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Sunday, November 16, 2025
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Don vs Elon, botte da orbi mentre muore la democrazia

Botte da orbi. Pesci in faccia. Pugni, calci e bastonate. Insulti, grida ed improperi in serie. Minacce, reciproci dileggi, canzonature e velenosi sarcasmi all’insegna del più classino dei “io di te so cose che ti possono rovinare”. Reiterati annunci di scottanti, imminenti e definitive “rivelazioni”. Picche, ripicche e contro-ripicche in un processo o, meglio, in una zuffa senza quartiere, che – volendo riesumare una formula coniata molti anni fa, nella sinistra ombra del fungo atomico di Hiroshima – si può tranquillamente definire “MAD”. Mad come pazza, ovviamente. Ma, soprattutto, MAD come “Mutual Assured Distruction”, distruzione mutua assicurata.

La notizia è questa: a conclusione di quella che fino a solo qualche giorno fa sembrava esser una travolgente storia d’amore, Elon Musk (l’uomo più ricco del mondo) e Donald Trump (presidente della più poderosa nazione del pianeta) si stanno ora, con metaforica ma furiosa passione, reciprocamente strappando i capelli (trapiantati quelli bruni del primo, di misteriosa origine quelli biondo-arancione del secondo). E non per nulla, nel riportare il “tragico” evento, il Wall Street Journal – storica voce del capitalismo USA e paludata parte del molto reazionario impero mediatico dei Murdoch – ha, due giorni fa, fatto riferimento a “The War of the Roses”, un vecchio e famoso film con Michael Douglas e Kathleen Turner (con Danny De Vito nei panni dell’avvocato narratore) che, per l’appunto, racconta la mutualmente distruttiva storia d’un divorzio (molti certamente ricorderanno la scena finale, con i due protagonisti che, al termine d’un ultima, feroce e spettacolare litigata, precipitano insieme nel vuoto, reciprocamente uccidendosi, aggrappati ad un enorme lampadario di cristallo).

 Come e perché è scoppiata – e come finirà – questa guerra che oggi si presenta, nei toni e nei gesti, come “all’ultimo pelo”?

Tutto è cominciato con un post su “X”

Tutto, narrano le cronache, è cominciato la mattina di mercoledì scorso con un post da Elon Musk lanciato su X (ex Tritter, social da lui acquistato e ribattezzato due anni fa al modico prezzo di 40 miliardi di dollari, tre volte quello che era il valore di mercato dell’impresa). Ovvero: da quel medesimo Musk che, fino a solo a una mezza dozzina di giorni fa, amava definire orgogliosamente se stesso “the first buddy”, il primo amichetto di Donald Trump. Ed il medesimo Musk che, in queste vesti (ed in quelle di geniale replica del schumpeteriano Imprenditore-innovatore-distruttore), mesi fa era, per volontà di Trump, diventato l’onnipotente capo del DOGE, Department of Government Efficiency, una sorta di trumpiana e ribaltata variante del Comité de salut public di giacobina memoria, una inedita ed informale branca governativa che, con poteri tanto pieni quanto illegali, era chiamata – ufficialmente nel nome della riduzione della spesa pubblica, in realtà con ovvii fini di cooptazione politica degli apparati burocratici – a “tagliar teste” a piacimento in tutte le agenzie di Stato.

In quel post Elon Musk senza mezzi termini definiva un “disgustoso abominio” il più onnicomprensivo ed ambizioso dei molti progetti da Trump lanciati – per lo più nella forma di executive orders, decreti presidenziali – in questi suoi frenetici e molto confusi primi quattro mesi e passa di mandato. Ovvero: il mastodontico e “storico” progetto di legge che, già faticosamente approvato dalla House of Representatives ed ora al vaglio del Senato, sotto il nome di Big Beautiful Bill (grande e bella legge, si chiama proprio così, non si tratta di un nomignolo) racchiude in sé, in pratica, l’intero programma di governo, o malgoverno, di questo Trump 2.0.

