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Monday, October 14, 2024
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“Sunset Boulevard” alla Donald Trump

“All right, Mr. DeMille, I’m ready for my close-up”, bene, signor DeMille, sono pronta per il mio primo piano. Con questa celeberrima battuta – come ben sanno tutti coloro che amano la “settima arte” – si chiude “Sunset Boulevard” (Viale del tramonto), uno dei più celebrati “classici” hollywoodiani. Ed a pronunciarla, di fronte ad una finta troupe cinematografica all’uopo allestita da Max, il suo  fedele maggiordomo, è Norma Desmond, una stagionata ex gran diva del cinema muto – interpretata con magistrale gigioneria da Gloria Swanson – demenzialmente convinta, mentre l’arrestano al culmine d’una cupa vicenda di follia e di morte, d’esser sul punto di tornare trionfalmente sul set, chiamata, per l’appunto, da Cecil B. DeMille, il grande regista famoso per i suoi “Kolossal” (muti e sonori) pre e post-guerra. Ed è proprio qui, a questa battuta senza tempo, che, non sorprendentemente, tornano oggi con frequenza paludati commentatori (vedi Maureen Dowd sul New York Times di sabato scorso) e scanzonati “comedians”. Il tutto per descrivere – stavolta naturalmente in chiave di farsa – il comportamento post-elettorale di Donald J. Trump, presidente più che mai “uscente” degli Stati Uniti d’America.  

Piuttosto ovvio il perché di questa ricorrente citazione hollywoodiana. Trump ha perso le elezioni. Le ha perse senza rimedio, condannato da numeri che, ormai da giorni, non lasciano scampo. Le ha perse nel voto popolare – come già quattro anni fa – e le ha perse, stavolta, anche a giudizio della stravagante, obsoleta ed iniqua aritmetica dei collegi elettorali, impresentabile ma immutabile (e, quel che più conta, decisiva) eredità della parte più tenebrosa e schiavista della storia Usa. Joe Biden, il suo rivale democratico ha ormai raggiunto i 306 voti (gli stessi con i quali Trump vinse nel 2016). E non c’è modo di riportarlo al di sotto della fatidica “quota 270”, quella che, fuori da ogni logica democratica, apre le porte della Casa Bianca. Questo è quel che dicono i fatti. Ed è a fronte di questi fatti che, come Norma Desmod, Donald Trump va quotidianamente dichiarandosi, via Twitter, pronto al suo “primo piano” per il sig. DeMille. O, fuor di metafora, pronto ad affrontare da trionfatore, vittoriosamente doppiato lo scoglio delle elezioni, gli impegni d’un secondo mandato che, in realtà, non comincerà mai. “Tutto è pronto – ha detto giorni fa, in suo nome, il segretario di Stato Mike Pompeo – per una ordinata transizione verso il secondo mandato di Donald Trump”. Ed è in questa chiave che il non-rieletto presidente ha, giorni fa, brutalmente licenziato il segretario alla Difesa, Mark Esper (colpevole di non aver assecondato i suoi piani d’uso dell’esercito per reprimere le manifestazioni antirazziste seguite all’omicidio di George Floyd) ed imbottito i vertici del Pentagono di uomini a lui fedeli.

Donald Trump non ha e non ammette dubbi. Lui le presidenziali dello scorso 3 di novembre le ha vinte (anzi: le ha vinte “by a lot”, per molto, o addirittura per “landslide”, a valanga, come va instancabilmente ripetendo la sua addetta stampa, Kayleigh McEnany). E se i numeri dicono il contrario è soltanto perché quelle che si sono appena consumate sono state elezioni palesemente fraudolente, cosa questa che con inequivocabile chiarezza si vedrà una volta che, smascherata la congiura, tutti i voti legali siano stati contati e quelli illegali scartati (laddove, ovviamente, legali sono i voti dati a lui, ed illegali, specie se inviati per posta, sono quelli attribuiti a Joe Biden).

Le cronache raccontano in realtà – appena è il caso di sottolinearlo – tutta un’altra storia. E ci dicono: a) come i voti già siano stati contati quanto basta per stabilire la irreversibilità della vittoria di Joe Biden; b) come tutte le denunce di frode presentate dagli avvocati di Trump siano fin qui state scartate, perché giudicate “frivole”, dai giudici competenti; c) come tutta la polemica sulla natura immancabilmente fraudolenta dei voti per posta non sia che una fandonia (un paio d’anni fa, un molto dettagliato studio del Brennan Center for Justice, ha calcolato un’incidenza di “possibili” frodi nei “mail-in votes” tra lo 0,0003 e lo 0,0025 per cento, pari a 31 casi di “credibili denunce” di “voter impersonations” – morti che votano – tra il 2000 ed il 2014). Ed infine: d) come nessun riconteggio – in questi giorni ce n’è uno in corso nel “battleground State” della Georgia – possa a questo punto cambiare il corso della storia.

