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Com’era verde la mia economia…

8 aprile 2010

di Massimo Cavallini

 

Com’era verde l’ economia di Barack Obama…Non v’è dubbio alcuno: di fronte al compito di fare il punto sulla politica ambientalista dell’Amministrazione Obama, oggi, 15 mesi dopo le emozioni l’Inauguration Day, ed a quasi 500 giorni dalla festosa notte del trionfo elettorale del primo presidente nero d’America , assai forte  è la tentazione d’aggrapparsi alla piuttosto scontata parafrasi del titolo d’uno dei più celebri e struggenti film di John Ford (per i non cinefili: “Com’era verde la mia valle”, cinque Oscar nel 1942). Gli elementi per sostenere un metaforico parallelo tra la storia narrata nella pellicola e quella che, nell’ultimo anno e mezzo, ci hanno raccontato le cronache politiche, sembrano, infatti, tutti al posto giusto. E, quel che più conta, tutti troppo invitanti e raggiungibili per essere trascurati da un giornalista alla ricerca di saporite citazioni. Le due vicende si sovrappongono, in effetti, alla perfezione, non tanto per i loro ovvi (e non poi tanto datati) aspetti tecnico-energetici  – che proprio il carbone fa da cupo sottofondo all’intero racconto – quanto per l’umano e paesaggistico intreccio della narrazione.

Tratta da un romanzo di successo di Richard Llewellyn, quella di “How Green Was My Valley” è, infatti, una storia di speculare disgregazione. O meglio: è la storia d’una famiglia di minatori, i Morgan, il cui progressivo disfacimento si specchia – in un succedersi d’amori e di tragedie – nell’abbruttimento della (un tempo verdissima) valle di Gilfach Goch, nella zona carbonifera del Galles.  Nella lotta tra uomini e carbone, a vincere – nell’originale racconto, come nel film – è infine il carbone, inteso come strumento di profitto e d’una astratta, disumana idea di progresso. Uno dopo l’altro muoiono, o se ne vanno, i Morgan. E muore, insieme ai Morgan, la verde valle che li aveva visti nascere e crescere. Restano, invece – eroi negativi e vincenti – il carbone ed suoi padroni… Non è forse accaduto lo stesso – ci si chiede – con la “green economy”, l’economia verde, che Barack Obama aveva promesso all’America ed al mondo? Non ha, forse, la pragmatica speranza che aveva accompagnato l’ascesa del nuovo presidente Usa – quel  molto invocato “change we can believe in”, quel cambio nel quale si poteva credere senza perdersi nei venti dell’utopia – seguito lo stesso destino di rapida decomposizione, pezzo dopo pezzo, morte dopo morte, partenza dopo partenza, della trama del film di Ford?

L’esame dei fatti sembra, di primo acchito, offrire un’inequivocabile risposta. Sì, la politica ambientalista di Obama si è essenzialmente nutrita, in questi 15 mesi, d’una serie, non di conquiste, ma di rinunce. Ed il tutto in un piuttosto triste (e, talora, addirittura sconfortante) rosario di abiure, cominciato lo scorso febbraio con la conferma della scelta nucleare (ovvero: con la decisione di finanziare l’apertura di due nuove centrali  nella contea di Burke, in Georgia); e coronato, appena una settimana fa, dalla decisione di aprire alla ricerca per possibili trivellazioni petrolifere gran parte della costa atlantica, del Golfo del Messico e del mare al largo dell’Alaska (uniche eccezioni: tutta la costa del Pacifico, l’Artic National Wildlife Refuge al nord e, al sud dell’Alaska, la Bristol Bay, considerata di grande importanza per gli equilibri ecologici). “Drill, baby, drill”, insomma. Così come, nel corso della campagna elettorale, usava gridare Sarah Palin, la molto” petrolifera” compagna di viaggio del candidato repubblicano John McCain. Trivella, baby, trivella. E vedrai che, sottoterra, o nel fondo degli Oceani, – alla faccia dei catastrofisti teorici dell’effetto serra, e di tutti coloro che hanno più a cuore la sopravvivenza di qualche pesciolino tropicale che il benessere del popolo – l’America ritroverà. infine, il santo Graal della propria indipendenza energetica ed il suo indiscusso predominio economico universale…

