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Obama, fine della passeggiata

4 novembre 2009

 

Di M.C.

 

“No Walk in the Park”. Non è stata una passeggiata nel parco. Così il New York Times ha titolato uno dei suoi articoli di commento ai risultati delle elezioni locali che, ieri – ad un anno esatto dalla vittoria presidenziale di Barack Obama -, hanno visto un piuttosto netto (anche se, come vedremo, per molti aspetti contraddittorio) trionfo repubblicano. Ed il riferimento era, ovviamente, al Grant Park di Chicago, alle lacrime di gioia ed alle speranze, all’esaltante, contagiosa certezza di vivere una “svolta della Storia” che, in quella notte del 4 di novembre del 2008, lungo le gelide sponde del lago Michigan, era sembrata l’inizio di un cammino destinato a durare per sempre. Quanto cammino hanno percorso, da allora quelle speranze e quelle certezze? Quanto è in effetti  durata – per riprendere la metafora del New York Times – quella “passeggiata nel parco”?

Non molto, all’apparenza. Martedì si è votato in due Stati, la Virginia ed il New Jersey, diretti, entrambi, da governatori democratici. Due Stati che in misura diversa avevano, un anno fa, contribuito (la Virginia soprattutto) a spostare in direzione di Obama l’ago della bilancia elettorale. Ed in entrambi gli Stati hanno vinto, con ampio margine, i repubblicani. I quali hanno – per così dire – immediatamente cominciato una propria virtuale passeggiata, o contro-passeggiata, nel parco,  attribuendo al voto di martedì il valore d’un generale, massivo rifiuto del “cambio d’epoca” celebrato nel Grant Park. “Il messaggio del voto è chiaro – ha detto il presidente del Grand Old Party, Michael Steele -: la gente ne ha abbastanza della ‘liberal agenda’ (la politica di sinistra n.d.r.) del presidente Obama”.

Ma è davvero così? Davvero il voto del New Jersey e della Virginia è l’inequivocabile segnale dell’inizio di un “indietro tutta” destinato a culminare il prossimo anno – presumibilmente con una sconfitta democratica – quando il paese dovrà confrontarsi con le elezioni di mezzo termine? Davvero la “passeggiata nel parco” è già finita (e finita per sempre)?  I repubblicani hanno, naturalmente, più di una buona ragione per gioire. Anzi: ne hanno sicuramente due: tante quanti sono i suoi nuovi governatori.  Ed è un fatto – da tempo confermato, sul piano nazionale, da tutti i sondaggi – che il “disincanto” nei confronti di Obama ha in questi mesi viaggiato – specie tra gli elettori indipendenti – più veloce di quanto avessero previsto anche i più freddi analisti della “transfomational force”, della forza trasformatrice messa in campo del primo presidente nero. L’analisi del voto in New Jersey ed in Virginia lo rivela senza possibilità d’equivoco: i candidati democratici hanno sicuramente perso anche per debolezze proprie – Jon  Corzine, il governatore uscente del New Jersey, aveva indici di popolarità al di sotto del 30 per cento, e R. Craigh Deed, aspirante governatore della Virginia, era un personaggio insignificante – ma hanno anche chiaramente pagato, oltre le previsioni, il forte calo di “appeal” dell’obamismo. I repubblicani, dicono i dati, hanno vinto perché rispetto alle presidenziali, il voto è stato “molto più bianco”. Insomma: perché questa volta le “forze nuove” – i neri, le minoranze, i giovani – che la campagna di Obama era riuscito a mobilitare un anno fa sono quasi scomparse dalla scena. Perché tutto questo?

Il fenomeno era, almeno in parte, scontato. Le parole – le alate, bellissime parole di uno tra i più eloquenti tra i presidenti della storia d’America – si sono, infine, scontrate con i fatti. La retorica del cambiamento ha cominciato a muoversi lungo i ben più viscidi e tortuosi sentieri dei progetti di cambiamento. La “audacia della speranza” ha dovuto fare i conti, nel pieno d’una crisi epocale, con le miserie d’una quotidianità politica da Obama affrontata – in linea con la sua filosofia e con la sua personalità – più con lo spirito del “grande conciliatore” che con quello del grande riformista. Era – ed in parte ancora è – quella di Obama, una politica basata sulla necessità di una “nuova maggioranza” bipartisan, o meglio, post-partisan. Ma di fronte ha sé non ha trovato, quella politica, che la realtà d’una “nuova minoranza”, quella repubblicana, più che mai chiusa in sé stessa, rancorosa e negativa, estremista, molto più pronta all’invettiva ed al sabotaggio che alla collaborazione, o a civile confronto. Elemento centrale della rappresentazione: la battaglia per la riforma sanitaria. Una battaglia che,  fin qui combattuta, prevalentemente, sui banchi dei due rami del Congresso, ha dato di sé un immagine di “politics as usual”, di quella solita solfa politica al di sopra della quale Obama aveva promesso di muoversi.

