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Comincia la Convention repubblicana. Senza i repubblicani

Come il partito di George W. Bush cerca di nascondere se stesso (e otto anni di fallimenti) sotto una montagna di patriottismo di grana grossa – Dita incrociate in attesa dell’intervento di Sarah Palin, la “ventata d’aria fresca” che doveva, in teoria, rivitalizzare la campagna di John McCain

2agosto 2008

di Massimo Cavallini

 

Dopo la trasfigurazione di Hillary Clinton – da figlia di Satana a beata martire da venerare e vendicare nel nome dell’emancipazione della donna – il partito repubblicano sembra aver compiuto un altro e forse ancor più strabiliante miracolo: quello di far sparire se stesso dalla propria convenzione. Un miracolo anche gli infedeli (gli infedeli soprattutto, per molti versi) riescono a vedere, anzi, a non vedere, pressoché all’istante. Se si esclude, infatti, un fuggevole accenno sulle pareti esterne del Xel Energy Center – quel “welcome to the 2008 republican National Convention, September 1-4”, che, perduto all’interno di un grande cuore a stelle e strisce, saluta gli ospiti all’ingresso – la presenza dell’aggettivo “repubblicano” è, in questo grande consesso di repubblicani, praticamente invisibile. Non c‘è, non esiste. E quando – per ovvie ragioni di protocollo – non può non esistere, cerca di farsi vedere il meno possibile, come un alunno impreparato quando, in aula, sente approssimarsi l’ora dell’interrogazione. Lo slogan è, ovunque, “Country first”. La Patria al primo posto. Primo e, evidentemente, anche unico, visto che – volendo usare una metafora olimpica – il podio della grande arena non prevede né secondi, né terzi posti. Oro alla Patria, argento alla Patria, bronzo alla Patria. Quello che si è riunito nelle “twin-cities” (St.Paul e Minneapolis) del Minnesota è, a tutti gli effetti, il partito della Patria. E poiché la Patria non ha, notoriamente, partito, quel partito non ha nome…

Complicato? Non tanto. Il senso del miracolo, infatti, è tutto qui. I repubblicani d’America hanno sempre, come si dice, “wrapped themselves in the flag”, avvolto se stessi nella bandiera. Ovvero: hanno sempre – come, del resto, la destra d’ogni latitudine – brandito con grande ed orgogliosa forza l’arma del patriottismo, (anche quando, vedi il caso di George W. Bush, hanno regolarmente lasciato che, a difendere la patria sul campo, ci andassero altri). Ed hanno sempre – e con grande naturalezza – considerato se stessi, per l’appunto, il “partito della Patria” (anche perché, con grande naturalezza, hanno sempre identificato gli interessi della Patria con quelli dei gruppi di potere economico che il partito rappresenta). Insomma: i repubblicani hanno sempre, a modo loro, messo “la Patria al primo posto”. Questa volta, tuttavia, è diverso. Questa volta, lo slogan “Country first” serve, non a esaltare il patriottismo del partito, ma, più semplicemente, a nascondere il partito, a dissimularne la presenza. Nel Xel Enery Center, il partito repubblicano s’è come dissolto nel calor bianco dell’amor patrio che pervade la platea. E, quel che più conta, con lui è svanita anche la forza responsabile degli ultimi otto anni di politica governativa. C’era fino al momento di convocare la Convention (la sua Convention) e adesso non c’è più. È miracolosamente scomparso – come le evangeliche piaghe del lebbroso – lasciando al suo posto soltanto la perfetta, inalterata pigmentazione (bianca in larghissima maggioranza) d’un consesso di patrioti allo stato puro, riunitisi per puro spirito di servizio, e dimentichi d’ogni politica affiliazione, intorno alla nobile figura d’un eroe.

Questa seconda giornata della Convenzione – di fatto la prima, vista la sospensione dei lavori di lunedì – era specificamente dedicata all’illustrazione delle virtù del candidato (repubblicano, ma questo nessuno lo ha ricordato). Ed al suo centro ha avuto il racconto degli anni della prigionia in Vietnam affidata alla voce profonda dell’ex senatore del Tennessee (ed ex candidato alla presidenza) Fred Thompson, attore di non grande talento, ma riconosciuto maestro di retoriche celebrazioni. Sua, nella convention che i repubblicani tennero a New York nel 2004, a due passi dal “ground zero”, era stata la voce che, nel filmino di presentazione del candidato, esaltava l’eroismo con cui George W. Bush, nei giorni successivi all’attacco alle Torri Gemelle, s’era fatto fotografare con i volontari che lavoravano tra le macerie . E significativo è oggi osservare come, quattro anni dopo, a quella stessa voce, colloquiale e, al tempo stesso, solenne, sia stato affidato il compito di coprire o, quantomeno, di far dimenticare, le parole del presidente che, nel novembre 2004, aveva contribuito a far eleggere.

