29 giugno 2009
Di M.C.
Si riapre, in America Latina, la stagione dei golpe militari. O meglio: si apre, apparentemente all’insegna d’una classica “asonada militar”, una stagione politica completamente nuova. Nuova e, nella sua novità, in grado di mettere alla prova la sostanza d’una politica – quella di Obama nei confronti del vecchio “cortile di casa” degli Stati Uniti d’America – fin qui dipanatasi, con grande eloquenza, ma anche con grande leggerezza, ai margini degli eventi. Quel che è accaduto è noto: il presidente dell’Honduras José Manuel Zelaya Rosales, detto “Mel”, è stato prelevato all’alba da un commando militare – pare su ordine del Tribunal Supremo de Justicia – e trasportato in aereo, ancora in pigiama, nella vicina Costa Rica. Il tutto, mentre il Congresso, all’unanimità, provvedeva a deporlo – o meglio ad accettare dimissioni che Zelaya mai si era sognato di rassegnare – solennemente nominando, come nuovo capo di Stato ad interim, Roberto Micheletti, fino a quel momento presidente del Congresso medesimo. Insomma: una “storia d’altri tempi”, come non pochi si sono affrettati a battezzarla, subito provvedendo a ricordare come l’ultimo golpe conclusosi con successo in questa parte del mondo – un “auto-golpe” nel caso specifico – risalisse al lontano 1992, quando il presidente peruviano democraticamente eletto, Alberto Fujimori, sciolse il parlamento con l’aiuto delle forze armate. Questa volta le cose sono andate in diametralmente modo opposto . Ovvero, è stato il Parlamento a deporre il presidente con il consenso del potere giudiziario e con l’aiuto dei militari. Ma – come si usa dire – cambiato l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Golpe fu quello di Fujimori. Golpe è quello che, domenica, ha abbattuto l’honduregno Mel Zelaya.
E tuttavia, per comprendere quanto poco tradizionali – quale che sia l’ordine dei fattori – siano in realtà stati gli eventi consumatisi nelle ultime ore nel più povero dei paesi latinoamericani (solo la tragica Haiti vanta un reddito pro-capite inferiore), bisogna leggere quel che lo stesso Manuel Zelaya, poche ore prima della sua caduta, aveva dichiarato al quotidiano El País. Era sabato notte, quando la tensione politica provocata dalla convocazione del referendum (e dalla conseguente crisi istituzionale) sembrava essersi parzialmente allentata: “Guardi, bisogna esser giusti – aveva detto Zelaya -. Qui tutto era pronto per il golpe se l’ambasciata degli Stati Uniti lo avesse approvato….stia attento a quel che le dico: se ora sono qui, seduto nel palazzo presidenziale, parlando con Lei, questo è grazie agli Stati Uniti d’America…”.
La prima sostanziale novità del golpe honduregno è dunque proprio questa. Con poche eccezioni – quella del generale Juan Velasco Alvarado in Perù, nel 1968, e quella che, nel 1992, vide l’attuale presidente venezuelano Hugo Chávez tentare senza successo d’abbattere, armi alla mano, il governo di Carlos Andrés Pérez – la parola golpe era stata, in passato, sinonimo di Stati Uniti. O, più esattamente: un riflesso – non di rado a tutti gli effetti “pavloviano” – dell’ordine imperiale esistente. Soprattutto in quella parte dell’America Latina che, come l’Honduras, veniva (e tuttora viene) definita “Chiquitaland”, semplice appendice, come una volta disse il Che, degli interessi del “dopocena” – banane, zucchero, caffé – dei grandi padroni del nord. Il golpe in Honduras ci dice (o ci conferma), paradossalmente, proprio questo: che, ormai da tempo, le “repubbliche delle banane” non esistono più. E che, in qualche misura, non esiste più neppure l’Impero. O, quantomeno, “quell’Impero”. Quello dei golpe decisi negli uffici della United Fruit e gestiti dai “gorilla” – o dai “nostri figli di puttana” (“our sons of a bitch”) di rooseveltiana memoria – allevati all’uopo nella famigerata “School of the Americas”.
Il caso di Zelaya non è facile da analizzare. Perché, da un lato c’è il risveglio della democrazia – quella vera fatta di partecipazione popolare e non solo di regole formali – in un paese dove il 70 per cento della popolazione vive in povertà. E, dall’altro, c’è la forma pasticciata, improvvisata, demagogica ed ambigua con la quale Manuel Zelaya ha, negli ultimi due anni, cercato di dar corpo a queste aspirazioni. Riuscendo, nel tragitto, a destare più che legittimi sospetti di derive autoritarie “alla Chávez”, senza per questo guadagnarsi – lui che è, a tutti gli effetti, un esponente della vecchia elite politica liberal -nazionale – la fiducia delle masse di diseredati a nome dei quali ha negli ultimi tempi (e quasi sempre malissimo) preteso di parlare. Il Manuel Zelaya che, domenica mattina, è stato deposto con la forza era, a tutti gli effetti, un uomo terribilmente solo. E nella sua solitudine – abbandonato com’era da tutti, compreso il partito liberale di cui era formalmente il capo – neppure confortato dalla nobiltà dei suoi intenti. Il progetto di riforma costituzionale che lo ha messo in rotta di collisione con tutti gli altri poteri dello Stato era, a dir poco, fumoso ed inconcludente. Una promessa di rigenerazione priva di sostanza e di forza gravitazionale, di fatto incentrata attorno ad un solo (e non propriamente “rivoluzionario”) punto fisso: quello della rielezione presidenziale.
Obama s’è immediatamente associato alla condanna del golpe. E, significativamente, il nuovo presidente “usurpatore”, Roberto Micheletti (fino a qualche mese fa considerato uno dei migliori alleati di Zelaya) ha immediatamente associato lui a Chávez ed a tutti coloro che – ha detto nel suo discorso inaugurale – vogliono “interferire negli affari interni dell’Honduras”. L’Impero (quello che proprio Hugo Chávez ancor oggi maledice in ciascuno dei suoi maratonici discorsi, e quello che, negli anni ’80, usò l’Honduras come “portaerei terrestre” per i suoi attacchi al Nicaragua sandinista) non esiste più. Ma esiste Hugo Chávez. Esistono le forze tenebrose che hanno rovesciato Zelaya. Ed esistono Lula e l’emergente forza economica del Brasile. Esiste il problema di Cuba e del dopo-embargo. Esiste l’Argentina che – stando al voto di domenica – sembra avere già avere imboccato la via d’uscita dal “kirchnerismo”. Esistono fermenti e novità, luci ed ombre, di fronte alle quali quel che resta dell’Impero – quello che non può più continuare ad essere Impero – ancora non ha definito, al di là della retorica del “nuovo inizio”, una vera politica. Il golpe in Honduras è, per Obama, la prima vera prova di leadership, al sud del Rio Grande. Vedremo come andrà finire.