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Que muera Zapata

8 aprile 2010

 

Di Massimo Cavallini

 

Perché è morto Orlando Zapata Tamayo? Molte sono, com’è ovvio, le possibili risposte. Molte e, prevedibilmente, molto diverse. Per i dissidenti cubani, Orlando è morto perché stato ingiustamente imprigionato e maltrattato, abbandonato a se stesso ed alla crudeltà della sua condizione di recluso dopo che, a causa di quei maltrattamenti, era stato costretto a forme estreme di protesta.  Per Raúl Castro – che proprio in questi giorni, dopo il semi-pensionamento di Fidel, compie il suo secondo anno da presidente del Consejo de Estado y de Ministros – Orlando è invece morto, in ultima analisi, per colpa degli Stati Uniti. O meglio: è morto perché non è, a conti fatti, che parte d’un conflitto, l’ultimo caduto – non importa da quale lato della barricata – d’una guerra che, lunga ormai più di mezzo secolo, a Cuba è stata imposta dalla storica prepotenza del grande vicino del Nord. “Purtroppo – ha detto Rául ai giornalisti stranieri mentre la scorsa settimana accompagnava il presidente brasiliano Lula in visita ai nuovi impianti del porto del Mariel – in questo scontro con gli Stati Uniti abbiamo perduto migliaia di cubani. Il giorno in cui gli Usa si decidessero a convivere in pace con noi, tutti questi problemi cesserebbero”.  A Cuba, ha aggiunto il capo del governo e delle forze armate cubane, “non esistono prigionieri politici”. E gli unici detenuti torturati sono “quelli rinchiusi nella base di Guantánamo”.

Questo si è detto della morte di Orlando. E molte sono state le campane che, a destra e sinistra, hanno fatto immediata eco a questi contrapposti squilli di tromba. Per molti, Zapata Tamayo è, semplicemente, un martire. L’ultimo martire di quella specifica forma di tirannia che si chiama “comunismo”. Per altri non è, al contrario, che un poveraccio, un balordo semi-deficiente e violento, un piccolo criminale, un tipico  disadattato – un “muratore indisciplinato” lo ha definito nella sua pagina web, con macabra ed involontaria comicità, la rivista Latino America, diretta da Gianni Minà – cinicamente strumentalizzato da quanti, nella logica della “guerra” di cui sopra, sono alla ricerca, per l’appunto, di martiri da giocare contro Cuba e contro la sua rivoluzione assediata.

Chi ha ragione? In ogni risposta c’è, naturalmente, almeno un frammento di verità (o, per contro, almeno un frammento di menzogna). Perché è vero che Orlando Zapata Tamayo era – a dispetto delle smentite di Raúl e degli “amici di Cuba” – un detenuto politico o, più precisamente, uno di quei “prigionieri di coscienza” che, passati al rigorosissimo vaglio di Amnesty International, risultano condannati ed incarcerati esclusivamente per reati d’opinione.  E perché, in senso lato (molto lato, ma non del tutto improponibile) Orlando Zapata Tamayo è davvero l’ultimo caduto d’un conflitto di cui la Cuba di Castro – la Cuba che Orlando ha imprigionato, torturato ed ucciso – è a sua volta vittima. Dando agli Usa la colpa della morte di Orlando Zapata, Raúl Castro andava, ovviamente, ciurlando nel manico. Ma, a suo modo, non mentiva: lo scontro con gli Stati Uniti esiste. Esiste a dispetto della Storia e, se vogliamo, della logica. Ma esiste. E conferisce ad ogni avvenimento cubano una “eccezionalità” che, soprattutto a sinistra, complica ogni giudizio. La rivoluzione cubana è stata – e nonostante tutto ancora è – per l’America Latina e per il mondo, un grande episodio di liberazione, il momento cruciale d’una lotta che, per molti aspetti, ancora non s’è conclusa. In che modo vanno giudicate, dunque, dentro questa lotta, le violenze che la rivoluzione (o quel che resta della rivoluzione) commette contro la libertà?

