Confesso d’essere uno tra più ottusi tra quanti hanno difficoltà a cogliere l’artistica bellezza di quelle che, in gergo, vengono chiamate ‘performance’. E con qualche imbarazzo ammetto di non avere alcuna capacità di carpire, o ancor meno di capire, l’intima emozione racchiusa in quei quadri senza tele né colori – solo oggetti ed esseri umani simbolicamente esibiti – che da tempo vengono esposte in biennali e triennali d’ogni parte del pianeta. Devo però dare ragione a Tania Bruguera – l’artista cubana per tre volte arrestata e per tre volte liberata nei giorni scorsi a L’Avana, proprio a causa d’una di queste ‘performance’ – quando afferma che, nel caso specifico, una vera e propria ‘opera d’arte’ è stata esposta urbi et orbi. Non – ovviamente – quella che lei aveva programmato nella piazza della Rivoluzione e che il governo cubano s’è affrettato a proibire e materialmente impedire; bensì quella che, con la sua proibizione, lo stesso governo cubano ha da par suo – con l’artistica stupidità di cui ogni dittatura in abbondanza dispone – provveduto ad allestire. Ipotetico titolo del capolavoro: ‘Paura d’un microfono’. O, in alternativa: paura della parola, paura del pensiero. O ancora, più semplicemente: ‘Paura’. Paura del potere. Laddove, naturalmente, il potere è non l’oggetto, ma il soggetto della paura. Unica possibile critica all’esibizione: la sua assoluta prevedibilità. Ma in fondo è proprio nella totale mancanza di fantasia che si cela la vera, ‘grande bellezza’, dell’insieme…
I fatti sono noti. Tania Bruguera, artista cubana che, da tempo, spende gran parte della sua vita nelle capitali mondiali dell’arte, aveva pensato di celebrare la ‘storica’ riapertura delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e Cuba, replicando una performance da lei già sperimentata – sotto il titolo ‘Il sussurro di Tatlin’ – in quel di Venezia. L’opera altro sostanzialmente non è (o doveva essere nel caso dell’Avana) che questo: un microfono aperto messo a disposizione, per un tempo pari a un minuto – di chiunque lo volesse usare per ‘esigere’ (yo también exijo, ‘anch’io esigo’, era il sottotitolo della variante cubana). Ovvero: per reclamare cambiamenti, esporre frustrazioni e denunciare ingiustizie. Unico limite: niente insulti, niente volgarità, niente inviti alla violenza. Il governo cubano non ha gradito. Ed ha reagito lungo la linea d’una molto sperimentata pratica ‘preventiva’. V ale a dire: facendo presidiare la piazza, da un lato e, dall’altro, arrestando, oltre alla medesima Bruguera, tutti i dissidenti che avevano preannunciato la propria partecipazione all’iniziativa. Un’esibizione di forza e insieme d’artistica bravura, questa, indubbiamente coronata da grande successo. Non tanto perché – cosa assolutamente scontata – gli apparati repressivi hanno impedito la presentazione della ‘opera’, quanto perché, con il suo divieto, il regime quell’opera ha reso universalmente nota.
È naturalmente possibile che l’esibizionismo – esaltato dalla prevedibile proibizione – sia stata una componente importante dell’iniziativa della Bruguera. E di certo qualche ragione hanno quanti ne hanno criticato la tempistica, sottolineando come quella ‘provocazione’ abbia di fatto regalato nuovi argomenti ai non molti, ma assai rumorosi nostalgici dei tempi belli dell’embargo (quelli che Obama ha appena, con grande ritardo, ma si spera definitivamente, depositato nel proverbiale immondezzaio della Storia). Come sempre tristissimo, inoltre, è (ri)vedere come, attraverso la rete dei suoi molto ‘spontanei’ blog, il governo cubano vada in questi giorni spiegando se stesso. Vedasi, giusto a titolo d’esempio, questo post firmato da Iroel Sánchez, nel quale – esaurito il consueto attacco personale ai singoli dissidenti, tutti definiti ‘mercenari’ al servizio dell’Impero (ah, l’originalità di questa prosa!) – la ‘performance’ della Bruguera viene senza esitazioni illustrata come parte d’un cosmico progetto di destabilizzazione imperiale. O, più specificamente: come il tentativo di creare (con l’ovvia complicità dei grandi media’) una nuova ‘piazza Maidan’…
Baggianate, ovviamente, oggi come ieri. Con la sostanziale differenza, tuttavia, che oggi, dopo gli annunci del 17 dicembre, queste torve stupidaggini di regime si presentano almeno tendenzialmente prive d’uno storico alibi. Si può infatti rigirare la frittata come si vuole. Si può considerare Tania Bruguera una esibizionista in cerca di pubblicità. Si possono criticare i tempi e la sostanza della sua mancata ‘performance’. Si possono – sfidando il ridicolo – delineare, dietro la sua iniziativa, planetari complotti sovversivi. Ma al fondo di tutto – come già detto sopra – non resta che un semplicissimo fatto. Semplice, direi, come la nudità del re del celeberrimo racconto di Andersen. C’era una volta un microfono aperto. Ed il governo cubano ne ha avuto paura. Ne ha avuto paura perché quel microfono altro non era (ed altro non è) che questo: un conto che, ora senza scuse o attenuanti, la Storia gli presenta. Un conto di libertà che, prima o poi (meglio prima che poi), gli toccherà pagare. Ed e’ proprio qui – in questo conto e nella sua ineluttabilità – che sta, in effetti, la sostanza d’una ‘opera d’arte’ che merita d’esser guardata anche da chi, come me, nulla capisce di ‘performance’…