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Friday, October 11, 2024

Costituzione fu

“Il Venezuela ha bisogno di pace e di dialogo per andare avanti. E noi diamo il benvenuto a tutti coloro che vogliono sinceramente aiutarci a raggiungere questi obiettivi”. Con questo molto conciliante capoverso si chiude l’op-ed (editoriale d’opinione) che il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro Moro, ha pubblicato ieri sul New York Times. Parole sante, verrebbe da dire. Sante al punto che, nel nome della pace e del dialogo che Maduro con tanta mansuetudine invoca, ben si potrebbe sorvolare sulle numerose inesattezze e sulle molte ipocrisie che, seguendo le linea della propaganda oficialista, l’erede del comandante eterno Hugo Chávez generosamente offre ai suoi lettori di lingua inglese.

Si potrebbe e, in qualche misura, si vorrebbe sorvolare. Ma in realtà non si può. Perché, proprio mentre Maduro dava alle stampe il suo molto ponderatamente ipocrita editoriale per il Times (nel quale, tra l’altro, con toni molto turbati denunciava come “l’unica meta di chi protesta” sia quella di “provocare la caduta del governo democraticamente eletto”), in quel di Caracas la Polizia Nazionale Bolivariana provvedeva – con l’impiego di almeno quaranta mezzi blindati ed un abbondante uso di gas lagrimogeni – a paralizzare l’intero centro della metropoli, per impedire ad un’altra persona democraticamente eletta, la deputata María Corina Machado, l’accesso alla sede della Assemblea Nazionale. E soprattutto perché, nella sua quasi surreale brutalità, quest’episodio può a buon diritto esser considerato (volendo usare la stessa lingua dell’editoriale di Maduro) “the last nail in the coffin”, l’ultimo chiodo che sigilla la bara nella quale giacciono i corpi in putrefazione della Costituzione del 1999 (sì proprio lei, quella del libretto azzurro che i figli dell’eterno amano agitare come simbolo della loro rivoluzione) e, più in generale, dello stato di diritto. O, se si preferisce, l’ultimo atto d’un lungo funerale: quello della democrazia venezuelana. Vale la pena raccontarlo.

Perché e come María Corina Machado – che tra l’altro è la deputata dell’An che vanta, in assoluto, il maggior numero di voti di preferenze – ha perso il suo seggio parlamentare? La storia è di vecchia data. Da sempre una delle più aggressive e radicali esponenti dell’opposizione (vedi video), María era da tempo, dichiaratamente, nel mirino del presidente dell’Assemblea, il potentissimo capitano Diosdado Cabello, un chavista della prima ora (partecipò al tentato golpe del ’92) che molti (io credo a ragione) ritengono il vero “uomo forte” del regime (in effetti, un vero e proprio gorilla, nel senso che la più triste tradizione golpista latinoamericana attribuisce a questo termine. Ma tornerò sul tema in un altro post).

Contro la Machado, Diosdado aveva già irosamente aperto, settimane fa,  una procedura tesa a privarla dell’immunità parlamentare, affinché potesse essere giudicata, come merita, per “tradimento alla patria” e “terrorismo”, sulla base di “prove inoppugnabili”. Inoppugnabili, ovviamente, come inoppugnabili sono state, in questi 15 anni, tutte le prove dei golpe, magnicidi e cospirazioni varie denunciate, prima dal comandante eterno e poi, in rossiniano crescendo, dal suo apostolo e figlio, Nicolás Maduro. Di fatto, nulla più della registrazione d’una telefonata nella quale la Machado non fa che ribadire le cose che, da anni, va apertamente dicendo in ogni sede. Ovvero: l’esigenza d’una opposizione più decisa ad un regime che considera una dittatura. Nessun accenno a golpe o a violenze di sorta. Unico vero reato prefigurabile in quella registrazione: la registrazione stessa, ovvia e del tutto illegale violazione del diritto alla privacy. Questo, naturalmente nel caso che fosse ancora la legge a definire, in Venezuela, che cosa sia un reato.

