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Trump, il semi-fascista che “cura” la democrazia

Donald Trump ed i suoi “MAGA-republicans” sono “espressione d’un estremismo che minaccia le fondamenta stesse della nostra Repubblica”. Questo ha molto solennemente affermato Joe Biden durante un discorso in quel di Filadelfia, lo scorso 1 di settembre. Ed anche più in là il presidente degli Stati Uniti d’America, uomo abitualmente dai molto moderati e sonnolenti accenti, s’era spinto, solo qualche giorno prima, in un comizio a Bethesda, nel Maryland, non esitando in quell’occasione a pronunciare, con inequivocabile riferimento al suo predecessore ed ai di lui più strenui seguaci – i MAGA-republicans, per l’appunto – quella che nel gergo politico Usa va sotto il nome di “f-word”, la parola che comincia per effe. Laddove la “effe” sta, non per il “fucking” che tradizionalmente fa da contrappunto al turpiloquio in lingua inglese, ma per “fascist”, fascista. O, nel caso, per “semi-fascist”, come in un piuttosto illogico tentativo d’ammorbidire quel che ammorbidito non poteva essere, Joe Biden ha di fatto definito l’incombente minaccia.

Chiamatela, se vi pare, una cura omeopatica…

Qualunque fosse il significato di quel “semi”, due concetti sono comunque emersi con assolta chiarezza dai due successivi interventi presidenziali e da quel che, da allora, Biden è andato ripetendo in ogni sua pubblica apparizione. Il primo, molto esplicitamente espresso, è – per l’appunto – che Donald Trump rappresenta, per la democrazia americana, non solo un esiziale pericolo, ma anche un pericolo esizialmente ed ineludibilmente “intero”, quale che sia l’aggettivo che l’accompagna. La seconda, implicita ma, all’atto pratico, non meno ovvia e trasparente è che – traducendo in un paradosso le parole del presidente Usa – solo con una massiccia dose di trumpismo si può, oggi, far fronte a questo pericolo. La democrazia americana, ha in sostanza detto Biden, è malata. Il male di cui soffre si chiama Donald Trump. E da questo ne deriva che solo Donald Trump può, a questo punto, salvare la democrazia americana.

Chiamatela, se vi pare, una cura omeopatica. O, più propriamente – uscendo finalmente dal paradosso – un ritorno alle origini. Pur non usando la “f-word”, infatti, proprio con la necessità di combattere la minaccia “semi-fascista” (ma interamente antidemocratica) rappresentata da Donald Trump, Joe Biden aveva, sul finire del 2019, motivato la sua discesa in campo nella battaglia per la nomination democratica. “Ci troviamo – aveva detto nel presentare la sua candidatura – nel pieno d’una battaglia per l’anima degli Stati Uniti d’America…dovesse Trump vincere un secondo mandato questo cambierebbe per sempre e fondamentalmente il carattere democratico della Nazione…”.

Nel novembre del 2020, Joe Biden – sorprendentemente vincitore, dopo un catastrofico inizio di campagna, delle primarie democratiche – ha in effetti sbarrato la strada al temuto secondo mandato di cui sopra. E davvero ha, per usare le sue parole, “salvato l’anima degli Stati Uniti”. Che cosa lo spinge ora a riprendere in ancor più accese tonalità – e sotto l’egida della “f-word” – quella battaglia? Per quale motivo non solo Joe Biden, ma l’intero Partito Democratico, tornano ora – cosa mai accaduta prima nella storia degli Stati Uniti d’America – a porre un ex presidente sconfitto al centro del dibattito politico?

Per rispondere in modo appropriato a questa domanda occorre rivolgere un più ampio sguardo alle cronache degli ultimi due anni ed al presente panorama politico. Trump – un personaggio che, va sottolineato, non vanta, per clownesca ed amorale estraneità ai veri o presunti valori che sono alla base della democrazia Usa, alcun riconoscibile precedente nei quasi 250 anni di vita della “più antica democrazia del mondo” – ha perso le elezioni, entrando così nel molto elitario (9 su 45) ma non propriamente glorioso pantheon degli “one term president”, i presidenti mandati a casa dopo il primo mandato. Ma la sua sconfitta non ha affatto cancellato, anzi, ha per molti aspetti accentuato e radicalizzato, il suo attacco alla democrazia. Più ancora: non accettata sulla base di quella che viene molto appropriatamente bollata come “the Big Lie”, la grande menzogna – ovvero, della menzognera e perlopiù stravagante denuncia d’una frode di cui non v’è mai stata traccia alcuna – la disfatta elettorale di Donald Trump ha reso quell’attacco alla democrazia un elemento endemico, un punto chiave, stabile del quadro clinico. In sintesi: il trumpismo è a tutti gli effetti diventato – o meglio, ha confermato d’essere, dopo la sconfitta del novembre 2020 – una malattia cronica del sistema politico americano.