Perché un abominio? Perché, sostiene in sostanza Musk, il BBB contraddice e vanifica, tradendo le ragioni per le quali Trump è stato votato, quello che era (ed ancora è, considerato che il DOGE continua ad esistere anche senza il suo originale Robespierre) l’obiettivo strategico del DOGE: ridurre drasticamente il debito pubblico. Ogni repubblicano che si rispetti, sottolineava Musk in quella che appariva (e di fatto era) una dichiarazione di guerra, dovrebbe votare contro quella legge infilzandola come San Giorgio fece con drago.

Solo due giorni prima, nell’un tempo solenne corniche dell’Oval Office, ora da Trump pacchianamente ridecorato a sua immagine e somiglianza, s’era consumata quella che nelle intenzioni doveva essere – e momentaneamente fu – una molto amichevole cerimonia di fisica ma non spirituale separazione. Più esattamente la cerimonia d’addio al DOGE di Elon Musk. Mission accomplished, missione compiuta (o quantomeno molto ben avviata, anche se le vere cifre dell’impresa raccontano l’esatto contrario), era l’ipotetico titolo dell’evento. Esaudita la nobile incombenza  da lui patriotticamente assunta per volere del sovrano – quella, per l’appunto, di ridurre la spesa pubblica tagliando sprechi, frodi e malversazioni varie negli apparati di Stato – Elon Musk umilmente tornava, come il ben noto Lucio Quinzio Cincinnato, ad arare il suo troppo a lungo trascurato campicello da 600 miliardi di dollari, alle sue auto elettriche, alle sue comunicazioni satellitari, alle sue ambizioni spaziali (colonizzazione del pianeta Marte in prima fila) e alle sue molte altre tecnologiche meraviglie. Il tutto nel quadro d’un toccante commiato, suggellato dai ringraziamenti del sovrano e dalla consegna d’una grande chiave dorata, il cui significato appariva evidente: questa (la White House) è casa tua, Elon. Torna quando vuoi, sei il benvenuto.

Narcisi contro

Scene, parole e gesti a prima vista colme di gratitudine e d’amore. Anche se, con il senno di poi, facile è oggi osservare come già allora, in realtà, si potessero scorgere, nella cupa espressione del volto e, soprattutto, nello sguardo di Elon, i segnali della tempesta in arrivo. Che cosa ci dicevano, già quel giorno, gli occhi (il sinistro soprattutto, in involontaria allegoria incupito da un livido nero) dell’uomo più ricco del pianeta? Più o meno questo: quasi trecento milioni di contributi elettorali – 500 se si calcolano le campagne porta a porta e le riffe da un milione a colpo per sollecitare la registrazione di potenziali votanti per Trump in tutti gli Stati “in bilico” – con, in aggiunta, quattro mesi di lavoro che m’hanno, a livello planetario, guadagnato la ripulsa d’una significativa fetta dei di norma molto ambientalisti clienti della mia auto elettrica. E che cosa ho ottenuto in cambio? Una pacca sulle spalle ed una chiave dorata il cui molto peloso valore simbolico equivale a uno sberleffo. Thanks, Donald. Thanks for nothing.

Occorre ammetterlo: avevano ragione quanti, fin dall’inizio del romanzo, avevano pronosticato un’inevitabile e catastrofica rottura tra due personalità marcate da un narcisistico e debordante – debordante, spesso, oltre il ridicolo – culto di sé stessi. Lo scoppio delle ostilità, avevano profetizzate non poche Cassandre nei momenti di più tenera e splendida fioritura di quest’apparente storia d’amore, era solo questione di tempo. Ed il tempo è arrivato appena due giorni dopo la cerimonia che, con molto palpabile ipocrisia, aveva “amichevolmente” messo Elon alla porta. Una porta della quale Trump gli aveva, con beffarda gratitudine, regalato la più fasulla delle chiavi dorate.

