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Usa, la politica dell’indecenza

Il passaggio degli uragani Gustav ed Ike ha offerto agli Stati Uniti l’occasione per dimostrare un minimo di saggezza e di umanità, dopo quasi mezzo secolo d’un embargo crudele ed anacronistico. Prevedibilmente, l’Amministrazione Bush non l’ha colta – Ed ora anche a Miami comincia ad affiorare il disgusto…

 

4 agosto 2008

di Massimo Cavallini

 

Dato il colpo di grazia ad Haiti – letteralmente affondata nel fango di tre successive tormente e nell’implacabile ciclo della sua cronica povertà – l’uragano Ike ha attraversato Cuba in tutta la sua lunghezza. Ed ora si dirige minaccioso verso il Texas. Ma ancor prima di toccare le coste degli Stati Uniti d’America, già ha, anche sulla sponda statunitense, mostrato al mondo immagini di grande miseria e squallore. No, non quelle che, come ad Haiti ed a Cuba, testimoniano – ci si passi il luogo comune – la “furia degli elementi “ e, insieme, la vulnerabilità dell’umana esistenza; bensì quelle – per molti aspetti ancor più desolate e dolenti, perché “evitabili” – d’una politica crudele e, al tempo stesso, ridicola. Prepotente ed impotente. Incredibilmente stupida e stupidamente immutabile. O meglio: immutabile perché stupida e stupida perché immutabile.

In breve: l’uragano Ike – che, per ironia della storia, porta il nome, o il soprannome, del presidente Usa (Dwight Eisenhower) che per primo, nel marzo del 1960,decretò l’embargo commerciale contro Cuba – ha offerto al governo degli Stati Uniti un’eccellente (ed ennesima) occasione per fare la figura del miserabile. Ed anche questa volta il governo degli Stati Uniti – come quasi sempre accade quando la questione cubana diventa l’oggetto del contendere – non se l’è lasciata sfuggire. Anzi: già non se l’era lasciata sfuggire due settimane or sono, quando l’uragano Gustav (lo stesso che avrebbe poi risparmiato a New Orleans una seconda distruzione ed alla convenzione repubblicana di St. Paul l’imbarazzante presenza di George W. Bush) aveva durissimamente colpito, in pratica radendole al suolo, l’Isola della Gioventù e la provincia di Pinar del Rio. Il tema era allora – ed ancor più è ovviamente oggi, dopo il passaggio di Ike – quello degli aiuti. Ed il tema degli aiuti – impossibili in una situazione di embargo commerciale e finanziario – aveva inevitabilmente posto il problema d’una quantomeno temporanea e parziale sospensione delle leggi vigenti. Era già accaduto nel 1996, quando – regnante Bill Clinton – di fronte ai danni provocati dall’uragano Lili – era stata concessa la possibilità di inviare nell’isola, destinati alla Caritas, cibo e medicinali. Quegli aiuti – a testimonianza del fatto che la stupidità non sempre è una prerogativa esclusiva degli Usa -vennero poi in parte restituiti o, comunque, non distribuiti perché sui sacchi e sui contenitori erano riportate frasi considerate “controrivoluzionarie”. Ma il precedente resta. Ed avrebbe potuto (dovuto) conoscere una replica oggi, in una situazione che, più che mai, imponeva (ed impone) il superamento d’ogni disputa politica e il perseguimento d’un “armistizio” umanitario.

Ma così non è stato. Perché quello che, subito dopo Gustav, il governo Usa ha fatto è stato questo: mettere sul tavolo un aiuto quantitativamente ridicolo (100mila dollari) e subordinarlo a condizioni che nessun governo avrebbe potuto accettare. In sostanza: gli Usa chiedevano che gli apparati di stato cubani – che, al di d’ogni politica simpatia o antipatia per il regime, sono considerati tra i più efficienti ed esperti del mondo in materia d’uragani – si facessero da parte, aprendo le porte ad un team “all american” che, in assoluta autonomia, valutasse l’entità dei danni e decidesse come, dove e quando spendere i quattro soldi che erano stati stanziati. Del tutto scontata – e così riassumibile – la risposta cubana: no, grazie. Se proprio volete fare qualcosa di utile, potete cambiare le leggi sull’embargo che, ormai da quasi mezzo secolo, cercano di soffocare economicamente il nostro paese.