Per rispondere in modo adeguato, occorre un minimo di coraggio. Ed avere coraggio significa, come sempre, partire dal punto che più fa male. Nel caso specifico, da ciò che, con illuminante semplicità, Reyna Tamayo, la madre di Orlando, ha detto commentando  la morte del figlio. “Mio figlio è morto – sono state le sue parole – perché chiedeva al governo lo stesso trattamento che Batista aveva garantito a Fidel Castro”. Un parallelo blasfemo, quest’ultimo, se giudicato nell’ottica della mistica rivoluzionaria che, a Cuba, è verità di Stato. E proprio perché blasfemo, crudelmente, implacabilmente appropriato.

I fatti di riferimento sono stranoti. Fidel Castro era stato, nel luglio del 1953, protagonista d’un attacco armato contro il cuartel Moncada di Santiago (60 attaccanti e 22 soldati morti). Quindi, sopravvissuto alla battaglia – ed ancor più alla lunga serie di feroci esecuzioni extragiudiziali che alla battaglia erano seguite – era stato condannato a quindici anni da scontarsi nel Presidio Modelo della Isla de Pinos, sulla base d’un regime carcerario relativamente blando. Fidel era rinchiuso in una parte del carcere riservata ai detenuti politici ed aveva, tra le altre cose, il diritto di cucinarsi il proprio cibo (un aneddoto vuole che proprio lì abbia imparato a preparare il suo piatto preferito, i gamberetti all’aglio). Dopo due anni, grazie ad un’amnistia generale, era quindi tornato libero. Orlando Zapata Tamayo – 42 anni d’età, negro, di professione muratore e idraulico – non ha, invece, organizzato alcun attacco armato. Ed in carcere era finito perché, nella primavera del 2003, aveva in modo del tutto pacifico partecipato ad una protesta contro i fatti del cosiddetto “marzo negro” (75 dissidenti , tutti considerati da Amnesty, anch’essi, “prigionieri di coscienza”, arrestati e condannati a pene detentive tra i 18 ed i 28 anni di carcere).

In questi giorni, gli organi ufficiosi ed ufficiali del castrismo (vedasi, a tal proposito, il video del servizio trasmesso dalla televisione cubana l’articolo pubblicato dal Granma a firma Enrique Ubieta Gómez e infine la “riflessione, che Fidel Castro ha dedicato alla visita di Lula) vanno – in varie lingue e con prevedibile zelo – illustrando i gravi crimini che il reo (un comunissimo reo, anzi, una sorta di delinquente per natura) avrebbe commesso negli anni d’una (bruciata, bruciatissima) gioventù. Ma resta il fatto che l’ultima volta che Orlando ha varcato la porta del carcere, è stato per questo: per reati che, giudiziariamente definiti “desacato” (vilipendio), “disordine pubblico” e “disubbidienza”, sono tipici reati d’opinione. Ovvero: non-reati, per chiunque abbia, almeno in parte, assorbito la lezione dell’Illuminismo. Ed è un fatto – un incontrovertibile fatto – che gli iniziali tre anni di condanna si sono poi più che decuplicati (fino ad arrivare a 36 anni) per un’altra semplicissima ragione. Perché, avendo Orlando chiesto di essere considerato un prigioniero politico – vale a dire: per aver chiesto al governo “lo stesso trattamento che Batista aveva garantito a Fidel Castro” – quel “muratore indisciplinato” s’era reso responsabile di altri “vilipendi”, di altri “pubblici disordini” e di altre “disubbidienze”. Ed era stato per questo, non solo  condannato e ricondannato, ma anche – a quanto si dice ed in piena conformità con quella che nelle carceri di massima sicurezza cubane è la norma – picchiato, isolato, umiliato. “Le guardie lo pestavano e lo chiamavano ‘negro’ – racconta Manuel Cuesta Morúa, anche lui negro e dissidente – perché uno dei dogmi non sempre inconsapevolmente razzisti della rivoluzione cubana è che i negri devono tutto alla rivoluzione. E che, pertanto, se alla rivoluzione si ribellano, sono due volte colpevoli…”.