Da allora è stato tutto un frenetico volar di stracci. Per Donald Trump Elon Musk era semplicemente impazzito – “he just went crazy” – dopo che il suo governo aveva, come inevitabile e giusto, deciso di togliere i sussidi federali che, stando a Trump (lo stesso Trump che solo un mese fa s’era esibito in un grottesco spot pubblicitario pro-Tesla di fronte alla Casa Bianca), “obbligavano la gente a comprare veicoli elettrici che nessuno voleva”. Per Elon Musk, Donald Trump era, per contro, non solo una insignificante ed ingrata nullità che aveva vinto le elezioni grazie esclusivamente ai suoi generosi contributi in danaro, ma anche un doppio ed alquanto sordido traditore. Doppio perché con il suo “abominevole” Big Beautiful Bill, vanificava il suo lavoro di risanamento dei conti pubblici via DOGE (statisticamente una gran balla) e perché, al tempo stesso, per personale interesse e per incompetenza, metteva a repentaglio la salute economica dell’intero paese, dal suo BBB avviato verso una devastante esplosione del debito pubblico.

Trump? Per saper chi è date un’occhiata agli “Epstein nfiles”

Falso, ingrato, incompetente ed anche qualcosa di molto peggio. Volete sapere chi è il vero Donald J.Trump?, retoricamente si è domandato Musk in uno dei suoi ultimi post, poi cancellato. Chiedetelo al Dipartimento alla Giustizia, oggi nelle mani di Pam Bondi, collaudata e sfacciata pasdaran trumpista. E, chiedendolo, reclamate anche l’immediata “declassificazione”, come dalla Bondi originalmente promesso, degli “Epstein files”. Vale a dire: dei documenti relativi alla turpe vicenda di Jeffrey Epstein, l’ultramilionario newyorkese (molto opportunamente morto suicida in carcere sei anni fa) che aveva a suo tempo organizzato un circolo di prostituzione minorile frequentato da VIP e politici d’ogni tendenza. Trump ovviamente compreso, come testimoniato da dozzine di foto e da una sua vecchia (2002) dichiarazione d’amicizia. “Ho conosciuto e frequentato Jeffrey per 15 anni – aveva detto Trump in una intervista con il New York Magazine – Fantastico tipo. Ama le donne come le amo io. Soprattutto le più giovani”.

Una rapida escalation di accuse ed insinuazioni, quella di Elon Musk, conclusa, al momento, da un inequivocabile appello: “Impeach Trump”.. Appello al quale, dall’opposta sponda, ha immediatamente fatto eco – “Deport Musk”, deportate Musk, perché a suo tempo clandestinamente entrato negli USA – quello lanciato da Steve Bannon, da tempo per molte ragioni ai margini, ma ancor oggi tra i più apprezzati e qualificati cantori del trumpismo.

Questo si van dicendo Elon Musk e Donald Trump. E va da sé che – Epstein o non Epstein, impeachment o non impeachment – una sola ed inequivocabile verità emerge con involontaria, ma solare evidenza: la natura intimamente corrotta, predatoria della relazione tra i due litiganti. O, ancor più esattamente – ed al di là dei personaggi che questa natura incarnano – il senso ultimo dell’alleanza tra un movimento autoritario-oscurantista (quello della MAGA-America, alimentato dal culto di Trump e dal confluire di tutte le tendenze razziste, xenofobe e cristiano-fondamentaliste che, come una sorta di permanente controcanto, per un quarto di millennio hanno accompagnato l‘intera storia della democrazia americana) e le ambizioni egemoniche di un tecno-capitalismo, o “tecno-feudalesimo” come qualcuno lo chiama, che ormai considera la democrazia un orpello del passato, un ostacolo da rimuovere.