George W. Bush aveva infatti parlato (inevitabilmente parlato, è il caso di dire) appena prima di Thompson, via satellite, dalla Casa Bianca, dove lo aveva trattenuto – questa la versione ufficiale – la necessità di coordinare gli aiuti alle popolazioni colpite dall’uragano Gustav. Ed il suo breve discorso aveva avuto tutta l’aria d’un intermezzo sgradito, ma necessario. Persino sua moglie Laura, nel presentare ufficialmente l’oratore (“the man I love”), era parsa, decantandone le virtù, come camminare su un campo minato. Un esame esageratamente lungo (ed esageratamente laudatorio) del programma scolastico “No Child Left Behind” . Appena un rapidissimo accenno, quasi una parentesi (“Ha dato la libertà 50 milioni di iracheni”) alla guerra in Iraq. Silenzio assoluto sulla gestione dell’economia. E persino Bush ha poi, con molta cura, evitato di parlare di se stesso, limitandosi ad esaltare le grandi qualità, il “carattere”, di John McCain, un eroe che a suo tempo seppe tenere a bada i suoi torturatori vietnamiti e che oggi – ha detto il presidente in carica – è l’uomo ideale, non solo per mettere la Patria al primo posto, ma per tenere a bada, sul fronte interno, “the angry left”, la sinistra rabbiosa. Che Dio, dunque, benedica John McCain e benedica l’America (se possibile aiutandola – questo pareva essere il senso ultimo del congedo presidenziale – a dimenticarsi della mia esistenza il prossimo 4 di novembre).

Dopo Thompson era toccato al senatore transfuga democratico Joe Liebermann – già compagno di corsa di Al Gore nel 2000 – chiudere la giornata esaltando lo spirito indipendente, “superpartitico e transpartitico”, costantemente teso a “cambiare Washington”, con cui John McCain ha patriotticamente operato in un arco di tre decenni a Capitol Hill. Per lui – e non sorprendentemente – solo tiepidi applausi. E non per caso. Gli atti “transpartitici” e “patriottici” con cui, a detta di Lieberman, McCain ha cercato di scuotere l’establishment politico e lo “status quo” (emigrazione, riforma finanziaria) sono, in effetti, tra i più detestati dalla (oggi invisibile, ma più che presente) base repubblicana. E sono stati tutti – con pochissime eccezioni – rinnegati dal candidato McCain nel corso delle primarie. Sicché – del tutto involontariamente, ma molto chiaramente – quella che Lierberman andava descrivendo non era l’immagine di un eroe di guerra e di pace, ma quella di un opportunista.

Oggi (ieri, quando questo articolo verrà letto) la Convention entrerà nel vivo. E, nel vivo, ascolterà Sarah Palin, la donna che McCain ha sorprendentemente scelto come sua “running mate”. Lasciando cadere il suo dito indice su Sarah – che le cronache sempre più chiaramente rivelano esser stata selezionata d’impulso, senza grandi meditazioni, né controlli – John McCain ha chiaramente (o, confusamente, come non pochi sostengono) cercato di catturare almeno quattro piccioni con una sola fava. Il piccione delle donne – ansiose di vendicare la beata Hillary –, quello della destra cristiana (Sarah Palin è una “born again christian”, ovvero segue la più rigida ortodossia evangelica), quello dei giovani ribelli ( la Palin ha appena 44 anni ed è diventata governatrice dell’Alaska nel 2006 sfidando, almeno a prima vista, l’establishment del suo stesso partito); e, infine, last but not leat, quello dei media, fino a ieri calamitati dalla magnetica personalità di Barack Obama. I fatti potrebbero presto rivelare come – da proverbio, a proverbio – il senatore dell’Arizona abbia, in realtà, preso soltanto un classico granchio. Nel giro di poche ore, Sarah Palin è diventata una sorta di vaso di Pandora. Ogni giorno una rivelazione, ogni giorno un nuovo e sconosciuto dettaglio. Piccoli scheletri nell’armadio, piccole verità che, tuttavia, alterano non poco la sua immagine di “riformatrice senza macchia e senza paura”. Esaltando, al contrario, ai limiti del ridicolo, la sua assoluta impreparazione per l’incarico. Minuzie – piccole ed innocenti vicende private sintetizzate dalla rivelazione della gravidanza fuori dal matrimonio della figlia 17enne Bristol – che, anche quando suscitano comprensione e simpatia, mettono comunque in impietosa luce, un vero e grande peccato. Forse un peccato mortale per la corsa repubblicana: la deprecabile e strumentale improvvisazione (l’ “azzardo” come eufemisticamente lo definiscono gli analisti politici, o l’”Impulsività”, come l’ha ieri chiamata Obama) con cui John McCain – un candidato che ha aveva fatto dell’’ “esperienza” la più visibile bandiera della sua campagna – ha proceduto nella sua scelta. Il ritornello con cui gli uomini dello staff del candidato repubblicano vanno in queste ore replicando a chi chiede loro quali siano le credenziali di politica internazionale della Palin – “ha diretto per 20 mesi la Guardia Nazionale dell’Alaska” – è ormai diventato una sorta di barzelletta che i giornalisti vanno ripetendosi l’un l’altro. Ed il parallelo con Dan Quayle (il vicepresidente di George Bush il Vecchio, a suo tempo divenuto una sorta di zimbello dei media) va pericolosamente gravando sui lavori della Convention.

Curioso destino, quello di John McCain. Fino a ieri era un non-candidato, una sorta di ombra da tutti ignorata ai margini della campagna di Obama-superstar. Ed in questo strano stato d’anonimato era riuscito a rendere incertissima una corsa che, sulla carta, lo vedeva facile perdente. Ora, con la scelta di Sarah Palin ha infine richiamato su di sé (e, ovviamente, sulla Palin) un’attenzione che rischia di schiacciarlo. Forse dovrebbe, di nuovo, svanire nel nulla, sparire così come il partito repubblicano è sparito dalla Convention di St.Paul. Un nuovo miracolo. Il terzo. Uno di troppo, forse, anche per quello che si considera il partito, non solo della Patria, ma di Gesù Cristo.

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