Basta, per questo un’occhiata ai precedenti. Lasciando da parte il famoso riconteggio in Florida nell’anno 2000, dove 518 voti separavano George W. Bush da Al Gore – riconteggio poi d’autorità interrotto, com’è noto, dalla Corte Suprema – l’ultimo mezzo secolo di storia non ci regala che tre casi nei quali il tornare a contare i voti abbia cambiato gli esiti del suffragio: quello delle elezioni per il Senato nello Stato del New Hampshire nel 1974, quello delle elezioni per il governatore dello Stato di Washington nel 2004 e quello delle elezioni per il Senato in Minnesota nel 2008. In quei tre casi le differenze tra i contendenti erano rispettivamente di 355, 261 e 215 voti. In nessuno degli Stati “in bilico” – quelli nei quali la vittoria di Biden è stata più risicata – il candidato democratico ha meno di 12.000 voti di vantaggio. Game over.

Ma tutto questo al presidente (ancora) in carica poco importa. Come Gloria Swanson nel capolavoro di Billy Wilder, anche Donald Trump va in questi giorni, con istrionico incedere, incontro alle cineprese per lui appositamente allestite, in un immaginario set, da una sorta di “maggiordomo collettivo” (non solo i suoi “MAGA fans” che, in queste ore, vanno protestando contro la frode nelle vie di Washington D.C., ma di fatto, con pochissime eccezioni, l’intero partito repubblicano) pronto ad assecondare i suoi deliranti sogni di gloria. Nessuno, tra i rappresentanti di quello che fu il partito di Abraham Lincoln, lo fa per amore. O, per lo meno, non per l’amore incondizionato, disperato e a suo modo poetico col quale Max (nel film un monumentale Eric von Stroheim) serviva la sua folle padrona. Alcuni acconsentono alle fantasie trumpiane per opportunismo. Altri – in una variante peggiorativa dell’opportunismo, nonché a dimostrazione di quanto in basso, regnante Trump, sia caduta l’idea del “carattere presidenziale” – lo fanno per “dargli tempo”. E questa – “humoring him” – è l’espressione che usano nel comunicare ai cronisti, rigorosamente off-record, le ragioni del loro (temporaneo) sostegno alle fantasie trumpiane. Il problema, dicono, è lasciare che il presidente – notoriamente incapace, per patologico narcisismo, di ammettere una sconfitta – sfoghi il suo disappunto in puerili canti di vittoria ed in isteriche denunce di frode. Alla fine, come i bambini dopo un capriccio, anche lui, smaltita la stizza, si arrenderà di fronte alla realtà. Basta non irritarlo ulteriormente, contraddicendolo.

Ridicolo? Senza dubbio. E certo è che proprio ad un film comico – contrapposto alla tragedia a forti tinte, “dark” si dice oggi, di Sunset Boulevard – è in più punti assomigliata la risposta trumpiana all’andamento elettorale. A cominciare dalla prima e (nelle intenzioni) spettacolare denuncia di frode, affidata al ben noto Rudy Giuliani (l’ex rispettato sindaco di New York oggi alla guida, come una sorta di capocomico, del circo legale di Donald Trump) e consumatasi – apparentemente per un errore nella consultazione della guida telefonica – nonnella lussuosa cornice dell’hotel Four Seasons di Filadelfia, come originalmente programmato, ma nel parcheggio del Four Seasons Total Landscaping, un vivaio alla periferia della città, giusto tra uno “Sex-shop” ed una impresa di pompe funebri. Con il primo (e fin qui anche unico) testimone delle frodi in corso nel decisivo Stato della Pennsylvania risultato poi essere un impresentabile ed assolutamente inattendibile ex-condannato per reati sessuali.

Ridere, in questa storia, è la cosa più facile ed immediata. Basta, per questo, rileggersi le parole con le quali un’altra ed assai prominente consulente legale di Donald Trump, Jenna Ellis, così ha spiegato – allegramente capovolgendo il più basico dei principi giuridici, quello dell’onere della prova – come e perché le elezioni siano state fraudolente: “Se Joe Biden è tanto sicuro d’aver vinto legalmente e legittimamente – ha detto e ripetuto l’avvocatessa in più d’una interviste televisiva – perché ha tanta paura di dimostrarlo?”. E se questo non basta, si possono sempre riascoltare, per ridere ancora, le denunce – poche decine di nomi, ma ripetuti all’infinito – che, lanciate su Fox News dai più intransigenti commentatori trumpiani, riguardano i “morti che votano”. Giusto ieri, uno di questi megafoni televisivi, Tucker Carlson, ha dovuto scusarsi in diretta televisiva con un’anziana signora della Pennsylvania, da lui arbitrariamente inserita nella lista dei defunti.