I fatti sono stranoti. E si snodano lungo una parabola il cui racconto può partire dalla famosa ed a suo modo profetica frase che Donald Trump – a quel punto ormai sicuro del suo trionfo nelle primarie repubblicane e del suo carismatico controllo sul GOP (Grand Old Party) – pronunciò nell’estate del 2016. “Potrei assassinare qualcuno nel pieno delle Quinta Strada – aveva detto – e non perderei un solo voto”. Eletto (pur superato nel voto popolare) alla testa d’un partito che – al termine d’un complesso processo involutivo cominciato molto prima dell’irresistibile ascesa ai vertici del nuovo presidente – s’era trasfigurato in una setta dedita al culto del suo leader, Trump non ha poi sparato, che si sappia, ad alcun ignaro passante nella più nota ed affollata arteria urbana di Manhattan. Ma ha, per molti aspetti, fatto di molto peggio. E lo ha fatto con assoluta continuità, dicendo e facendo cose che in altri tempi avrebbero, singolarmente prese, implacabilmente chiuso la carriera di qualsivoglia presidente o di qualsivoglia uomo politico. Menzogne su menzogne (le più affidabili organizzazioni di “fact checking” ne hanno calcolate quasi 40mila in quattro anni). Vergogne su vergogne. “So many Trump scandals, so little time”, recitava molto appropriatamente un titolo del New Yorker sul finire del 2019. Troppi scandali trumpiani e troppo poco tempo per assorbirli. Offrendo praticamente ogni giorno nuove occasioni di sdegno al paese, Donald Trump – questo il suo pulcinellesco segreto – non ha mai lasciato all’oltraggio il tempo di sedimentare. La menzogna, lo scandalo sono diventati norma. E, nella norma, anche l’oltraggio è – volendo rubare una poetica battuta all’ultima celeberrima scena di Blade Runner – svanito “come una lacrima nella pioggia”.

L’assalto al Congresso del 6 gennaio, un punto d’arrivo e, insieme, una ripartenza…

Il punto di arrivo, o meglio, il punto di ripartenza di questo processo, è stato dopo la sconfitta elettorale, l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2020. Di fatto un diretto assalto alla democrazia, realizzato da gente che Trump aveva prima convocato al grido di “stop the steal”, fermate il furto, e poi eccitato con apocalittici accenti – “fight like hell, lottate come diavoli, perché se non lotterete come diavoli gli Stati Uniti cesseranno d’esistere” – col dichiarato obiettivo di impedire la proclamazione ufficiale, a Capitol Hill, della vittoria di Joe Biden. Ancora una volta: mai nulla del genere – unico imparagonabile precedente: l’attacco condotto dalle truppe di sua maestà britannica durante la guerra del 1812 – era accaduto. E nulla di simile aveva poi fatto seguito.

Negli ultimi mesi, una commissione d’inchiesta allestita dalla House of Representatives controllata dai democratici è andata indagando sulle responsabilità di quell’assalto. Ed ha indubbiamente arricchito di dettagli talora tragici, talora farseschi, una verità i cui termini essenziali già erano peraltro, fin dall’inizio, assolutamente chiari. Come risulta da questo implacabile atto d’accusa pronunciato nel febbraio del 2020 durante il processo d’impeachment (il secondo per Donald Trump ed il primo in assoluto per un ex-presidente) intentato all’indomani del 6 gennaio. “…Non v’è nessun dubbio, assolutamente nessuno, che su Donald Trump gravi la responsabilità, pratica e morale, d’aver provocato gli eventi del 6 gennaio…Donald Trump è colpevolmente e vergognosamente venuto meno ai doveri a lui imposti dalla carica che ricopriva…Anziché fermare l’assalto che lui stesso aveva provocato, Donald Trump ha, al contrario, allegramente – allegramente! – rimirato gli eventi in tv mentre montavano il caos e la violenza…Quando le orde che sventolavano bandiere con il suo nome e che nel suo nome erano convinte d’agire già avevano invaso Capitol Hill, e quando già a tutti era chiaro che la vita di Mike Pence era in pericolo, Donald Trump ha continuato ad emettere proclami via Twitter contro il suo vice-presidente (colpevole di non avere assecondato i suoi fraudolenti piani di capovolgimento dei risultati elettorali n.d.r)….”