Ha scritto Donald Trump in uno dei suoi post in risposta a Musk: “Una delle più facili vie per ridurre di miliardi e miliardi la spesa pubblica (come Musk reclama n.d.r.) è quello di cancellare tutti i sussidi e gli appalti che il governo concede a Elon Musk. Mi sorprende che Joe Biden non l’abbia fatto”. Poche parole – in realtà una vera e propria confessione – con le quali, in un dialogo tra “complici-divenuti-rivali” e con molto mafioso candore, l’attuale presidente Usa ci rivela due cose. La prima: che lui ha a suo tempo ed in pompa magna affidato il compito di risanamento, via DOGE, del debito pubblico ad un personaggio che di quel debito sapeva essere, in virtù dei sussidi e delle clientelari prebende statali di cui gode, il massimo responsabile. La seconda: che, dovesse Musk insistere nei suoi attacchi contro la sua presidenza e contro il suo BBB, lui ha la possibilità e la volontà di usare i suoi poteri per cancellare tutti quei sussidi e tutte quelle prebende. Gran belle aziende Tesla, Space X e Starlink. Sarebbe davvero un peccato dovessero andare in fallimento….

Una nuova “età dell’oro” per la corruzione

Corruzione pura. Scene, parole e musica da Basso Impero. Corruzione ostentata come prova d’un potere illimitato. Di questo è fatta, nella sua più intima sostanza, la rissa Musk-Trump. E di questo è fatta anche, con diverse sfumature, ma in ogni suo risvolto, tutta la presidenza di Donald Trump. Corruzione, incompetenza, ignoranza e crudeltà. Decadenza politica e morale spacciata per rinascita (“Make America Great Again”). Stagnazione economica venduta come runa nuova “età dell’oro”. Uso del potere come fonte di personale e familiare arricchimento, come clamorosamente testimoniano, in un contesto da Repubblica delle Banane, il lancio e la pubblica promozione di criptomonete o, ancor più, i perdoni presidenziali emanati per simpatie politiche (primi beneficiari tutti i protagonisti dell’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021) o, peggio, venduti per danaro, come le antiche indulgenze papali che, illo tempore, portarono alla rivolta di Lutero. Guerra dichiarata – come testimonia il permanente attacco a tutte le più prestigiose università del Paese – al sapere ed alla conoscenza. E – sullo sfondo d’una campagna di deportazioni che, carica d’odio razziale, scarta come vecchio ciarpame non solo il sacro diritto al “giusto processo”, ma anche ogni residuo d’umana decenza – si configura come una permanente sfida alla sostanza ed alla lettera della Costituzione. E, infine, una mega legge supergalattica – il BBB, per l’appunto – il cui ciclopico contenuto è di recente stato efficacemente riassunto dal premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, in questa semplicissima e chiarissima formula: Si tratta, ha scritto Krugman, del più colossale trasferimento di ricchezza, dai più poveri in direzione dei più ricchi, della storia degli Stati Uniti. Il tutto – e qui Musk ha indubbiamente, almeno da un punto di vista aritmetico, tutte le ragioni del mondo – al prezzo di un esplosivo aumento del debito pubblico calcolato in quasi (o almeno, secondo altri calcoli) 3mila miliardi di dollari.

Orientarsi nel labirinto degli “executive orders” quotidianamente firmati dal presidente in carica può sembrare cosa ardua. Ed anco più impenetrabile ed oscura appare oggi la selva delle dispute legali – quasi duecento, secondo i calcoli più recenti – provocate dalla disfida di cui sopra. Ma un filo conduttore, un minimo comun denominatore chiarissimamente emerge dalle brume da quella che a prima appare come pura e caotica improvvisazione.E si tratta di una costante ed incondizionata pretesa di poteri assoluti.

Vedi la vicenda – a prima vista incomprensibile – dei dazi doganali. O, volendo ancora una volta attingere dagli editoriali del Wall Street Journal, i reali termini della “più stupida guerra commerciale della storia dell’umanità”. Una storia – come il mondo quotidianamente apprende –  di tariffe imposte un giorno ed abolite, innalzate o ridotte il giorno dopo, nella prospettiva di negoziati che dovrebbero “rimettere finalmente le cose a posto” in un contesto internazionale – si tratti di Europa, Asia, Africa o di un isoletta popolata solo da pinguini entrata con tutti gli onori nella lista dei cattivi da Trump esposta lo scorso 12 aprile, in quello che ha dichiarato “Liberation Day” – unanimemente proteso a frodare gli Stati Uniti d’America. Negoziati che, in realtà, non cominciano mai o, se cominciano, subito s’interrompono, perché, nel frattempo, completamente cambiato è, per scelta di Trump, il quadro tariffario. E questo per una semplicissima ragione: perché, con tutta evidenza, il vero obiettivo di Trump non è riequilibrare rapporti commerciali che, nella maggioranza dei casi ,già sono equilibratissimi (o, addirittura, avvantaggiano gli Usa), ma affermare il suo incondizionato potere di “decidere i prezzi”.