Nella Cuba rivoluzionaria, ha detto Raúl Castro, non si è mai torturato nessuno. Ed ha ragione. La stessa ragione che aveva George W. Bush quando, da par suo, andava affermando che negli Usa non si pratica la tortura, ma soltanto si usano, quando necessarie, “enhanced interrogation tecniques”, tecniche rafforzate di interrogatorio. A ciascuno il suo. La Cuba rivoluzionaria non strappa le unghie, né fa uso della picaña elettrica come avveniva ai tempi di Batista (e come è avvenuto, e forse tuttora avviene, in luoghi non troppo lontani geograficamente da Cuba, e certo molto politicamente vicini a quell’ “Occidente” tanto pronto a criticare le violazioni dei diritti umani che a Cuba si consumano).  A Cuba non esistono la vergogna delle esecuzioni extra giudiziali, gli orrori dei gruppi paramilitari e degli squadroni della morte. A Cuba non ci sono “desaparecidos”. Ma anche Cuba vanta le sue “tecniche rafforzate di repressione” . Le stesse che sono nel tempo diventate, più che forme giuridiche, una filosofia ed uno stile di vita, una sorta di permanente, obbrobrioso ricatto. Le stesse che – per tornare alle parole di Reyna Tamayo –  hanno negato a Orlando Zapata i medesimi diritti a suo tempo garantiti dal dittatore Fulgencio Batista al prigioniero Fidel Castro Ruz. Martire o burattino, eroe o delinquente comune, Orlando è morto per questo, assassinato da una verità che nessuna “guerra” – neanche quella, che pure esiste, con l’Impero del nord – può coprire o giustificare. Nata per liberare l’uomo, la rivoluzione cubana si è rivelata  molto più crudele con i suoi nemici – o quelli che, in un aberrante logica di sopravvivenza, percepisce come tali – di quanto non fosse a suo tempo stato il dittatore feroce e corrotto che aveva abbattuto.

In che cosa consistono queste “tecniche rafforzate di repressione”? Per descriverle occorre seguire una linea che parte dalla costituzione del ’75 – più specificamente dal suo art. 62, laddove si criminalizza ogni attività contraria “ai fini dello Stato socialista” – e che passa per una lunga serie di leggi che puniscono come “vilipendio”, “disordine”  e “disubbidienza” ogni tipo di protesta. O che addirittura – come nel caso della “Ley de Protección de la Independencia Nacional y de la Economia del Cuba” del 1999 – almeno potenzialmente elevano ogni manifestazione di dissenso al rango di “tradimento della Patria”. Per giungere, infine, a quella peculiarità cubana che è il reato (o pre-reato) di “Peligrosidad social pre-delictiva” (la “pericolosità sociale pre-delittiva”, punibile fino a cinque anni di carcere, ovviamente rinnovabili).

Quanta gente, a Cuba, finisce in carcere perché “socialmente pericolosa”?  E, soprattutto, quando e come una persona diventa, per il regime, socialmente pericolosa? In una recentissima indagine, il gruppo Human Right Watch ha ricostruito nei dettagli 40 casi di arresti e condanne per “peligrosidad”. Quaranta casi – una minuscola frazione della totalità – che possono essere efficacemente sintetizzati in uno solo: quello (risalente al luglio del 2006) di Alexander Santos Hernández, giudicato “pericoloso” per aver distribuito, in quel di Gibara, sua città di residenza, copie della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Arrestato mentre ancora dormiva, alle ore 5,55, Alexander è stato processato quella stessa mattinata a porte chiuse. Incominciato poco dopo le otto, il processo si è concluso prima delle 8,20, con una condanna a quattro anni di carcere. Nessun testimone,nessuna arringa di difesa. Era il cinque di luglio. Qualche mese dopo, quando, nel carcere di Kilo8, Alexander ha ricevuto il testo della sentenza ha guardato la data del documento: 3 luglio. A cuba, come si vede, sono già andati ben oltre il “processo breve” tanto agognato da Berlusconi…

Questa è la Cuba che, nell’anno secondo del regno di Raúl Castro, ha ucciso Orlando Zapata Tamayo. Quanti altri “muratori indisciplinati” – ci si chiede – dovranno morire prima che qualcosa cominci a cambiare davvero?

 

 

 

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