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Violenza contro gli haitiani, una lunga storia…

Per Donald J. Trump, ex-presidente degli Stati Uniti d’America, non erano, notoriamente, che scorie. Anzi, peggio: quegli uomini, quelle donne e quei bambini che arrivavano dal Sud del mondo altro non erano, per lui e per i suoi seguaci, che invasori, “bad hombres, (uomini cattivi, nell’illetterato bilinguismo del presidente), bande di stupratori e di criminali, escrementi che, provenienti da shithole countries”, paesi del buco del culo, minacciavano l’etnica, bianca purezza dell’American way of life. Erano, quegli esseri umani, dei “nemici”. E, come tali, andavano con ogni mezzo respinti alla frontiera. Questo pensava (pensava e diceva) l’uomo che lo scorso novembre abbandonò suo malgrado la Casa Bianca, regalando al mondo l’ultima e più sinistra delle sue oltre 30mila certificate menzogne (quella che denunciava brogli elettorali mai esistiti), nonché il lugubre ricordo d’un assalto al Congresso (quello consumatosi il 6 di gennaio) già entrato negli annali come forse il più acuto momento di crisi della “più antica democrazia del mondo”.

Trump, la crudeltà come scelta politica

Tutto era semplice, nel mondo di Donald J. Trump. Tutto era chiaro. E tutto a suo modo tornava. Tornava il famoso muro (quello, promesso ma mai realizzato, perché irrealizzabile, che doveva essere eretto, pagato dal governo messicano, lungo tutte le seimila miglia della frontiera sud). E tornava, soprattutto, la crudeltà, la studiata, consapevole malvagità d’una politica che proprio sull’altrui dolore si fondava. Per fermare l’invasione – questo amava ripetere con perversa chiarezza Stephen Miller, l’ideologo di Donald Trump in materia di politica migratoria – bisogna far male. E male Trump aveva senza esitazione e senza rimorsi fatto, non solo chiudendo ogni accesso ai migranti, ma separando i bambini dalle loro famiglie alla frontiera e rinchiudendoli poi in gabbie come animali. Tutto, nell’America di Donald Trump, aveva una sua truce coerenza. Tutto, oltre la naturale clownerie del presidente, si teneva. E quel “tutto” era coerentemente, inequivocabilmente leggibile nelle immagini di quei bambini abbandonati dietro le sbarre.

TOPSHOT – A United States Border Patrol agent on horseback tries to stop a Haitian migrant from entering an encampment on the banks of the Rio Grande near the Acuna Del Rio International Bridge in Del Rio, Texas on September 19, 2021. – The United States said Saturday it would ramp up deportation flights for thousands of migrants who flooded into the Texas border city of Del Rio, as authorities scramble to alleviate a burgeoning crisis for President Joe Biden’s administration. (Photo by PAUL RATJE / AFP) (Photo by PAUL RATJE/AFP via Getty Images)

Poi è arrivato Joe Biden. È arrivato al termine d’un tormentato processo elettorale vissuto come una  sorta di grande esorcismo anti-Trump, una catarsi che, volendo ripetere il più reiterato degli slogan di campagna di “Uncle Joe”, doveva salvare “the soul of America”, l’anima dell’America deturpata da un quadriennio di menzogne e di sadismo. O che, più specificamente, doveva – in materia d’immigrazione in un paese che d’immigrazione sempre è vissuto – restituire all’America la capacità di fare “the human thing”, la cosa umana. Questa era la promessa. Ma che cosa è, da allora, davvero cambiato?

La risposta è: tutto e niente. Tutto perché dal lessico presidenziale sono completamente scomparsi gli “shithole countries” e la proclamata volontà di “fare male”. Non ci sono più, alla frontiera, “bad hombres” e stupratori. Solo gente, umanità in cerca di speranza, bisognosa d’aiuto. E, nel contempo, niente è cambiato, perché la “cosa umana” che Joe Biden va facendo in questi giorni è, nella sostanza, la medesima che, a suo tempo, Trump aveva disumanamente ed orgogliosamente fatto. Sono cambiate le parole. Sono rimasti i fatti.