Avendo il regime il totale controllo del Tribunale Supremo di Giustizia (e, in effetti, di tutta la magistratura), il destino della Machado era a questo punto – prove o non prove – comunque segnato. Ma capitan Diosdado ha da par suo trovato il modo di risparmiare a se stesso e al Paese il fastidio di procedure che potevano rivelarsi spiacevolmente lunghe e non prive di ostacoli (il Psuv, partito di governo, non ha in Parlamento la maggioranza qualificata necessaria per espellere un deputato). Come? Essendo i limiti di spazio concessi ad ogni post molto rigorosi, ed essendo la vicenda – pur semplicissima nel suo essenziale significato – ancora abbastanza lunga e ricca di risvolti, devo, a questo punto, come si usava nei vecchi fumetti, fare ricorso alla classica formula: “sarà ciò che saprete alla prossima puntata”.

La storia, insomma, continua. E non si prevede alcun “happy ending”.

——-

C’eravamo lasciati con una domanda: in che modo capitan Cabello ha espulso dall’Assemblea Nazionale la deputata María Corina Machado? L’ha fatto (come qualche commentatore già ha anticipato) invocando un articolo della Costituzione, il 191, che testualmente afferma: ‘I deputati e le deputate non potranno accettare o esercitare incarichi pubblici, senza perdere la propria investitura, salvo in attività docenti, accademiche, occasionali o di servizio, sempre che non richiedano dedicazione esclusiva’.

Sono queste le parole che, giorni fa, hanno provocato – per una decisione del presidente della AN, a brevissimo giro di posta avallata da un’inappellabile sentenza della sezione costituzionale del Tribunale Supremo – la ‘immediata’ decadenza dal mandato parlamentare della Machado. La più votata dei membri della Assemblea Nazionale ha perduto il suo seggio perché pochi giorni prima, a Washington, s’era presentata di fronte al Consiglio permanente della Organizzazione degli Stati Americani per denunciare quella che considera, in sintonia con una non piccola parte dell’opinione pubblica del suo paese, la deriva autoritario-dittatoriale del governo venezuelano. E soprattutto perché per farlo (o meglio, per non farlo, visto che il catenaccio procedurale frapposto da Venezuela & Friends glielo aveva di fatto impedito) aveva accettato il seggio per l’occasione cedutogli dal governo di Panama.

Dura lex, sed lex, come già si sono premurati d’affermare, nei loro commenti, alcuni ‘pasdaran’ del chavismo? Non esattamente.

Che quanto accaduto a Washington rientri nella normativa delineata dal 191, è infatti – come qualunque persona raziocinante non può non constatare – questione quantomeno controversa. Tanto che, interpellato sulla vicenda, lo stesso segretario dell’OAS, Miguel Insulza, s’era giorni fa premurato di sottolineare come la Machado si fosse rivolta al Consiglio Permanente nelle sue vesti, non di funzionaria panamegna, bensì, a tutti gli effetti, di deputata venezuelana. E questo seguendo una pratica già collaudata in molte altre circostanze. L’ultima, nell’anno del signore 2009, quando, ai tempi del golpe contro Manuel Zelaya, Patricia Rodas, ex-cancelliere honduregna, era intervenuta grazie alla ospitalità concessale proprio dal governo venezuelano. O come accadde nel lontano’79, quando la stessa Panama offri il proprio seggio al rappresentante nicaraguense del FSLN. Tutte cose che lasciano intendere come, in realtà, María Corina Machado non abbia mai, né accettato, né esercitato alcun ‘incarico’ assegnatole dal governo di Panama. E comunque – anche qualora si volesse contro ogni evidenza sostenere che l’abbia fatto – come questo incarico fosse, ai sensi, per l’appunto,dell’articolo 191, del tutto ‘occasionale’.

