, grassa e piccolissima e con quei denti dorati che scintillavano nel buio. “Tante cose, mi hanno promesso”, diceva Donna Kata. E ville e una bella vita se lasciavo il marito. Ma io no e no. Il marito è il marito. Solo qualche regalino, un regalino è permesso. Dio non si offende”.
Ho guardato l’autista che all’improvviso si era messo calmo, guidava in silenzio e ogni tanto annuiva. “Come giudicarla, donna Kata? La vita è dura”. Ho ripetuto anch’io, piano: “La vita è dura”. Ho detto: “Qualche volta è dura anche da noi. Qualche volta è più duro essere poveri in mezzo a tanti che non lo sono. Ti vergogni di più”. Ho fatto un gesto come dire: Ma è roba passata. Donna Kata ha sorriso: “Lei ci ha la compassione. Si vede che ci ha avuto i suoi momenti, si vede senora, lei ci ha la compassione”. L’autista ha sorriso: “La gringa ne ha passate, è una ruda la gringa, si vede che ne ha passate”. Qualche volta mi stufavo di quelle storie.
Ho tirato fuori le empanadas e le ho offerte in giro. Il conducente mi ha offerto un trago. Ho chiesto: “E’ così tremendo, qui?”. Era una domanda idiota. Non ci voleva molto a capire quanto era tremendo. Ho detto: “Adesso, però, c’è don Evo”. Si sono messi a parlare tutti insieme: “Si adesso con don Evo cambia, cambia seguro”. “Magari ci vorrà un pochino”. “Si claro pero cambia. Cambia todo, due anni e sarà tutto diverso. “Tu Ricardo non dovrai più guidare tante ore ogni giorno e così magari la pianterai di strafarti”. “E lei Dona Kata non dovrà più farsi le sue storie in giro per una gallina” . “Diventeremo ricchi”. “Diventeremo jailones”. Hanno riso tutti, ho riso anch’io. Ridevamo nel buio. Dietro di noi, l’autobus sembrava immoto. “Sst”, ha detto l’assistente. “Diranno che siamo ubriachi. La gente è cattiva qui”. “La gente è invidiosa”, ha detto Donna Kata. Il conducente ha sollevato la bottiglia. “Alla Pachamama”, ha detto. “Alla Pachamana”, abbiamo brindato noialtri tre. “Sto andando bene?”, mi ha chiesto il conducente? “Es tranquilo asì?”. “Sta andando benissimo. Se la sta meritando, la mancia”. Ha sollevato la bottiglia, di nuovo. “A tutte le mance del mondo. A don Evo”. Mi ha detto, senza guardarmi: “La mancia se la tiene, Dona, io faccio il mio lavoro”. Ho detto: “No no, mi fa piacere, davvero”. Mi sono allungata sul sedile di fianco all’autista, fuori aveva smesso di piovere e una luce chiara illuminava la strada. Ho guardato l’ora: mancavano ancora nove ore a La Paz.