Adam Smith si rivolta nella tomba

Inutile infatti è, testi alla mano, cercare, nei comportamenti di Trump, qualche riconoscibile logica economica, tracce d’una teoria o d’una strategia . Quello che lui propugna, in uno sgangherato ritorno al più vieto mercantilismo – di questi tempi il povero Adam Smith si sta di certo rivoltando nella sua tomba di Canongate Kirkyard, nei pressi di Edimburgo – è, un’America concepita come “a store”, un magazzino, una bottega. “America is a store and I am the owner. I’m the one who decides the prices”. L’America è un negozio – ha detto Trump in una recente intervista – Io ne sono il proprietario e io sono quello che decide i prezzi”.

Il risultato? Una situazione di perenne incertezza alla quale i mercati hanno, tra alti e bassi, cercato di adattarsi, seguendo i dettami di quella che oggi va sotto il nome – brillante invenzione d’un giornalista del Financial Times, subito diffusasi a macchia d’olio – di “TACO Trade”. TACO come “Trump Always Chickens Out”. Trump, alla fine, sempre se la fa sotto. Come, per l’appunto, un chicken, un pollo, universale simbolo di pusillanimità. Oggi Trump dichiara dazi al 100% per questo o quell’altro prodotto di questa o quell’altra Nazione? Reagite come se una settimana dopo – anche meno, se qualcuno fa la voce abbastanza grossa – quei dazi siano destinati a tornare ai precedenti livelli…

C’è, in tutto questo, indubbiamente, una sorta di poetica giustizia. Entrato a petto in fuori, come un’aquila (ovviamente reale) in una contesa che, contro ogni buon senso economico, lui stesso ha creato, Donald Trump ne sta ora uscendo come un pollo. Cosa che lo ha fatto imbestialire quando, giorni fa, una giornalista glielo ha fatto notare nel corso d’una tumultuosa conferenza stampa.  E – si fosse mai preso la briga di leggere il più celebre dei romanzi di Lewis Carrol – ancor più si sarebbe inquietato, il 47esimo presidenti degli Stati Uniti d’America, quando da molti è stato paragonato, nelle sue performance doganali, alla regina di cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie. Con le sue tariffe equiparate ai perentori ordini di decapitazione – “Off with their heads!”- con i quali the Qeen of Hearts replicava ad ogni minima, involontaria provocazione. Salvo poi esser smentita dall’immediato perdono del Re di Cuori. Con Trump che, nella realtà di questa “guerra commerciale più stupida della Storia” va da par suo recitando entrambe le parti.

“War of the Rose” o la “Hostaria di Ettore Scola?

Tomando alla baruffa tra Musk e Trump. Come andrà a finire la vicenda? Davvero i due divorziandi verranno inghiottiti  dal MAD, trascinati nel vortice d’una reciproca distruzione, come nel caso della “Guerra dei Rose”, rievocata dagli editorialisti del Wall Street Journal? Tutto è possibile. E non pochi, tra i più propensi all’ottimismo, sembrano convinti che la presidenza Trump sia in effetti destinata ad implodere sotto il peso della propria arrogante ed incompetente sfida alla democrazia ed alla più elementare decenza..Personalmente, tuttavia, questo tumultuoso divorzio tra l’uomo più ricco e l’uomo più potente del pianeta, mi ha ricordato non la “Guerra dei Rose”, ma un classico della commedia all’italiana. Più esattamente: un episodio de “I nuovi mostri”, uscito nel 1977, come un doveroso omaggio “plurimo” all’ancor più celebre originale. “I mostri”, per l’appunto, diretto da Dino Risi nel 1963.