Il punto vero, o meglio, il vero scandalo non sta tuttavia nella ridicola interpretazione che di quell’articolo hanno dato prima capitan Cabello e, poi, con molto supina rapidità, il Tribunale Supremo. L’orrore della vicenda sta – come dovrebbe essere a tutti evidente – nel fatto che alla deputata espulsa, innocente o colpevole che sia, è stata in termini vergognosi negato quel diritto al giusto processo che, ovunque esista un minimo di civiltà giuridica, è alla base d’ogni Costituzione. María Corina Machado è stata privata del diritto alla difesa, condannata senza processo. E, per di più, condannata dal suo medesimo accusatore: quel capitano Diosdado Cabello che a sua volta – i dettagli grotteschi non fanno mai difetto nel Venezuela dell’ ‘eterno’ Hugo Chávez – si porta addosso, in guisa di grado militare, le prove del suo assoluto disprezzo per le norme costituzionali. Senza che il TSJ dicesse ‘bah’, s’è infatti recentemente di fatto autopromosso, il Cabello, da tenente a capitano, in barba agli articoli costituzionali che affermano che i militari in servizio attivo non possono avere incarichi politici (il che implica che se incarichi politici hanno, non possono considerarsi in servizio attivo e, conseguentemente, ottenere alcun elevamento di grado).

Questa sentenza senza processo del Tribunale Supremo – che, per l’occasione, neppure s’è preoccupato di salvare le forme, esibendosi nel più servile degli inchini di fronte a Cabello, uomo forte del regime – suggella la morte, già da tempo consumatasi, dell’indipendenza del potere giudiziario e dello stato di diritto. Ed è il punto d’arrivo d’una parabola infame lunga, in pratica, quanto i quindici anni di chavismo. Qualche ricordo sparso.  2006, inaugurazione dell’anno giudiziario. I giudici del TSJ – e quelli ordinari, presenti in platea – che in piedi (vedi video) salutano l’ingresso del comandante supremo scandendo lo slogan ‘uh, ah, Chávez no se va. 2009: la presidente del TSJ, Luisa Estela Morales, che apertamente teorizza, subito applaudita dall’ ‘eterno’, come ‘la divisione dei poteri’ debiliti ‘lo Stato rivoluzionario’. Anno 2012: la stessa Luisa Estela Morales che, nel suo discorso per la inaugurazione dell’anno giudiziario, solennemente s’impegna a sviluppare, sul fronte giudiziario, il ‘piano socialista della Nazione’ (di fatto la piattaforma elettorale del partito di governo). Con un altro dei giudici della suprema corte, Arcadio Delgado Rosales, che, approfondendo il tema, non esita a spiegare, nel suo discorso, come la fine della divisione tra i poteri si giustifichi  alla luce della dottrina di Carl Schmitt, teorico dello ‘stato totale’ al quale si ispirò il nazismo.

Una storia vecchia. Una storia che continua….

——–

Che cosa voleva dirci il ‘comandante eterno’ Hugo Chávez quando levava al cielo, come una fiaccola fonte di luce perenne, il libretto azzurro della Costituzione Bolivariana del 1999? E che cosa ci dicono oggi i suoi ‘figli’ ed ‘apostoli’ quando, con identico fervore, compiono il medesimo gesto? Una cosa molto semplice: ‘questa è mia, e di lei faccio quel che mi pare’. Una decina di giorni fa all’apostolo Diosdado Capello, presidente della Asamblea Nacional, è ‘parso’ che la deputata María Corina Machado, eletta con il più alto numero di preferenze dell’intera assemblea, dovesse esser privata del suo seggio. E così è all’istante stato, senza che all’espulsa fosse concesso di dire ‘bah’ a propria difesa. Il tutto alla faccia degli articoli costituzionali che garantiscono il diritto al ‘giusto processo’ (il 49) e che impongono (il 187, comma 20) super-qualificate maggioranze per decretare il decadimento d’un deputato eletto. Nonché, naturalmente, con il quasi immediato avallo (un vero e proprio ossequiente inchino, in effetti) del Tribunal Supremo de Justicia. Ovvero: dell’organismo che, dalla Costituzione previsto come gran sentinella del rispetto dei suoi principi e del suo spirito, è nei fatti diventata – da quando, nel 2004, il ‘comandante supremo’ l’ha riformata ed imbottita di suoi fedelissimi – zelantissimo garante della impunità di quanti la vanno, a loro piacimento e con ostentata sfacciataggine, stuprando in ogni sua parte.

