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Monday, November 11, 2024
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Figlio d’orango

Molti dei “trumpisti” (pre-marcia o acquisiti) che hanno con i loro commenti onorato il mio precedente post, hanno a quanto pare preso assai male (direi con certa isteria) una specifica parte del mio scritto: quella nella quale facevo rilevare come, con il trionfo di Trump negli Usa (o, più propriamente nell’Usastan) avessero “vinto le scimmie”. Va da sé che una tale espressione altro non era che il metaforico prolungamento d’una analisi che, con molte buone ragioni, vedeva in quel trionfo una molto marcata “involuzione darwiniana” del sistema democratico americano.

Pur rammaricandomi per aver ferito la sensibilità dei miei lettori di fede trumpista (o quella di coloro che, pur non trumpisti, non hanno colto il senso della metafora) non posso che ribadire il concetto. Come altro si potrebbe definire, infatti, l’ascesa al potere, con il voto minoritario delle parti più periferiche ed arretrate del paese, d’un personaggio ampiamente ed inequivocabilmente segnalatosi, prima, durate e dopo la campagna elettorale per la sua ignoranza, per la sua incontrollata cafonaggine (figlia d’un patologico narcisismo) e, quel ch’è peggio, per una demagogia ispirata da tutti i peggiori istinti dell’America bianca? Un editoriale del Washington Post, lo scorso luglio, aveva definito Trump “un pericolo unico per la democrazia americana”. Io concordo in pieno con questa definizione. E proprio – in quel “pericolo unico” sta la natura scimmiesca o, più propriamente, darwinianamente involutiva di “the Donald”. La molto stizzita reazione all’uso della parola “scimmia” m’ha però rammentato un divertentissimo ed assai rivelatore episodio che vale la pena raccontare perché molto ben illustra la personalità davvero (metaforicamente) scimmiesca del neo-presidente usastano. Chi conosce l’inglese può godersi questo video che ben riassume l’intera vicenda.

La storia è questa. Nel 2012 Donald Trump aveva, com’è noto, accarezzato l’idea di presentarsi nelle file repubblicane alle presidenziali. Ed aveva creduto d’incrementare le sue possibilità di successo come portatore d’una definitiva “verità” sulla questione del “vero” luogo di nascita di Obama. In sintesi: riprendendo ed estendendo le tesi del cosiddetto “birtherism, Trump aveva annunciato d’avere inviato investigatori di sua fiducia alle Hawaii (stato nel quale Obama era ufficialmente nato) per dimostrare come il presidente in carica fosse in realtà venuto alla luce in Kenya (per la Costituzione chi non è nato negli Usa non può diventare presidente). Ed aveva aggiunto che quegli investigatori già avevano trovato “cose da non credere”.

Giusto per dovere di cronaca: quelle “cose da non credere” non sono mai venute alla luce e più che lecito è sospettare che pure gli “investigatori inviati alle Hawaii”, anch’essi svaniti nel nulla, non fossero, in realtà, mai esisti. Il che, ovviamente, non ha impedito a Trump di continuare a cavalcare, da riconosciuto “bullshit artist” (vedi, a tal proposito, questo precedente post) la fanfaronesca tigre del “birtherism”, accoppiandola oltretutto con un’altra fanfaronata, in questo caso di sua originale creazione. Ovvero: con il sospetto che anche i titoli di studio di Obama (brillante laureato della Law School di Harvard) fossero falsi. E tanta fu la (ovviamente fanfaronesca) convinzione con cui “the Donald” condusse questa “campagna per la verità”, che promise una ricompensa di 5 milioni di dollari a chiunque gli fornisse informazioni sull’“autentico” record scolastico del presidente in carica.

E questo fu quel che a questo punto accadde: ispirato da questa duplice, meschina ed involontariamente comica campagna di discredito nei confronti di Obama, un eccellente comedian, Bill Maher, conduttore di “Real Time”, lanciò una volontariamente comica contro-campagna, offrendo anch’egli 5 milioni di ricompensa a quanti gli fornissero il “vero” certificato di nascita di Donald Trump. O meglio: la prova che Trump non era, come Bill Maher sospettava, il “love-child”, il figlio illegittimo, nato da una relazione tra una donna bianca ed un orangutan. Si trattava, ovviamente d’una boutade. Anche se va subito aggiunto che le ragioni dei sospetti del comico Maher – essenzialmente basati sul colore della misteriosa materia filamentosa che compone la capigliatura del neo presidente, materia le cui tonalità arancioneggianti sono riscontrabili solo in alcune rare varianti di orangutan del Borneo – apparivano (e a tutti gli effetti erano) molto più consistenti di quelle che Trump andava esponendo (o non esponendo) per diffamare Obama.

Provate a indovinare come reagì Trump. Se la vostra risposta è: “Con una querela nella quale, con tutta serietà e con tanto di firma d’avvocato, presentava il proprio certificato di nascita”, avete vinto un taglio di capelli gratuito nella stessa parrucchieria che cura le chiome del neopresidente. E se indovinate anche il seguito – ovvero il fatto che, copertosi di ridicolo, Trump ha infine ritirato questa querela – di tagli di capelli ne avete vinti due (con tintura inclusa).

Il punto è: il protagonista di questa storia è ora diventato presidente degli Stati Uniti (Usastan). Ditemi voi: se questa non è una involuzione darwiniana (per non dir la fine) del sistema democratico americano, di che cosa si tratta?

 

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