A quasi tre decenni dall’omicidio dell’arcivescovo di San Salvador, sono gli uomini del partito fondato dai suoi assassini a governare il paese – Proposta la nomina a “Hijo merítisimo del Salvador” per Roberto d’Aubisson – Storia d’un prete “moderato” che le circostanze costrinsero a schierarsi
di Massimo Cavallini
19 febbraio 2006
È accaduto nella notte tra il 19 ed il 20 dello scorso febbraio. E forse vale la pena di partire proprio da qui, dal brutale assassinio di tre deputati del partito che governa il Salvador, per cercare di capire – oggi a 27 anni dalla sua morte violenta – che cosa davvero continui a rappresentare, in America Latina e nel mondo, il ricordo di monsignor Oscar Arnulfo Romero. Quella notte – rammentano cronache recentissime – una molto ben vigilata colonna d’auto con a bordo una ventina di deputati salvadoregni, viaggiava lungo la carretera panamericana in direzione di Città del Guatemala, dove la mattina seguente si sarebbe aperta una sessione del Parlacen (il parlamento centroamericano). Ma quando il convoglio arrivò infine a destinazione subito apparve chiaro come uno dei veicoli mancasse all’appello. Fu un mistero di breve durata. Poco prima dell’alba, infatti, non lontano dal villaggio di Pacotillo, a 36 chilometri della capitale, riapparvero i corpi bruciati di quattro persone. E le circostanze del ritrovamento erano tali da non lasciare dubbio alcuno: quegli irriconoscibili cadaveri carbonizzati – tutti uccisi a colpi d’arma da fuoco prima del rogo – appartenevano a Eduardo d’Aubisson, José Ramón González, William Pichinte e José Ramírez, i primi tre deputati del partito ARENA ed il terzo membro, con funzioni di autista, del corpo speciale (il DPPI, Departamento de Protección de Personajes Importantes) che, per i servizi d’intelligenza salvadoregni, s’occupa dei servizi di scorta.
Immediata (ma, come vedremo, del tutto sbagliata) fu l’ipotesi d’una vedetta politica. Ed altrettanto immediato fu legare quella vendetta al nome di Oscar Arnulfo Romero. Eduardo d’Aubisson – sottolinearono all’istante tutti i reportage del delitto – era figlio di quel colonnello Roberto d’Aubisson che, morto di cancro nel febbraio del ’92, negli anni ’70 ed ’80 fu il riconosciuto capo degli squadroni della morte salvadoregni (gli stessi che uccisero Romero), nonché il fondatore del partito ARENA (Alianza repubblicana Nacionalista). E proprio ad ARENA appartenevano tutti e tre i deputati. Un dettaglio – un macabro dettaglio – contribuiva inoltre a suffragare quella pista. Solo pochi giorni prima, Antonio Saca, presidente del Salvador ed anche lui membro del partito ARENA, aveva lanciato – presumibilmente in non casuale prossimità dell’anniversario dell’omicidio del monsignore – la proposta di nominare Roberto d’Aubisson “figlio emerito della nazione”. Il che – elementare, Watson – d’acchito “illuminava”, a detta di molti, la vera motivazione ed il vero “messaggio” del delitto. Le residuali componenti armate del FLMN (che negli anni ella guerra civile fu l’organizzazione “ombrello” della guerriglia di sinistra, e che è oggi il secondo partito del paese) avevano preparato l’attentato per rispondere a quello che ritenevano un insulto alla memoria di Romero e di migliaia di altre vittime di quell’immacolato eroe patrio.