Questo è stato, indiscutibilmente, il sottofondo di disillusione, il piuttosto triste panorama d’un voto che, per quanto limitato, ha visto un indiscutibile successo repubblicano ed un altrettanto indiscutibile ridimensionamento di Obama e della sua presidenza. Ma con indicazioni che, se esaminate in dettaglio, sono ben lungi dall’andare, inequivocabilmente, nella direzione indicata da Michael Steele.  Se infatti si analizzano i risultati andando oltre la Virginia ed il New Jersey (o la terza rielezione del sindaco Bloomberg, a New York City) – ovvero considerando anche le corse per coprire alcuni seggi congressuali rimasti scoperti – il quadro finisce per assumere contorni più chiari (o molto meno chiari di quel che i repubblicani vorrebbero far credere). L’America è già stanca della “politica di sinistra” di Barack Obama? Guardando i risultati d’uno dei più grandi distretti della California del Nord, non parrebbe proprio. Qui, infatti, ha stravinto il democratico John Garamendi, convinto supporter d’una riforma sanitaria ben più radicale di quella che sembra in questi giorni emergere dal Congresso. Ed ancor più significativo è il caso – uno dei più seguiti dai media, per molti e validissimi motivi – del 23esimo distretto della Stato di New York, dal lontanissimo 1872 inespugnabile roccaforte repubblicana. Qui ha vinto – e vinto con ampio margine- il candidato democratico, Bill Owens, dopo che in loco si erano precipitati molti dei grandi boiardi del partito repubblicano (in prima fila la ben nota Sarah Palin, la pittoresca candidata alla vicepresidenza con John McCain) per scomunicare la “troppo moderata” candidata del GOP, Dede Scozzafava, favorevole al diritto di scelta della donna in caso di aborto e persino – orrore! – non del tutto contraria a quella “opzione pubblica” (ovvero: alla possibilità della creazione di un alternativa di stato alle assicurazioni private) che costituisce uno dei più controversi punti della riforma sanitaria in discussione. La Palin e gli altri maggiorenti hanno offerto il proprio appoggio e quello del partito a Bill Hoffman, un ultra-conservatore “doc”, andato incontro ad una disastrosa sconfitta. E molti altri sono i casi in cui l’ “arroccamento a destra” del partito repubblicano è stato severamente punito nelle urne.

Morale della favola? Nessuna. Le elezioni di martedì rappresentano, indiscutibilmente, la prima seria sconfitta per il neo presidente. Ma impossibile è, allo stato delle cose, capire di che cosa siano davvero la premessa. Il fascino del candidato Obama è ormai soltanto un ricordo del passato. Ed il futuro è, ora, nelle mani del presidente Obama. Un presidente che, a dispetto delle apparenze, ha già camminato molto. E non solo perché ha, sul piano internazionale, cambiato l’immagine dell’America.  La sua politica di stimolo all’economia – per quanto anemica sul versante dell’occupazione – ha funzionato, dicono le statistiche. Ed ha riportato sul versante della crescita un’economia che viaggiava sul ciglio del baratro. La riforma della sanità – che il presidente ha, nel ricordo del fallimento di Hillary Clinton, per scelta affidato alle involute logiche del Congresso – comincia a prendere forma.

Obama sta, a un anno dalla sua vittoria, viaggiando lungo il crinale – una classica “terra di nessuno” – che separa le parole dei fatti. Martedì scorso è indiscutibilmente scivolato. Ma il suo cammino – o, volendo tornare a bomba, la sua “passeggiata nel parco” – è lungi dall’essersi conclusa.  Anzi: è appena cominciata.

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