Intitolato “Hostaria” (e diretto da Ettore Scola), quell’episodio narrava d’un gruppo di benestanti intellettuali romani – gente chic – che si reca in una molto grezza osteria di borgata – “il servizio lascia molto a desiderare, ma i sapori sono la fine del mondo” – alla ricerca di cibi “come si facevano una volta”. Accade che, ordinata una delle specialità della casa, nella cucina di detta osteria scoppia una violenta ed esilarante rissa, in questo caso letteralmente “a pesci in faccia”, tra il cameriere (un molto trasandato Vittorio Gassman) ed il cuoco (un ancor più trasandato Ugo Tognazzi). E mentre i commensali estasiati ascoltano il frastuono che giunge dalla cucina – “stanno preparando la battuta. La fanno ancora come la faceva la mia mamma” – nel pentolone destinato alla preparazione della suddetta specialità della casa entra di tutto e di più.

 La storia finisce con il cameriere ed il cuoco – che risultano essere una coppia omosessuale – ultimato lo scontro e dopo un ultimo e sempre più tenue scambio di contumelie (“la verità è che tu non mi vuoi bene”, “No, sei tu che non mi vuoi bene”. “Dammi un bacetto, dai”) si riconciliano giusto prima di servire l’impresentabile intruglio preparato mentre se le davano di santa ragione. Intruglio che viene comunque entusiasticamente accolto in sala come un capolavoro di genuina e popolaresca sapienza culinaria. “E questo cos’è?” si chiede, giusto prima che cali il sipario, uno dei convitati, estraendo dalla zuppa quel che resta del mozzicone di un sigaro toscano. “Segreto del chef” le risponde ammiccando ed avidamente trangugiando l’intruglio, il suo compagno di tavola…

Una democrazia in stato pre-comatoso

E chissà che proprio così, con una classica riconciliazione tra amanti, non finisca, a dispetto delle previsioni, anche il tafferuglio in corso tra Elon e Donald. Non pochi analisti politici sembrano ritenerlo possibile. A dispetto delle immense risorse finanziarie di Musk, è Trump, secondo questi analisti, ad avere oggi il coltello per il manico. Perché – come già rivelano i primi sondaggi – il popolo MAGA è con lui. E perché è lui che ha in mano le chiavi del Partito Repubblicano e del governo (pochissimi credono che Musk possa davvero, come implicitamente ha in queste ore minacciato di fare, creare un nuovo partito). Il che fa pensare che, dopo un opportuno lavoro di mediazione, possa essere Elon a fare un passo indietro (il post su Epstein già l’ha cancellato) e chiedere a Trump il “bacetto” di riappacificazione.

Si vedrà. Il problema vero, comunque finisca la relazione tra i due, resta tuttavia, come nel segmento di film diretto da Scola, non quello dei rapporti tra Trump e Musk, ma quello dell’intruglio (il vero “abominio” per riprendere le parole di Elon), che entrambi, in amorosa armonia o da implacabili litiganti, vanno servendo ad un’America che, allo stato delle cose, sembra più che disposta a scambiare per un “segreto del chef” quel che in realtà è un mozzicone di sigaro. Fuor di metafora: il vero problema è che la faida tra Donald Trump ed io suo ex autoproclamato “primo amichetto”, non è, a conti fatti, che l’episodio di una epocale tragedia, il riflesso dell’agonia del sistema democratico americano, dello stato precomatoso nel quale, con inevitabili ripercussioni a livello planetario, si dibatte la “più antica democrazia del mondo”.

Nel romanzo di Carroll, Alice alla fine scopre il trucco e, stanca delle minacce della regina di cuori, infine le grida in faccia la verità: “Non siete altro che un mazzo carte”. Succederà lo stesso – cambiando il “mazzo di carte” con “due imbroglioni” – a suggelloella colluttazione in corso tra il più ricco e il più potente uomo della Terra? I segnali in questo senso molto pochi e molto tenui. Ma sperarlo non costa niente.

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