Questo, infatti, ci raccontano le cronache. Il governo statunitense sta, in queste ore deportando migliaia di haitiani in cerca d’asilo. Più esattamente: sta deportando, volo charter dopo volo charter, tutti i circa 15.000 haitiani che, nelle scorse settimane, hanno attraversato a piedi il tratto del Rio Grande che separa Ciudad Acuña, nello stato di Coahuila, in Messico, dalla cittadina (35.000 abitanti) di Del Rio, in Texas, trovando, appena oltre la sponda, un assai precario riparo – in attesa che la loro richiesta di asilo venga, come vorrebbe la legge, esaminata dalle autorità statunitensi – sotto il grande ponte (l’International Bridge) della Highway che costeggia il fiume. Trump quelle 15.000 anime le avrebbe, a suo tempo, senza remore deportate “per il loro male”. Ovvero: con la medesima, ostentata e sprezzante disumanità con la quale aveva, tre anni orsono, rinchiuso in gabbie i bambini che lui stesso aveva separato dalle loro madri. Biden lo sta al contrario facendo – così ha dichiarato nei giorni scorsi il segretario dell’Homeland Security, Alejandro Mayorkas – “per il loro bene”. O, più precisamente (e più ipocritamente), per por termine allo stato di insalubre insicurezza nel quale oggi sopravvivono all’ombra dell’International Bridge di Del Rio. Parole diverse ed inconciliabili, oltre le quali, tuttavia, un fatto molto concretamente resta: gli haitiani vengono rispediti al mittente. Anzi, peggio: vengono rispediti in un paese dove non esiste alcun mittente. Ed un paese, Haiti, col quale hanno, in pratica, perso ogni rapporto, conservandone soltanto lontani ricordi di violenza e d’ingiustizia. Quasi tutti gli haitiani oggi a Del Rio sono infatti arrivati – attraversando cordigliere e foreste, sempre esposti, oltre che alle asprezze della natura, ai ricatti ed alle violenze di trafficanti di carne umana – non da Haiti, ma dal Cile e da altri paesi del Sudamerica verso i quali sono emigrati anni fa e dove, quasi sempre indesiderati ospiti, hanno per molto tempo miseramente vissuto. E per deportarli Biden sta usando, come Trump prima di lui, il cosiddetto “Title 42”, una legge che, approvata nel lontano 1946, consente alle autorità di frontiera vietare l’accesso o di deportare senza processo, per ragioni di salute pubblica, chi vuole entrare, o già è entrato negli USA.

A questa legge Trump aveva fatto ricorso, ovviamente, sulla base d’una filosofia, la sua, che xenofobicamente vede, nell’immigrato, non solo un criminale, ma (a prescindere dall’attuale stato di pandemia) un portatore di malattie, un essere intrinsecamente “infetto”. Biden la sta usando (sono sempre parole di Mayorkas) “per esclusive ragioni sanitarie, per proteggere, al tempo stesso, le comunità lungo la frontiera ed i medesimi migranti”. Ma, cambiato l’ordine dei fattori, il prodotto evidentemente non cambia. Deportazione “punitiva” era sotto Trump, deportazione “umanitaria” è sotto Joe Biden. E non sorprende il fatto che tanto buon cuore abbia infine incontrato non solo l’ingratitudine (una disperata ingratitudine) dei beneficiati, ma anche quella dei donatori istituzionali. Due giorni fa, Daniel Foote, special envoy to Haiti del Dipartimento di Stato, ha spettacolarmente rassegnato le sue dimissioni. Non posso – ha spiegato nella sua lettera d’addio – legare il mio nome alla “disumana e controproducente politica” di deportare – di fatto in una terra di nessuno – migliaia di esseri umani”

In sintesi: il muro di cemento che Trump voleva costruire è rimasto quel che sempre è stato: una chimera e una barzelletta. Ma un efficacissimo muro giuridico l’ex presidente lo ha davvero strumentalmente costruito all’ombra di una pandemia da lui fronteggiata con fallimentari risultati. Quel muro è, per l’appunto, il “Title 42”. Trump lo ha creato. E Joe Biden lo sta, di fatto, puntellando.

Come i cani di Eugene “Bull” Connor…

Stesso muro, stessa crudeltà e stesse immagini. Ai tempi di Trump furono le foto dei bambini in gabbia a regalare al mondo il più autentico e profondo senso del trumpismo. Oggi a definire la politica di Biden sono le sequenze delle guardie di frontiera che, a cavallo, caricano gli haitiani che riattraversano il fiume dopo che – per trovare l’acqua ed il cibo che manca sotto l’International Bridge – sono tornati in quel di Ciudad Acuña. Immagini dure. Immagini che, nella loro durezza riportano indietro nel tempo a vicende, brandelli di storia che, in realtà, continuano, in molti modi, ad esser cronaca. La caccia agli schiavi fuggitivi nell’America pre-Guerra Civile. I cani lanciati, dallo sceriffo Theophilus Eugene “Bull” Connor a Montgomery, Alabama, contro i manifestanti neri che, nel 1965, guidati dal reverendo Martin Luther King, attraversavano il ponte di Selma reclamando il proprio diritto al voto…

Non tutto, va da sé, è rimasto uguale nel passaggio dagli “shithole countries” alla “human thing”. Da presidente, Trump li avrebbe, quegli audaci cavalieri, senza riserve applauditi (e, da leader del sempre più “suo” Partito Repubblicano, li ha di fatto applauditi, accusando il suo successore di avere “aperto le frontiere” spalancando le porte alle forze del male da lui a suo tempo sconfitte). Joe Biden quel sadico rodeo lo ha al contrario condannato, promettendo un’inchiesta e proibendo, nei giorni a venire, l’uso della “cavalleria” per mantenere l’ordine lungo il Rio Grande. Così come, nei giorni precedenti aveva bloccato le molto ribollenti velleità repressive del governatore del Texas, il super-trumpiano Greg Abbott, che ha comunque schierato, appena oltre l’International Bridge, diverse migliaia di automobili – un “muro d’acciaio” lo ha definito – al fine di “scoraggiare gli invasori”.

