13 ottobre 2009
Di M.C.
A cinquant’anni dalla sua morte, Camilo Cienfuegos Gorriarán è andato a far compagnia al Che Guevara, nella piazza – di fatto un enorme spazio vuoto nel quale, all’ombra enfatica del monumento José Martí, si incrociano diverse strade – dedicata a quella “Revolución” che tanto ha contribuito a partorire, ma della quale non ha potuto ascoltare che i primissimi vagiti. Il gigantesco ritratto – 40 metri di altezza per 20 di larghezza, stilisticamente in tutto simile a quello “storico” del Che Guevara (al suo posto dal 1973) – occupa una grande parete bianca appositamente costruita nel bel mezzo del Ministero delle Comunicazioni). E sovrasta una scritta che rammenta la frase – “Vas bien, Fidel” – con la quale, durante il primo comizio dopo l’entrata dei “barbudos” all’Avana, Camilo incoraggiò l’oratore. Ovvero: quel medesimo Fidel Castro Ruz che avrebbe poi ininterrottamente guidato l’isola per il successivo mezzo secolo. O, almeno, fino al luglio del 2006, anno nel quale Fidel “temporaneamente” abbandonò, causa malattia, il ruolo di visibile ed unico timoniere della rivoluzione (quanto Fidel abbia, da allora, mantenuto l’ “invisibile” comando delle operazioni, è oggetto di dibattito).
Ma chi fu, davvero, quest’icona della rivoluzione? La sue biografie – quelle ufficiali e quelle ufficiose – raccontano d’ un giovane estroverso ed amante della bella vita (un “picaro” viene di norma definito), nato all’Avana nel 1932 da una famiglia di anarchici spagnoli rifugiatisi nell’isola. Camilo era tra gli 82 che, il 25 novembre del 1956, salparono a bordo del Granma da Tuxpán, in Messico, diretti a Cuba. E fu tra i 12 che – secondo la più evangelica delle versioni dell’evento – sopravvissero all’impresa, dando vita alla guerriglia della Sierra. Camilo Ciefuegos vantava, al momento del trionfo della rivoluzione, una popolarità pari a quella del Che e non di molto inferiore a quella di Fidel. Morì però quasi subito. Morì, anzi, proprio nel momento in cui la rivoluzione cubana – il cui programma era originalmente quello di ripristinare la Costituzione del 1940, messa in mora dalla dittatura di Batista – stava vivendo il suo primo vero sussulto politico. A Camaguey, uno dei comandanti della guerriglia, Huber Matos, aveva denunciato la crescente “infiltrazione comunista”. E Camilo era stato immediatamente inviato da Castro per sedare, con le buone o con le cattive, quello che pareva l’inizio d’un possibile ammutinamento (Prevalsero infine le cattive, nonostante non vi fosse stato alcun ammutinamento: Matos venne arrestato, processato da una commissione militare e condannato a vent’anni di carcere, poi interamente scontati. Oggi vive in esilio a Miami). Una missione, questa, dalla quale, in ogni caso, il numero tre della rivoluzione non sarebbe mai ritornato. L’aereo Cessna sul quale viaggiava per rientrare all’Avana, svanì nel nulla. Probabilmente cadde in mare, ma le ragioni dell’incidente – se di incidente s’è davvero trattato – non vennero mai accertate.
E proprio in questo irrisolto mistero sta, in effetti, la molto peculiare natura di questo eroe della rivoluzione. Ogni anno, il 28 di ottobre, i “pioniertos” dell’Avana sfilano in silenzio lungo il Malecón, e gettano in mare fiori per commemorare la morte di quello che la liturgia castrista considera – dopo il Che – il più fulgido dei discepoli di Fidel. Ma anche per gli antifidelisti Camilo è, a suo modo, un eroe. O meglio: è “el hombre que le hacía sombra a Fidel”, l’uomo, il non-comunista che, fosse sopravvissuto, avrebbe forse potuto frenare la deriva socialista ed autocratica della rivoluzione. Per questo pezzo di Cuba – spesso, ma non sempre, fuori da Cuba – Camilo è stato assassinato da chi vedeva nella sua popolarità una minaccia. Vale a dire: da Fidel, dal re che fulmina chiunque abbia la ventura d’avvicinarsi troppo al trono.
Non vi è, in questo senso, nessuna prova nessuna prova che s’avvicini al rituale “al di là d’ogni ragionevole dubbio”. E nulla indica che, al momento della sua morte, Camilo fosse il contrasto politico con Fidel o che quest’ultimo lo considerasse una minaccia. Ma molti – e costantemente alimentati dall’assenza d’una definitiva ricostruzione degli eventi – sono gli indizi che sorreggono la tesi dell’omicidio: indagini non svolte, contraddizioni, testimoni oculari scomparsi in tenebrose circostanze…
Il mistero, dunque, resta tale. Ed anche di questo parlerà – almeno agli osservatori più avveduti – il grande ritratto che oggi troneggia nella Plaza de la Revolución, dal lato del Ministero delle Comunicazioni e della Biblioteca José Martí. Di quello che è stato e che non si è mai saputo. Di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Di quello che è stato e che avrebbe potuto non essere. Di speranze senza età e di datatissime delusioni. Un destino, quello di Camilo, in fondo non troppo dissimile da quello del suo più stagionato dirimpettaio. Anche il Che Guevara, infatti, morì giovane, prima che il potere (che pure, a Cuba, egli aveva per qualche anno e con qualche brutalità eserciato) ne raggrinzisse l’immagine. Ed è per questo anche lui rimasto – come Camilo e come recita una vecchia canzone di Bob Dylan – “per sempre giovane”. Un’icone senza tempo che, dai muri de La Plaza, vigila su una rivoluzione che il tempo ha trasformato – come in una sorta di Dorian Gary all’incontrario – nel proprio ritratto. O nella rugosa caricatura di se stessa. (m.c.)
Proponiamo la lettura di due contrapposti articoli:
“Un hombre hecho leyenda” di Luis Hernández Serrano, pubblicato da La Jiribilla
e
“El Hombre que le hacía sombra a Fidel” di Pedro Corzo, pubblicato da El Nuevo Herald di Miami