U.S. Republican presidential candidate Donald Trump speaks during a campaign event in Anderson, South Carolina October 19, 2015. REUTERS/Chris Keane – RTS565P

Provate ad indovinare a chi appartengono queste infuocate parole. Se la vostra risposta è “ai pubblici ministeri (o agli “house manager” dell’accusa come di fatto si chiamano nel lessico processuale dell’impeachment) evidentemente mancate della fantasia e del “sense of humor” assolutamente necessari per comprendere la politica Usa ai tempi di Trump. A pronunciare quella spietata filippica era stato, in realtà, Mitch McConnell, il numero uno dei repubblicani del Senato che, proprio in forza di questo j’accuse, avrebbe poi reclamato e garantito, in caso giuridico probabilmente unico nella storia del pianeta Terra, l’assoluzione di Donald Trump: imputato assolto per aver commesso il fatto o, se preferite, per eccesso di prove a carico. Con quelle parole McConnell, capo della minoranza repubblicana e membro illustre di quello che di norma viene chiamato l’establishment del partito (ma che di fatto non è oggi che lo sfigurato residuo di quel che fu il GOP) voleva non condannare ma archiviare. E archiviato il tutto ritornare ad ossequiare, sia pur nel suo caso, molto di malavoglia, l’uomo che ormai ben più che il capo del partito, era ed è il partito. Kevin McKarty, leader repubblicano della House of Representatives, appena due giorni dopo aver pronunciato, durante il processo di impeachment, parole non molto dissimili da quelle di McConnell, si era recato nella reggia di Mar-o-Lago per rendere, il capo cosparso di cenere, omaggio al sovrano.

È in questi panorami che gli Stati Uniti sono andati approssimandosi, nell’ultimo anno, al tradizionale appuntamento delle “elezioni di mezzo termine”, chiamate a rinnovare tutti i 435 seggi della House of Representatives ed un terzo dei 100 seggi del Senato. Fino a poco più di un mese fa, i pronostici erano, per il partito democratico, pressoché catastrofici. Tutto era contro di loro, a cominciare da quella che, chiamata in politicese “logica del ciclo elettorale”, statistiche alla mano mostra come il partito del presidente in carica quasi sempre perda, nel “midterm”, seggi in entrambe le Camere. Uniche e, peraltro, in termini numerici, molto modeste eccezioni: quelle del 2002 (non per caso un anno dopo gli attentati dell’11 settembre) ed il 1998 (quando, regnante un Clinton anch’egli nel pieno d’un processo d’impeachment, i democratici guadagnarono 5 seggi alla Camera perdendone però uno al Senato).

Le elezioni di mezzo termine si preannunciavano, per i democratici, un’annunciatissima sentenza capitale…

 Oltre i problemi del “ciclo”, una lunga serie di fattori andava, inoltre, preannunciando una disfatta di immani proporzioni: il disastro, militare e d’immagine, della ritirata delle truppe dall’Afghanistan, i pertinaci postumi della pandemia, una economia che, diventata nei postumi della pandemia una sorta di indecifrabile enigma, con inflazione alle stelle, ma con eccellenti dati di occupazione  e di crescita, mostrava però al famoso “uomo della strada”, nelle stazioni di servizio, il suo volto più immediatamente ed impietosamente doloroso. Ovvero: l’aumento del prezzo del carburante. Con i dati d’approvazione per la presidenza di Joe Biden – molto rapidamente precipitati, in un’inarrestabile caduta dalla grazia popolare, dal 55 per cento del giorno della sua inaugurazione, al un miserando 36-37 per cento dello scorso giugno – a sigillare quella che appariva come una immancabile sentenza di condanna a morte.

I repubblicani ne erano – e con molte buone ragioni – più che certi: le elezioni di mezzo termine sarebbero state un referendum su un presidente in carica da loro sistematicamente descritto come un decrepito “socialista” – sicuramente rincitrullito, ma non per questo meno luciferino – intento a sistematicamente distruggere il paese nel nome di una cultura “woke” – sotto questo nome va un indistinto e tenebroso intreccio di perfide idee e di malvage intenzioni “di sinistra” – tesa a negare i veri valori (avete indovinato: Dio, Patria e famiglia) della Nazione. E tanto bastava. Nessuna controproposta, nessun programma alternativo. Make America Great Again. La stagione delle primarie aveva del resto, con pochissime eccezioni, confermato il pressoché totale controllo di Trump sul partito. A vincere erano quasi sempre stati – e quasi sempre con abbondante margine – i candidati, non importa quanto impreparati o, non di rado bizzarri, ai quali il gran capo concedeva il suo “endorsment”, ovviamente in cambio, per convinzione o per opportunismo, poco importa, d’una piena accettazione della “Grande Menzogna”. Le presidenziali del 2020 erano state una frode. Trump era il vero vincitore. Joe Biden è un presidente illegittimo.

Le cronache, in un crescendo di scandali che, per molti aspetti, prolungavano la triste parabola del quadriennio trumpiano, continuavano (e continuano) a regalare, ogni santo giorno, clamorose notizie relative alle impunite malefatte ed ai guai giudiziari dell’ex presidente. Su tutte, quelle relative ai documenti top-secret che, per ragioni ancora tutte da chiarire, ma sicuramente trumpianamente turpi, Donald Trump ha, contro la legge, accumulato nella sua residenza di Mar-o-Lago, in Florida. Ed a ciascuna di queste notizie il Partito che fu di Abraham Lincoln ha sistematicamente risposto rafforzando la propria totale sottomissione al proprio capo martirizzato e vilipeso dal “deep state”, lo Stato profondo, e dalle sinistreggianti élite che lo controllano.