Le cose non erano andate così. Grazie all’apparato di Gps (Global positioning system) installato a bordo della vettura, la polizia guatemalteca fu in grado di ricostruire in brevissimo tempo la tragica (e per le autorità guatemalteche assai penosa) sequenza dei fatti. L’auto delle quattro vittime era stata, in realtà, intercettata da un gruppo dei servizi di sicurezza nazionali, presumibilmente al soldo d’una gang del narcotraffico. O forse erano stati gli stessi deputati di ARENA ad uscire dal convoglio per recarsi spontaneamente a quello che pensavano essere un “incontro d’affari”. Perché, a quanto pare, i mandanti del delitto erano convinti che quell’auto portasse un prezioso carico di droga o di danaro. E proprio questo era stato l’ordine che avevano impartito: uccidere i viaggiatori, sequestrare il carico e far scomparire ogni prova del delitto. Obiettivo, quest’ultimo, che, in effetti, hanno poi raggiunto. Perché, appena poche ore dopo il loro arresto, tutti e cinque gli assassini sono stati, a loro volta, assassinati in carcere…
Questa è la storia. E due, almeno, sono i buoni motivi per raccontarla oggi, a quasi tre decenni dall’omicidio di monsignor Romero. Il primo, piuttosto ovvio, sta nei nomi e negli eventi che, per l’appunto, avevano in un primo tempo fatto pensare ad una “vendetta”. Ed il secondo motivo, forse ancor più visibile, ma molto meno ovvio, sta in una semplicissima verità: Oscar Arnulfo Romero continua certo – come vuole uno slogan mille volte ripetuto – a vivere “nella memoria del suo popolo”. Ma ben vivi sono anche i suoi assassini. E, democraticamente eletti da quello stesso popolo, stanno ancor oggi, non solo governando il paese, ma rivendicando il proprio passato. Come ben testimonia la richiesta d’accogliere Roberto d’Aubisson nel virtuale Pantheon de “Los hijos meritísimos de El Salvador”. Tempo fa, nell’illustrare le ragioni per le quali Oscar Arnulfo Romero dovrebbe esser fatto santo, il gesuita Jon Sobrino – proprio lui, il teologo che giorni fa è incorso nella censura della Congregazione per la Dottrina della Fede – aveva sottolineato (riprendendo le parole che lo stesso Romero pronunciò in un’omelia pochi giorni prima dell’omicidio) come il “vero miracolo” del monsignore ucciso (poiché di provati miracoli notoriamente necessita ogni processo di beatificazione) fosse quello di “resuscitare ogni giorno nel popolo del Salvador”. Verissimo. Ma vero è anche che, per resuscitare, occorre morire. Ed Oscar Arnulfo Romero continua, ancor oggi, a morire ogni giorno…
Perché, dunque, venne assassinato monseñor Romero? E da chi? La più breve delle possibili risposte alla prima domanda si riassume in una sola parola: odio. E – sebbene nessuno sia mai stato finora penalmente condannato in un’aula di tribunale – nessun dubbio sostanziale esiste in merito agli autori materiali ed ai mandanti del delitto. Romero venne ucciso la mattina di lunedì, 24 marzo 1980, mentre celebrava messa nella cappella dell’ospedale della Divina Providencia, nella colonia Miramonte di San Salvador. E ad ammazzarlo fu una sola pallottola diretta al cuore, molto professionalmente sparata, con un fucile a cannocchiale, da un’auto parcheggiata nella viuzza adiacente. Alla guida di quell’auto c’era un ex membro della Guardia Nacional, Amado Antonio Garay, divenuto autista personale del capitano della forza aerea Àlvaro Saravia Merino. Secondo Garay, l’unico che abbia fin qui confessato (sia pur solo nel 1987), fu proprio Saravia che gli ordinò di portare fino alla Divina Providencia un uomo che mai aveva visto prima. E fu quell’uomo che gli ordinò di fermarsi nel viottolo intimandogli di aprire il cofano simulando un guasto. Garay non udì, mentre era piegato sul motore, che uno sparo e le grida che provenivano dalla cappella. Poi gli fu ordinato di risalire in macchina e ripartire.
