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Sisifo a Tegucigalpa

11 novembre 2009

 

di M.C.

 

Assomiglia sempre più alla mitica “fatica di Sisifo” il tentativo di risolvere per vie diplomatiche la crisi honduregna. Come Sisifo, infatti, la comunità internazionale – dall’Osa, alla “commissione di verifica” recentissimamente aggregatasi sotto la guida dell’ex presidente cileno Ricardo Lagos – spinge il macigno d’un possibile accordo fin quasi alla cima della montagna. Ed è a quel punto – il punto cruciale della fine della salita – che, per dirla con Omero, la “rupe maligna” tutto travolge tristemente e fragorosamente rotolando fino al punto di partenza.

Quale sia questo punto di partenza è a tutti noto: l’alba del 28 giugno. Ovvero: il momento in cui, circondato il palazzo presidenziale, i comandi militari honduregni prelevano il presidente eletto, Manuel Zelaya, detto Mel, e, ancora in pigiama, lo “esiliano” nella vicina Costa Rica. Un classico golpe militare che – seppur originato da una crisi istituzionale molto complessa e nella quale tutt’altro che impeccabili sono apparsi i comportamenti del medesimo Zelaya – riporta l’intero continente latinoamericano indietro d’un paio di decenni , ai tempi tenebrosi in cui – sullo sfondo della Guerra Fredda e della lotta al comunismo – l’intervento dei militari nella vita politica era, sotto i buoni auspici del “grande vicino del nord”, pressoché la regola. Risultato: l’unanime ripulsa di una “asonada militar” che sebbene avvallata da tutte le istituzioni “civili” del paese (dalla Corte Suprema di Giustizia al Congresso) apertamente viola la Carta della Organizzazione degli Stati Americani, nonché il più elementare senso della decenza democratica.

Mel Zelaya, affermano all’unisono tutti i paesi dell’Organizzazione degliStati Americani e l’Assemblea delle Nazioni Unite – deve essere reintegrato nella carica alla quale era asceso per voto popolare. Ed è partendo da questo ovvio principio – non negoziabile – che il presidente del Costa Rica, Oscar Arias elabora, una settimana dopo l’espulsione del legittimo presidente, le linee di un possibile accordo (per l’appunto, il cosiddetto Accordo di San José). Punti principali di questo accordo (oltre, naturalmente, al ritorno di Zelaya alla presidenza): formazione d’un governo di unità nazionale, rinuncia, da parte di Zelaya, ad ogni ipotesi di referendum costituzionale (vale a dire al progetto che aveva provocato la crisi istituzionale precedente al golpe) ed organizzazione sotto controllo internazionale delle elezioni presidenziali previste per fine novembre. Elezioni che – se tenute in un contesto di ristabilita legalità democratica – vengono giustamente individuate, dai più, come la più ovvia e “naturale” uscita dalla crisi.

Questo è il macigno che la comunità internazionale ha – seppur con qualche contraddizione e con molto “asimmetrico” impegno – tentato di spingere verso una cima che non ha, fin qui, potuto raggiungere. Perché? Nel caso di Sisifo, fondatore e primo re di Corinto, le ragioni del sempiterno fallimento erano chiare. Trattavasi della vendetta di Zeus, irritato dal fatto che il medesimo Sisifo aveva, con la sua sagacia, osato sfidare il potere degli dei. Nel caso dell’Honduras non vi sono, invece, né dei né sagacia, ma solo la mentalità da giocatore delle tre tavolette con la quale il governo “de facto” ha fin qui cercato d’evitare di fare i conti con il punto fermo di ogni trattativa: il ritorno di Zelaya. Sono ormai mesi, infatti, che l’accordo di San Josè sembra sul punto di raggiungere la cima – e la scorsa settimana questo raggiungimento era addirittura già stato celebrato, con champagne e tutto il resto – per poi bloccarsi contro quest’ultimo sassolino e riprecipitare a valle. Grande (o, per meglio dire, piccolo ma persistente) protagonista di questo gioco, il presidente “de facto” Roberto Micheletti, personaggio in perenne conflitto con la sintassi castillana (i suoi comunicati sono, perlopiù, una sommatoria di strafalcioni) e con l’onestà d’intenti. In breve: un furbacchione di basso calibro alla prese con una situazione che di basso calibro non è affatto. Ed è proprio in questo contrasto che va trascinandosi – aggravandosi di giorno in giorno – la tragedia honduregna.

Ogni volta che il principale nodo d’ogni accordo – il ritorno di Zelaya alla presidenza – è arrivato al pettine, Micheletti ha detto o, più spesso, fatto qualcosa che rendeva questo ritorno impossibile. Anzi: qualcosache patentemente e sfacciatamente negava che questo ritorno fosse stato concordato. E, nell’utimo caso, questo qualcosa – la nomina di un governo di unità nazionale presieduto dallo stesso Micheletti, prima che il Congresso venisse convocato per votare il reintegro del presidente legittimo, – ha addirittura assunto i contorni d’una sorta di comica finale.

Ci si chiede: fino a quando può durare una tanto grottesca rappresentazione? La comunità internazionale ha reagito all’ultimo trucchetto da baraccone di Micheletti , come ha sempre fatto finora. Vale a dire: invitando le parti a riprendere i negoziati per riempire i vuoti e chiarire i punti (peraltro già chiarissimi) che hanno consentito al presidente “de facto” di rigirare la frittata a suo piacimento. Ma il tempo stringe. Micheletti  ha fin qui goduto del granitico (e, per molti versi sorprendente) appoggio di tutti gli apparati istituzionali, dalla Corte Suprema, al Congresso, alla magistratura, alle forze armate, per non dire dei due partiti storici (il liberale ed il nazionale) e degli organismi che presiedono ad un’economia di natura oligarchica. E quest’appoggio – il medesimo blocco politico-sociale che ha fatto da base al golpe, ha consentito ad un personaggio al tempo stesso mediocre ed astutissimo di far fronte alla pressione interna delle proteste di piazza ed a quella delle comunità internazionale. Micheletti sta, con tutta evidenza, cercando di guadagnar tempo. Ossia: di arrivare alle elezioni senza che il ritorno di Zelaya si sia compiuto. Sperando che la comunità internazionale, finisca, in qualche modo, per accettare il fatto compiuto.

Un gioco pericoloso. O, per meglio dire, il tipico gioco chi – come Roberto Micheletti – è furbo, ma non intelligente. Dovesse l’Honduras arrivare ad elezioni la cui validità non fosse riconosciuta da tutte le forze politiche e sociali – incluse, ovviamente, quelle che continuano a protestare nelle piazze – e dalla comunità internazionale, sarebbe un disastro. Ed il tempo per evitare questo disastro si va drammaticamente accorciando. Volendo parafrasare una delle più celebri (e, a suo tempo, nefaste) massime di Ted Roosevelt: se davvero vuol dimostrare che i tempi sono cambiati, è tempo che Obama – che ha fino ad oggi indiscutibilmente parlato con voce gentile(speak softly) – cominci  ad usare il grande bastone (big stick) che stringe tra le mani…

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