Poi qualcosa è cambiato. Agosto è stato, per la presidenza di Joe Biden, un mese di grandi ed insperati successi. La sua ambiziosa agenda di riforme economico-sociali – la cosiddetta “BBB, o Build Back Better, ricostruisci meglio – bloccata ed ormai data per morta in virtù dell’opposizione d’un paio di senatori dell’ala moderata del partito (o, per meglio dire dell’ala più in linea con gli interessi degli oligopoli carbon-petroliferi) ha d’improvviso trovato, in una forma molto ridotta, ma egualmente molto rilevante (si tratta, a conti fatti ed a dispetto dei tagli, della più grande iniziativa di sempre in materia di lotta al global warming) la via della vittoria in quel di Capitol Hill. Il prezzo del carburante è andato – pur nel quadro d’una persistente inflazione – significativamente diminuendo. Joe Biden – con una manovra da molti giudicata economicamente discutibile, ma di indubbia efficacia politica – ha cancellato buona parte del debito studentesco, riducendo gli effetti del legalissimo strozzinaggio per il quale deve passare chi, in assenza di borse di studio, vuol frequentare le costosissime università Usa….

Ma a cambiare davvero la dinamica della corsa verso il “midterm”, spingendo in pochi giorni verso l’alto, dal 36 al 45 e passa per cento tanto gli indici di approvazione del presidente in carica quanto l’euforia dei democratici, sono stati non tanto i (peraltro abbastanza limitati) successi politici dell’Amministrazione Biden, quanto – paradossalmente, ancora una volta – quello che i repubblicani, in un crescendo di giubilo, avevano, su finire di giugno, accolto come uno storico trionfo: la cancellazione, dopo mezzo secolo di vigenza, della famosa Roe vs. Wade. Più specificamente: del diritto costituzionale all’aborto, decretata da una Corte Suprema che, proprio nel corso della presidenza Trump, aveva – violando tutte le regole procedurali e di decenza – spostato verso destra, con una maggioranza di 6 a 3, gli equilibri della Corte.

È stato grazie a quella sentenza, attesa ma egualmente scioccante, che l’America, l’America-donna in primo luogo, ha infine visto, al di là dell’inflazione e del prezzo della benzina, il proprio futuro, i pratici effetti della ritrovata e rinnovata grandezza annunciata da Trump e dai trumpisti, il senso vero dell’estremismo – fascista o semi-fascista poco importa – che, per ripetere le parole di Joe Biden, “minaccia le fondamenta stesse della nostra Repubblica”. Non l’innocenza di un bambino – come nel caso della celeberrima favola di Hans Christian Andersen – ma, al contrario, la assoluta, indecente malizia d’una Corte che non riflette i sentimenti del paese, ha in questo caso involontariamente rivelato la nudità del sovrano. Ed è per rimarcare questa nudità che un altro non-bambino – il quasi ottantenne presidente in carica – è tornato, riscoprendo la propria originale missione, a porre al centro della scena politica il fascismo, o semi-fascismo, dei “MAGA-republicans”. Questo è Donald Trump. Questo è il suo partito. Se li conosci – o se li ingerisci in dosi adeguate come avviene nelle cure omeopatiche – li eviti.

 A poco più di un mese dalle elezioni, tutto è ancora possibile, ma un fatto è certo: le cifre dei sondaggi sono cambiate. E quello che si preannunciava come un vero e proprio tsunami – un travolgente trionfo repubblicano – si è trasformato in una modesta risacca dai molto incerti esiti. I repubblicani restano favoriti nella corsa alla maggioranza della Camera, ma quella che si annunciava come la conquista di almeno una quarantina di seggi, si è ridotta a meno di venti. Ed al Senato sono ora i democratici – anche grazie alla impresentabilità di alcuni dei candidati personalmente prescelti, a sua immagine e somiglianza, da Donald Trump – ad avere i favori del pronostico.

Vadano come vadano le cose, la democrazia bipartitica americana resta, con conseguenze ancora tutte da calcolare, molto malata. Cronicamente malata, perché cronicamente intossicata –- a prescindere dai destini di Donald Trump – dalla degenerazione fascista (o semi-fascista”) di una sua metà. Ma innegabilmente poetico sarebbe vedere il partito di Trump privato d’un annunciatissimo trionfo dall’onda di ritorno della abolizione dell’aborto, dall’eco beffarda delle sue stesse parole e dei suoi più coltivati desideri.

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