Il caso della Machado è infatti, volendo parafrasare un celebre aforisma di Ennio Flaiano, certamente grave, ma non serio e, soprattutto, non nuovo. Solo qualche mese fa, quando Maduro chiese all’Assemblea d’approvare una ‘ley habilitante’ (vale a dire: di dargli il potere di legiferare per decreto), capitan Cabello trovò da par suo il modo d’aggirare, anzi, di frantumare l’articolo costituzionale che prevede, in questi casi, l’approvazione dei due terzi dell’Assemblea. Come? Prima liberando quest’ultima, grazie ad una serie di risibili d’accuse di corruzione (dal capitano presentate in Parlamento e subito avallate dal TSJ) dalla presenza dei deputati d’opposizione Maria Mercedes Araguren e Richard Mardo (entrambi dal capitano chirurgicamente scelti perché, guarda caso, erano gli unici della ‘bancada’ della MUD ad avere un supplente di fede chavista); e quindi forzando non solo la Costituzione, ma anche la matematica. Il voto finale contro Mardo fu infatti 97 a 68 (percentualmente 54 a 41) molto al di sotto dei due terzi richiesti dall’art. 187. Ma il capitano decise che andava bene così. Ed il TSJ (oh sorpresa!) immediatamente assentì.

Prima ancora c’era stata – quando l’ormai morente Chávez si trovava a Cuba in condizioni di salte mantenute rigorosamente segrete- la sentenza con la quale il TSJ d’autorità cancellò, come preventivamente richiesto da Nicolás Maduro, vicepresidente ed erede autentico del ‘supremo’, tutte le norme costituzionali che definivano le procedure nel caso d’impedimento permanente o temporaneo del presidente eletto. Come? Sentenziando che, a dispetto di tutti questi molto dettagliati articoli, Hugo Chávez sarebbe a tutti gli effetti restato, fino a quando lui stesso non avesse deciso il contrario, presidente della Nazione. Perché? Perché rispettare quegli articoli implicava informare l’opinione pubblica sul vero stato di salute di Chávez. Poco più tardi, morto Chávez, Il TSJ superò di nuovo se stesso, decidendo che, nel periodo precedente le nuove elezioni, l’incarico di presidente – che la Costituzione molto chiaramente affida al presidente della Asamblea Nacional e, in ogni caso, non a un candidato – dovesse essere ricoperto dal vicepresidente (e candidato presidenziale) Nicolás Maduro. Perché? Ovviamente perché l’erede designato da Chávez desiderava utilizzare, nel corso della campagna elettorale, le cosiddette ‘cadenas’. Vale a dire: la possibilità d’usare a suo piacimento i messaggi tv a reti unificate, privilegio, questo, concesso solo a chi è presidente.

Questo per fermarsi solo ai casi più recenti o, per meglio dire, agli ultimi anelli d’una catena che dipanatasi lungo l’intero quindicennio chavista, è passata per tre snodi fondamentali. Il primo è, per l’appunto, il totale asservimento del potere giudiziario. Le altre due riguardano quelle che, del potere, sono in Venezuela le principali sorgenti: le forze armate ed il petrolio. Le prime ridotte, contro la ‘neutralità’ sancita dalla Costituzione, ad una appendice (non solo politica, ma anche ideologica) del potere esecutivo. Come lo stesso Chávez s’è premurato di sentenziare nel febbraio del 2012. ‘Le forze armate sono chaviste – ha detto e ripetuto il ‘supremo’, applaudito dagli alti comandi – e se a qualcuno la cosa non piace, peggio per lui (‘duélale a quien le duela’). Il secondo, sottratto ad ogni controllo pubblico (come previsto dalla Costituzione) attraverso un trucco di bilancio, ed incostituzionalmente  dirottato, complice il solito TSJ, verso fondi di esclusiva ed assai opaca gestione del governo (alla faccia del ‘petrolio restituito al popolo’).

Questo è il Venezuela che il caso della deputata María Corina Machado è tornato a rivelare. Un paese che, forse, non è ancora una dittatura, ma che di certo non è più, e da tempo, una democrazia. Un paese derubato d’ogni legalità costituzionale, indispensabile base di quel ‘dialogo nazionale’ di cui ha un vitale bisogno per evitare una soluzione violenta della crisi che l’attraversa. Sarà possibile cambiare rotta? Io sono molto pessimista.

 

Originalmente pubblicato, in tre post separati, nel blog di Massimo Cavallini per Il Fatto Quotidiano

 

 

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