Le immagini sono chiarissime. Le più chiare, probabilmente, che mai abbiano fatto da contrappunto visuale ad un “magnicidio” (o, più fortunatamente, come nel caso, ad un tentativo di “magnicidio”). La sequenza è perfetta: un uomo che si fa largo prima tra la folla e che poi, non visto dalle numerose guardie del corpo, arriva ad un passo dalla vicepresidente argentina Cristina Fernández de Kirchner. Quindi un braccio che si solleva, una pistola che – come in un’inequivocabile istantanea da consegnare in primissimo piano alla Storia – quasi giunge a toccare il volto ancora ignaro e sorridente della vittima. Quindi la cilecca dell’arma, qualche attimo di confusione, l’arresto del colpevole…
Nessun possibile dubbio: qualcuno – un giovane balordo di cittadinanza brasiliana con inquietanti simpatie nazi-esoteriche, si saprà poco più tardi – ha cercato di uccidere la donna che ha governato l’Argentina tra il 2007 ed il 2015 e che ancor oggi, pur ufficialmente relegata alla carica di vice, pressoché tutti (a cominciare, si maligna, dallo stesso presidente Alberto Fernández) considerano la vera “padrona”, o la vera forza ispiratrice, della coalizione peronista (il “Frente de Todos”) che dal 2019 governa il Paese. Ed infatti nessuno, in Argentina, sembra aver dubbi di sorta. Il tentato magnicidio che con tanto nitore è stato dalle immagini documentato ha prevedibilmente prodotto soltanto certezze. Certezze argentine. Vale a dire: irrimediabilmente, diametralmente, inconciliabilmente contrapposte.
Un rapido sguardo al contesto, per meglio capire. L’attentato contro Cristina Fernández de Kirchner cade in una molto specifica congiuntura, o meglio, nelle spire d’un tenebroso magma nel quale politica ed economia convergono per drammaticamente sovrapporsi e confondersi lungo il discrimine che, come in una sorta di biblica condanna, ha con alti e bassi marcato tutti gli ultimi 80 e passa anni della storia argentina. La prima (la politica) nella forma d’una endemica ed impunita corruzione, sfociata nelle ultime settimane nell’apertura d’un processo contro Cristina (con richiesta d’una pena pari a 12 anni di carcere), in virtù d’una chilometrica e pluridecennale serie di appalti pubblici truccati a favore di un “testaferro” (tale lo ritiene il giudice inquirente) di nome Lázaro Báez. La seconda (l’economia) nella forma d’una ennesima catastrofica crisi scandita da una galoppante inflazione e dall’inevitabile profilarsi, sotto i vigili sguardi del FMI, di dolorosissimi e molto “neoliberali” piani di “ajuste”. Ed è di fronte a questa innegabile realtà che le due certezze di cui sopra si confrontano.
Per l’Argentina peronista – una realtà nella quale, da sempre, tutto ed il contrario di tutto può fiorire, a seconda delle stagioni e dei più tribali interessi – il fallito attentato non è che l’ultima appendice d’una campagna d’odio contro Cristina. La stessa campagna che in un susseguirsi di menzogne, ha prodotto, nella forma di “lawfare” e, insieme, d’un sistematico “linciaggio mediatico”, l’inchiesta giudiziaria in corso. “Chi davvero impugnava la pistola puntata contro il volto di Cristina?” si è chiesto ieri, in un editoriale, il giornalista Victor Hugo Morales, uno dei più appassionati, poetici (e, per chi non lo ama, servili) sostenitori della Kirchner. “Sabag Montiel (questo il nome dell’attentatore n.d.r.) o Bullrich, Macri e Carrió (questi i nome di tre dei più in vista tra gli oppositori del kirchnerismo n.d.r.)?”. Ed è in questo spirito che, sia pur con più moderati accenti, il presidente Alberto Fernández ha d’acchito risposto all’attentato dichiarando “festivo”, o meglio, date le premesse, “non lavorativo” il giorno successivo, convocando una grande manifestazione in appoggio a Cristina e, per l’appunto, “contro l’odio”.
Per l’Argentina antiperonista – una realtà nella quale, nel nome dell’avversione al tutto e contrario di tutto che il peronismo rappresenta, tutto ed il contrario di tutto può fiorire a seconda delle stagioni e dei più tribali interessi – l’attentato non è invece, prevedibilmente, che una montatura, uno specchietto per le allodole destinato a coprire il rumore (e il dolore) delle bastonate economiche che stanno per calare sulle teste degli argentini “de a pie”, gli stessi che Alberto Fernández chiama alla mobilitazione pro-Cristina. Quello che il governo peronista definisce “odio” o “lawfare”, altro in realtà non è che una ben diversa cosa: quella che le persone decenti usano chiamare “giustizia”. E la mobilitazione in appoggio alla vicepresidente altro con tutta evidenza non è, a sua volta, che una richiesta, anzi, una pretesa di impunità. I comunicati e le dichiarazioni ufficiali dei partiti e dei leader sono, a questo proposito, ovviamente molto più insinuanti e meno diretti, limitandosi, consumata un’inevitabile e tiepida condanna di “ogni forma di violenza”, a chiedere immediati chiarimenti sulla “molto strana” meccanica dell’attentato. Ma basta un viaggio sui social per cogliere, in tutta la sua istantanea brutalità, il vero pensiero di questo spezzone di Paese.
Queste sono le tenebrose e antitetiche certezze generate dalle molto terse ed a modo loro “metaforiche” immagini del “magnicidio”. Certezze la cui aristotelica e triste sintesi è un paese dove quasi la metà della popolazione vive oggi sotto la soglia di povertà. Un paese che, da troppi decenni perduto nell’ambiguità di un populismo corrotto e senza colore, spesso in contraddizione con se stesso, continua a soffrire. Il tutto con un’altra e stavolta definitiva certezza: che il peggio ancora deve arrivare. Perché proprio questo è l’Argentina del peronismo e dell’antiperonismo: un paese che, come nelle sequenze del mancato magnicidio di giovedì, vive da sempre con la pistola, anzi, con due pistole puntate in faccia. Un paese dove il peggio è, con Perón o contro Perón, con Cristina o contro Cristina, un continuo divenire.