Saravia fu arrestato negli Usa subito dopo la confessione di Garay, ma non venne mai raggiunto da alcun ordine di estradizione. E ciò grazie alla doppia battaglia legale intrapresa a suo favore da ARENA, pronta, per fare pressione sulle autorità statunitensi, ad ingaggiare i servizi d’un principe del foro di Miami, l’avvocato Neal Sonnett, e, contemporaneamente, ad usare, dentro il Salvador, tutto il suo peso politico (e militare) per costringere all’immobilità la Corte Suprema. Risultato: agli inizi dell’89, Saravia tornò libero. E tale resta tuttora, probabilmente più spaventato dalla possibilità d’essere ucciso dai suoi vecchi amici, sempre bisognosi del suo silenzio, che d’essere arrestato da giudici in cerca di giustizia. “Las pulgas se le pegan a los perros más flacos”, le pulci si attaccano ai cani più magri, ha detto un anno fa, in un’intervista rilasciata in piena clandestinità a Gerardo Reyes de El Nuevo Herald. Lasciando tra le righe intendere quel che tutti già sapevano. Ovvero: che lui il suo autista e la sua auto li aveva (perché a suo dire forzato) messi a disposizione d’una causa che aveva ben più nobili padri. Uno era sicuramente – come già confermato anche dalla “Commissione per la Verità e la Giustizia” istituita dopo la pace firmata nel 1993 – un morto. Per l’appunto: l’ “hijo meritísimo” Roberto d’Aubisson, l’uomo che in quegli anni aveva indefessamente tirato le fila d’un sistematico massacro di comunisti ed affini. Gli altri (quanti altri non si sa) potrebbero oggi trovarsi assisi su qualche poltrona ministeriale. O anche su qualche più alto scranno.
Questo era stato il tribunale che aveva condannato a morte Oscar Arnulfo Romero. E le motivazioni della sua condanna aveva provveduto a scriverle, in un editoriale della sua edizione del 17 febbraio, il quotidiano El Diario de Hoy. L’attuale arcivescovo di San Salvador, si poteva leggere in quell’articolo, è “un demagogo ed un violento…e dalla cattedrale ha stimolato l’adozione del terrorismo…”. Ma la verità è che monsignor Romero non era in fondo, come lui stesso amava ripetere, che un prete. Uno dei tanti preti che, in quegli anni, s’erano trovati a predicare in un paese che della violenza portava, ovunque, i segni di ferite mai rimarginate. Anzi: in un paese dove ogni sorger del sole, mostrava, ineludibili alla vista e persino all’olfatto, le immagini di nuove ferite e di nuove ingiustizie. I giornalisti che, in quegli anni, frequentarono il Salvador ricordano assai bene quella che, ogni mattina, era diventata una sorta di tragica routine: la visita alla discarica vulcanica di El Playón, dove gli squadroni della morte usavano buttare i cadaveri, quasi sempre mutilati dalle torture, delle loro vittime. Ogni giorno v’era qualcosa da vedere, qualcosa da raccontare e da contare. Tre cadaveri, dieci cadaveri, venti cadaveri. Cadaveri di sindacalisti, di attivisti di sinistra o, più spesso, di gente qualunque che sembrava di sinistra per il solo fatto d’esser povera. Alla fine del 1979, l’anno che precedette il precipitare della guerra civile, ne contarono, di quegli assassinii “firmati” – corpi con i due pollici legati dietro la schiena ed il buco d’una pallottola in testa – quasi 11mila in tutto il paese.
Qualcuno di quei morti era, come Oscar Arnulfo Romero, un prete (o addirittura una suora, come nel caso della quattro monache americane stuprate ed assassinate tre mesi dopo l’omicidio di Romero) . E non per caso. Perché tra i molti slogan che in quegli anni, scandirono il massacro ce n’era uno che diceva: “Sii patriota, uccidi un prete”. Primo obiettivo di quest’assai intensa campagna – chiamiamola così – di pulizia politico-religioso-sociale erano, ovviamente, le appendici salvadoregne del movimento della teologia della liberazione. Soprattutto i parroci che, in campagna e nella periferia della città, gestivano le comunità di base, nonché i gesuiti della UCA (Università Centroamericana) che di questo movimento erano – e non solo dal punto di vista teologico – la testa pensante. Proprio loro, i gesuiti che dirigevano la UCA furono, tra l’altro, il 16 novembre del 1989, le vittime dell’ultimo e più sanguinoso colpo di coda degli squadroni della morte. Fu quel giorno che, al calar della sera, il rettore Ignacio Ellacuría, il vicerettore Ignacio Martin-Baró, i professori Segundo Montes, Amando López, Juan Ramón Moreno e Joaquín López y López, più la donna delle pulizie e la sua figlia quindicenne, vennero uccisi negli uffici dell’ateneo con modalità – gli assassini si accanirono in particolare contro il cranio dei prelati – che chiaramente riecheggiavano il sinistro grido, “viva la muerte, abajo la inteligenzia”, che a suo tempo accompagnò le imprese della Falange franchista.