Una di queste leggi – la più iniqua in un mare d’iniquità e, anche, la più facile da cambiare – è quella che impedisce ai cubani che vivono negli Stati Uniti di inviare denaro oltre limiti che, di recente, l’Amministrazione Bush ha abbassato a 100 dollari mensili. Ma, in una serie dichiarazioni – Condoleezza Rice, prima, ed il segretario al commercio Carlos Gutiérrez poi – il governo di George W. Bush ha fatto sapere che “l’embargo non si tocca” in nessuna delle sue parti. Gli Usa sono più che desiderosi di aiutare, naturalmente, ma il loro aiuto non può che essere “incontaminato”. Ovvero: non può arrivare che in cambio d’una cessione di sovranità. Il tutto sperando – parole di Carlo Gutiérrez – che “il governo di Cuba ponga gli interessi del suo popolo al di sopra della politica”.

Bella frase. Bella, prevedibilmente applaudita dalla storica leadership cubana di Miami, e – nella sua quasi surreale ipocrisia – capace di sottolineare come, in questa squallida storia, il vero problema non sia tanto la non-volontà di muoversi “al di sopra della politica” dimostrata dal governo cubano, quanto la pervicacia con la quale, da molti decenni, il governo americano si muove, quando il tema è Cuba, “al di sotto della politica”. Ovvero: nell’opportunistico sottobosco dei suoi rapporti con una burocrazia dell’esilio ormai impantanata nel suo rancore anticomunista e soprattutto impegnata – come tutte le burocrazie – a riprodurre se stessa. Ma, nel contempo, anche ben collocata in quello che, nella mappa elettorale degli Usa, è considerato un punto nodale (il famoso e nefasto – ricordate le presidenziali del 2000? – voto della Florida). Anche i sassi hanno ormai capito come l’embargo – al di là d’ogni valutazione sulla sua iniquità e sulla sua illegalità – sia la più ridicolmente inefficace delle politiche “anticastriste”. Anzi: anche i sassi (compresi quelli di Washington) sanno, ormai da tempo, come l’embargo non sia, in effetti, che l’ultima e più potente giustificazione del castrismo, il suo sostegno, la memoria della parte migliore d’una rivoluzione che, per molti versi andata a male, ha comunque restituito dignità e sovranità ad un paese umiliato dalla potenza e dalla prepotenza del suo grande vicino del Nord; una luce accesa su una “eroica” resistenza che, grazie agli attacchi d’un gigante fortissimo ma imbecille, continua, legittimamente,ad identificarsi con la difesa della Nazione. E, anche, il molto meno nobile pretesto per la negazione di libertà fondamentali. Eppure l’embargo continua a vivere, intoccabile anche oltre le più ovvie ragioni dell’umana pietà e della logica.

La novità è che, stavolta, anche a Miami, le voci contro si sono fatte sentire. Raúl Martinez, popolare sindaco di Hialeah (la parte della contea di Miami dove più alta è la concentrazione di cubani) ha chiesto con forza (con l’appoggio di Barack Obama e del deputato repubblicano Jeff Flake) che ai cubani negli Usa venga concesso d’inviare rimesse in danaro oltre i limiti della legge. E non si tratta affatto di un predicatore nel deserto.

Come finirà è difficile dirlo. Di certo, per il momento, non c’é che quel che si vede: un paese messo in ginocchio da un urgano, danni di primo acchito valutati tra i 4 ed i sei miliardi di dollari (un’enormità per un paese il cui Pil supera di poco i 30 miliardi). Di certo non ci sono che le umane sofferenze provocate da questa distruzione. Più il fatto che gli Usa di George W. Bush sono riusciti, in questo desolato panorama, a mostrare una volta di più il peggio di se stessi. Era già successo, succederà ancora. Ma ancora per quanto? Attraversando l’isola, l’uragano Ike ha rammentato come il suo omonimo Eisenhower sia stato, non solo l’inventore dell’embargo, ma anche il primo della lunga serie di presidenti Usa ai quali il castrismo è sopravvissuto. Quarant’otto anni, dieci presidenti. Riuscirà, l’undicesimo, a cambiare finalmente copione?

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