“Não, jamais, jamais”. No, mai, mai. Così, il 5 novembre del 2016, quando l’inchiesta Lava Jato era ancora ai suoi albori, il giudice Sergio Moro aveva risposto a Fausto Acevedo, un giornalista de O Estado de S. Paulo, che gli chiedeva se avesse qualche intenzione, nell’immediato o in futuro, di cavalcare l’onda della sua improvvisa popolarità per “darsi alla politica”. “Io – aveva senza esitazioni risposto – faccio un altro mestiere”. Ed aveva aggiunto: “Rispetto la politica e chi fa politica, ma sono un uomo di giustizia. E giustizia e politica devono restare separate”.

Altri tempi, altre parole. Ieri, quasi esattamente due anni più tardi, Sergio Moro si è, contraddicendo se stesso, “dato alla politica”. Più che “darsi”, anzi, si è letteralmente e con molto sbracata incoerenza buttato via, accettando la proposta di diventare super-ministro della Giustizia (ed una sorta di “zar anticorruzione”) nel governo del neo-eletto presidente Jair Messias Bolsonaro. Ovvero: mettendo se stesso e la propria fama (di prestigio, ormai, non è più davvero il caso di parlare) non solo al servizio della politica, ma d’una politica che, prendendo come parametro quello che Bolsonaro ha detto e fatto negli ultimi 30 anni, con la Giustizia – se per Giustizia s’intende la difesa dello stato di diritto, dei diritti umani e della legge – poco o nulla (molto più nulla che poco) ha a che fare.

Una cosa va subito detta. Per quanto disgraziata si possa considerare la scelta di Moro, l’ingresso dell’ormai ex giudice nel governo Bolsonaro in nulla modifica il giudizio sulle inchieste che sono state fin qui da lui condotte, in rossiniano crescendo, partendo da quello che sembrava un banalissimo caso di riciclaggio consumato in un centro di lavaggio d’auto (di qui il nome dell’inchiesta) in una stazione di servizio di Curitiba. I fatti restano fatti, i corrotti restano corrotti, le bustarelle restano bustarelle, i colpevoli, colpevoli, gli innocenti, innocenti. Nel bene o nel male, tutte le certezze e tutti i dubbi che hanno accompagnato l’intero processo restano tali. E tale – un alibi nefasto che ha finito per favorire l’ascesa di Bolsonaro – resta la pretesa d’una parte della sinistra brasiliana d’attribuire ad una cosmica congiura anti-PT il cataclisma politico-giudiziario che, in due anni, ha di fatto demolito l’intera classe politica brasiliana.

Quello che cambia – e non è cosa da poco – è il fatto che, accettando la proposta di diventare super-ministro della Giustizia, Moro ha, come in un rituale di pubblica e vassallesca sottomissione, offerto tutto questo al nuovo sovrano. E che ha, così facendo, spogliato l’intero processo della sua veste di “apolitica” neutralità. Il Lava Jato è, da ieri, proprietà di Bolsonaro. E, sebbene nell’accettare il nuovo incarico, quest’ultimo abbia, com’è ovvio, annunciato le sue dimissioni dalla magistratura – e sebbene Bolsonaro gli abbia formalmente garantito “carta bianca” – nessuno potrà, d’ora in poi, seriamente guardare alle inchieste in corso (o a quelle già concluse) come a un atto di pura e credibile giustizia. Con Bolsonaro alla presidenza e con Moro ministro tutto il Lava Jato entra – ed entra nel modo peggiore – nel tritacarne della politica brasiliana. Più brutalmente: Sergio Moro s’è guadagnato ieri una poltrona nel rinnovato “salotto buono” del potere politico, ma ha, una volta per tutte, perso la faccia.

Va da sé che Moro entra nel nuovo governo del fascista Jair Bolsonaro sventolando il vessillo – quello della lotta alla corruzione – che lo ha fin qui definito di fronte alla pubblica opinione. Lo stesso vessillo che, con una mossa propagandistica tanto scontata quanto strumentale, ha spinto Bolsonaro a chiamarlo a corte.  Ed è più che possibile che davvero l’ex giudice sia ora convinto di poter usare le sue nuove funzioni politiche per risanare, finalmente, uno dei mali storici del Paese. Quel che accadrà, si vedrà. E, come in ogni processo che si rispetti, saranno i fatti a determinare, anche in questo caso, la sentenza. Se però la Storia del Brasile e la biografia politica di Bolsonaro sono di qualche indizio, molto difficile è immaginare che il nuovo presidente abbia davvero qualche serio proposito di sradicare la malapianta.

Il nuovo governo in via di formazione si presenta fin d’ora come una rinnovata ma non meno disgustosa miscela delle tradizionali tre “B”biblia (bibbia, il fondamentalismo cristiano), bala (pallottola, violenza di Stato) e boi (bue, laddove il pio animale sta per la vecchia e feroce oligarchia agraria latifondista – che da sempre definisce (e quasi sempre definisce nel sangue) la destra brasiliana. Il che oggi significa essenzialmente due cose: un ritorno al potere dei militari, accompagnato da una gestione “liberista” dell’economia, pratica che, affidata alla fantasia dell’ormai stagionato “Chicago Boy” Paulo Guedes, vanta illustri precedenti di armoniosa alleanza (vedi il caso del Cile di Pinochet) con le più cruente forme di dispotismo politico. Una cosa viene data per certa. Petrobras – l’ente petrolifero statale che è al centro dello scandalo che sconvolge il Brasile e mezza America Latina – non passerà, come vorrebbe la dottrina liberista, in mani private, ma andrà, per l’appunto, sotto il controllo dei militari.

Ovvero: tornerà alle origini. Perché chiunque conosca la storia del Brasile – ed in particolare quella della sua corruzione, splendidamente raccontata da Alex Cuadros nel libro “Brazillionaires” – sa come la malattia sia in effetti cominciata, in un perverso intrecciarsi di interessi pubblici e privati, proprio sotto la dittatura militare che tanto struggenti nostalgie suscita nel nuovo presidente. Fu proprio sotto i militari che un altro dei protagonisti del Lava Jato, Odebrecht – così come molti altri potentati economici e centri d’infezione, vedi il caso di Eike Batista – si trasfigurò appalto dopo appalto, bustarella dopo bustarella, da piccola impresa in un mostro divora-tutto…

Lotta alla corruzione? Se qualcuno ci crede, si faccia vivo. Ho da vendergli, a prezzi stracciati, una bellissima ed antica fontana nel centro di Roma…