Ma monsignor Romero non era, in realtà, un prodotto di questo mondo. Perché non aveva mai creduto alla teologia della liberazione, o alla legittimità della lotta di classe. E perché proprio a lui, giovane segretario della Conferenza Episcopale di Medellín, nel 1968 (pietra miliare nella storia della Chiesa dei poveri), era toccato sottolineare i pericoli di una “identificazione tra la dottrina e le ideologie di sinistra”. Ma, soprattutto, perché Romero, per quanto indubbiamente colto, non era mai stato un intellettuale. La sua nomina ad arcivescovo di San Salvador – nel 1970, regnante Paolo VI – era stata dai più accolta come una vittoria dei conservatori. Ed all’impegno politico Romero era arrivato soltanto molto più tardi, trascinato, quasi con disperazione, dal terrificante spettacolo di quotidiana, continuata violenza, e dai lamenti d’un popolo che – come lui stesso disse nella sua ultima predica, il giorno prima dell’assassinio – “salgono ogni giorno più tumultuosi verso il cielo”. Proprio per questo – per la “ineluttabilità” della sua conversione, per il fatto d’essere il riflesso non d’una teoria, ma d’una sofferta esperienza di vita ecclesiale – che la storia di Oscar Arnulfo Romero continua a richiamare in superficie verità nascoste o dimenticate. Ed a fare paura.
Vuole la tradizione che la “svolta” (che fu, in effetti, un processo molto graduale) sia stata – per quella che oggi una icona, un “santino”, quasi della chiesa dei poveri – provocata dalla morte, nel 1977, d’un vecchio e caro compagno di seminario, Rutilio Grande, divenuto parroco della comunità di base di Aguilares. Fu in quell’assassinio che Romero vide, per la prima volta in tutta la sua chiarezza, la realtà d’una storia che, cominciata con un massacro mezzo secolo prima, nei massacri andava riproducendo se stessa. O meglio: vide – specie dopo il rapido fallimento di ogni ipotesi riformista-democratica, nel ’78 e nel ’79 – come la violenza che traspirava da ogni poro della società salvadoregna non fosse che la continuazione dello sterminio consumatosi nel 1932, in quella che viene ancor oggi ricordata come “la Matanza” (trentamila morti in pochi giorni per reprimere la protesta dei contadini che, dopo l’esproprio delle terre comunali all’inizio del secolo, erano stati costretti al lavoro forzato nelle nuove piantagioni di caffè). Molta acqua è, da allora, passata sotto i ponti della Storia. E già ai tempi della morte di Romero, il Salvador non era più il paese dominato dalle famose “14 famiglie” che, come vuole una piuttosto stantìa immagine del paese, controllano l’esportazione del caffè e, insieme, l’economia, l’ “anima” del paese. Eppure ancor oggi, in questi tempi di ritrovata democrazia, il massacro resta il marchio di fabbrica d’una oligarchia che continua ad essere – per usare una splendida e tragica immagine del poeta Roque Dalton – una “asna con garras”, un’asina con gli artigli.
Questa asina continua, ancor oggi – dopo il ritorno della pace – a governare, all’ombra degli Stati Uniti, un paese che non conosce giustizia. Ed assai probabile (anzi quasi certo) è che, tra un raglio e l’altro, riesca ora a nominare “hijo merítissimo del Salvador” l’assassino di Romero, molto prima che la chiesa – se mai lo farà – nomini santo il prete da lui martirizzato. Così vanno oggi le cose nel Salvador. Dove, da 27 anni, Monsignor Romero torna ogni giorno, come Cristo, a “resuscitare nel suo popolo”. Ed ogni giorno a morire…