Ed anche qualcosa di più di questo ha fatto Biden: in un tentativo (rimasto tale) di voltar pagina, nei mesi scorsi, il presidente aveva creato una task force per cercare di riunire le famiglie che Trump aveva separato. Lo scorso giugno aveva inoltre inviato la vicepresidente Kamala Harris in Guatemala, Messico ed altri paesi centroamericani, con il piuttosto velleitario compito di “affrontare alle radici” le cause della crescente immigrazione e delle dolenti “carovane” in marcia verso gli Usa. Il tutto, però, senza visibili risultati. Ancora oggi, infatti, sono migliaia i bambini perduti. Orribili restano, lungo tutto il confine, le condizioni degli immigrati in attesa di giudizio. E dal viaggio della Harris, nulla è fin qui emerso, tranne una piuttosto futile frase: il perentorio “do not come”, non venite perché vi rimandiamo indietro, che la vicepresidente ha rivolto alle popolazioni locali. Porte chiuse. Con Biden, come con Trump.

Ed un fatto è certo: intatte, oltre le parole di Trump, di Joe Biden o di Kamala Harris, restano le “radici” di cui sopra. L’onda umana che, lungo l’Itsmo, si muove da sud verso nord, è sospinta – a prescindere dal sadismo o dalla umanità dei presidenti Usa – da cause oggettive. Una su tutte: la formazione, in virtù del cambio climatico, d’un corridoio desertico – il cosiddetto “dry corridor”, un’ampia striscia di terra dove ormai impossibile è coltivare e, di conseguenza mangiare – che attraversa Guatemala, Honduras e Nicaragua. Una tragedia le cui conseguenze si possono oggi meglio misurare abbandonando il Rio Grande e scendendo molto più a sud laddove, nello stato di Chiapas, il Messico s’incontra con il Guatemala. È qui che, anni fa, gli accordi, tra Donald Trump ed il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador – di destra il primo, di sinistra il secondo, ma entrambi uniti da non celate passioni autoritarie – hanno creato, in quel di Tapachula, quello che doveva essere un “filtro”, o meglio, una diga contro la marea della migrazione centroamericana. E che è diventato, invece, soltanto una sordida prigione a cielo aperto, un carcere dal quale i migranti escono, non con “le carte in regola” per continuare il viaggio, ma quasi sempre solo se “accompagnati” – e non di rado uccisi cammin facendo, come qualche mese fa accaduto a 14 guatemaltechi nello stato di Tamaulipas – da bande di trafficanti che, spesso, altro non sono che le locali polizie.

Haiti la “cattiva coscienza” d’America

Cristo si è fermato a Tapachula, verrebbe da dire, parafrasando il titolo del grande romanzo di Carlo Levi. E proprio da Tapachula erano giunti, sfidando la sorte, i 15.000 haitiani che ora, dopo aver fatto i conti con la riedizione frontaliera del mitico VII Cavalleggeri, stanno per essere (o già sono stati) deportati nel nome del muro legale che, innalzato da Trump, fa oggi da schermo alla “umanitaria” ipocrisia di Joe Biden. Né è un caso che proprio a loro, agli haitiani, nerissimi figli di quella che, in anni molto lontani, fu la prima (ed unica) ribellione vittoriosa di schiavi, tocchi andare per primi a sbattere contro questo muro. Haiti non è infatti, per far eco alla volgarità di Trump, un qualunque “paese del buco del culo”. È, piuttosto, uno specchio nel quale gli Stati Uniti d’America possono, da sempre, scorgere il riflesso della propria cattiva coscienza, il permanente, inequivocabile promemoria del “peccato originale” d’una rivoluzione che, nata nella luminosa realtà d’un principio d’eguaglianza – We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal – è in realtà cresciuta nel cono d’ombra d’una schiavitù (quella che con un lurido eufemismo i “founding fathers” chiamavano “the peculiar institution”) i cui effetti ancora perdurano.

La storia ci dice come, agli inizi degli anni 70, fu proprio un’ondata di “boat people” haitiani in fuga dalla violenze e dagli arbitri di Duvalier (giusto per ripetere quel che Franklin Delano Roosvelt disse di Anastasio Somoza: uno dei molti “our son of a bitch”, i “nostri” figli di buona donna, che gli Usa allevarono nel loro “cortile di casa”– a cambiare per sempre, in senso restrittivo, la politica migratoria degli Usa. E soprattutto ci ricorda, la Storia, come la miseria di Haiti sia, in parte sostanziale, il frutto del sabotaggio, o della vendetta, che l’America rivoluzionaria bianca e schiavista consumò, con l’ovvia complicità della Francia e dell’Europa post-napoleonica, contro quella insurrezione vittoriosa. Ed è verso quella miseria – alimentata da assassinii (l’ultimo quello del presidente in carica, Jovenel Moïse), mattanze, terremoti e uragani – che vengono oggi rispedite, per “fare la cosa umana”, ma senza pietà, le anime perdute di Del Rio, Texas.

Una storia antica, molto più antica di Trump e di Biden. Una storia che si ripete.

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