La risata, però, si strozza in gola quando si esaminano le cifre che fanno da sfondo a questo circo. Un sondaggio condotto in questi giorni da YouGov e pubblicato da “The Economist” rivela come l’80 per cento dell’elettorato repubblicano si riconosca nel film – per l’appunto, la sgangherata replica in forma di “cinepanettone” di Viale del tramonto – messo in scena da Donald Trump e dai suoi avvocati. Ovvero: come sia convinto che le elezioni siano davvero state fraudolente. E se si considera che Donald Trump ha sì perduto – e perduto senza rimedio – la corsa presidenziale, ma ha anche ottenuto più di 72 milioni di voti, ciò significa che quasi 60 milioni di americani credono che i risultati elettorali siano stati alterati. O meglio (e più in sintonia con Trump-pensiero): significa che sono disposti ad accettare, a prescindere da ogni considerazione sulla legalità del voto, soltanto un risultato che veda vincente la propria parte politica. Joe Biden ha vinto e Donald Trump ha perso. Ma quello che si profila dietro questo inequivocabile risultato finale è in realtà, con macabro nitore, il divorzio d’una parte d’America – minoritaria ma enorme – dalle regole e dall’etica della democrazia. Il Partito Repubblicano non esiste più. Esiste il Partito del culto di Donald Trump, punto d’arrivo d’una trasfigurazione che, cominciata in anni lontani, con la “southern strategy” di Richard Nixon, ha infine trovato nel palazzinaro bancarottiere il suo “uomo della provvidenza”. Per questo Partito Repubblicano, la democrazia rappresenta oggi non un valore, ma un ostacolo.

Riassumendo: con il voto del 3 di novembre – e grazie alla più alta affluenza alle urne degli ultimi cento anni – la democrazia americana ha salvato sé stessa negando un secondo mandato ad un presidente che, per quattro anni, l’ha vilipesa e ferita governando con lo stile, le parole, i gesti, i pensieri e la grottesca inettitudine d’un dittatore bananero. Ma – vale la pena ripeterlo – non ha ripudiato, nella misura e nei termini che molti speravano, quel che, al di là delle sue caricaturali performance, Donald Trump davvero ha incarnato nel suo quadriennio di presidenza. Si calcola che, quando anche l’ultimo voto sarà stato contato, Joe Biden potrà vantare, su Donald Trump, un più che significativo vantaggio tra i sette e gli otto milioni di voti su scala nazionale, pari a più o meno quattro punti in percentuale. Molti, ma molti meno dei 17,7 punti che, nel 1932, sullo sfondo della Grande Depressione, separarono Herbert Hoover da Franklin Delano Roosevelt. O ai 10 punti con i quali, a preludio della cosiddetta “rivoluzione neoliberale” e di uno storico riallineamento della geografia politica Usa, nel 1980 Ronald Reagan sconfisse Jimmy Carter.

Facendo sfoggio d’un’altra e meno universalmente nota metafora hollywoodiana, qualcuno ha in questi giorni riesumato, per spiegare il Trump di queste ore, un film horror di discreto successo di fine anni ’90: “Sesto senso”. Qualcuno ricorderà: in quel film il protagonista (Bruce Willis) era già morto, ma non lo sapeva. Così come Trump già ha perso, ma non lo sa. E, se lo sa, si rifiuta di ammetterlo. L’horror della pellicola sta, in questo caso – all’opposto dell’originale – proprio nel fatto che il protagonista, Donald J. Trump, morto non è affatto. Certo, il prossimo 20 di gennaio dovrà, volente o nolente, lasciare la Casa Bianca (qualcuno avanza la possibilità d’un colpo di Stato teso ad evitare il trasloco, ma si tratta ovviamente di fantasie. La democrazia Usa è malata, ma non fino a questo punto). Che cosa accadrà di lui, fuori dalle protettive pareti della Casa Bianca, non è facile prevedere, specie se si considera che i suoi conti aperti con la Giustizia ammontano, tra reati finanziari e accuse d’assalto sessuale, a più d’una dozzina. Molti, in un eccesso d’ottimismo, lo sognano in carcere. Altri lo vedono – come già accaduto a più d’un politico caduto in disgrazia – come concorrente in “Ballando con le stelle”. Ma, essendo il Trump ballerino anche più ridicolo del Trump presidente, si tratta naturalmente di barzellette. La cosa più probabile – e Trump già ha cominciato, per questo, una raccolta di fondi ventilando la possibilità della creazione d’un proprio conglomerato mediatico – è che prepari la sua rivincita, sventolando la bandiera della “vittoria rubata” (uno slogan, questo, che certo ricorda qualcosa a chiunque abbia studiato l’avvento del fascismo in Italia), alla testa di quello che è ormai, a tutti gli effetti, un movimento reazionario ed antidemocratico di massa.

Trump ha perso, il trumpismo vive. E questo non è né un drammone hollywoodiano, né un cinepanettone trumpiano. È, semplicemente, una tragedia storica. Una tragedia che continua.

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