Ma davvero stanno così le cose? Davvero è bastato poco più d’un anno perché Barack Obama, l’uomo della “audacia della speranza”, il “più verde” dei presidenti americani, molto poco audacemente scivolasse – con appena la premura di qualche residuo “distinguo” – sulle posizioni dei suoi più acerrimi nemici antiambientalisti? E, se davvero questo è accaduto, come è potuto accadere? L’esame dei fatti porta, ovviamente, ad assai meno drastiche – o, quantomeno, a molto più dinamiche – conclusioni. Anche perché “drastico” è forse – quale che sia il tema in discussione – l’aggettivo che meno si adatta alla filosofia politica di Barack Obama. Ed è proprio il dibattito apertosi dopo la sua molto sofferta (ipse dixit) decisione di aprire le porte all’ “offshore drilling”, che meglio ci aiuta a comprendere i termini d’una battaglia che, certo, ha fin qui conosciuto – dal lato “verde” della barricata – quasi soltanto ritirate. Ma che ancora è ben lungi dall’essersi conclusa. Anzi: che in gran parte ancora deve essere combattuta.

Cominciamo dunque – per capire quale sia la posta in palio – dal vero punto di partenza. Vale a dire: chiedendoci che cosa in effetti sia,nel caso specifico, la Gilfach Goch Valley. Semplificando al massimo: la verde valle o, fuor di metafora, la “green economy” di Barack Obama, è, concettualmente, qualcosa di molto più d’una semplice politica di difesa ambientale. E molto di più, anche, del pieno riconoscimento – dopo il lungo medioevo ambientalista di George W. Bush – della centralità e della immediata urgenza del problema del “global warming”. La “economia verde”  nasce, in sostanza, dalla convinzione che la battaglia contro l’effetto serra e contro le emissioni di biossido di carbonio che la provocano, sia non solo un obbligo legato alla sopravvivenza del genere umano, ma anche una delle chiavi, o forse la principale chiave, di rilancio d’un economia trascinata fin sulle soglie d’una profonda depressione dai liberistici eccessi del suo settore finanziario. La economia verde è, in sintesi, il punto d’incontro tra i destini d’un pianeta che si surriscalda – un problema di tragica concretezza che, tuttavia, è non di rado vissuto dal proverbiale “uomo della strada” come una sorta di scientifica astrazione o, peggio, come un’esagerazione mediatica – e, diciamo così, i più immediati e percepibili problemi  d’una società bisognosa di lavoro e di sviluppo. Al centro della “green economy” c’è, a sua volta, una politica di riduzione delle emissioni (meno 17 per cento, rispetto al 2005, per il 2020, e meno 83 per cento per il 2050) che, conosciuta sotto il nome di “cap and trade”, assegna un “valore di mercato” alle eccedenze di biossido di carbonio e di altri gas nocivi, in questo modo incentivando l’uso (e quindi la ricerca) di fonti energetiche alternative. È qui, con il “cap and trade” che, nei piani di Obama, la rivoluzione della “economia verde” comincia. Ed è qui che la battaglia decisiva va combattuta.

Sicché questo è quel che è accaduto quando, la scorsa settimana, parlando ai militari della base militare Andrew, nel Maryland, il presidente ha annunciato la sua decisione di consentire, al largo di buona parte delle coste Usa, il trivellamento alla ricerca di petrolio o gas naturale. ” È una decisione che non prendiamo a cuor leggero” ha detto Obama. “Ma voglio enfatizzare il fatto – ha immediatamente aggiunto – che questo annuncio  è parte d’una più ampia strategia che ci porterà da un’economia alimentata da carburante fossile e petrolio di produzione straniera, ad un’economia che usa fonti domestiche ed energia pulita…”. Molti, alla sua sinistra, hanno gridato al tradimento. E qualcuno non ha perso l’occasione per irridere alle “omeopatiche” terapie obamiane, tese a combattere il petrolio con il petrolio. Altri – forse meno a sinistra, ma comunque ben dentro il campo ambientalista – hanno invece mostrato, se non d’apprezzare, quantomeno di comprendere il senso d’ una mossa destinata a “cedere una parte per mantenere il tutto”. Più in concreto: a concedere qualcosa a destra, per costruire, a sinistra, il sistema di alleanze necessario per far passare passabilmente intatta, attraverso le forche caudine del Congresso, la politica del “cap and trade”. Ossia: la politica chiamata a garantire la trasformazione strutturale di cui sopra.

Preso da un entusiasmo decisamente sopra le righe (o, quantomeno, decisamente prematuro), qualcuno ha, addirittura, usato il termine “geniale” per qualificare una decisione che, da un lato, ha concesso ai nemici della politica ambientale (non pochi dei quali nelle fila democratiche) una pirrica vittoria (tanto pirrica che, per alcuni esperti del settore, a conti fatti altro non è che una demagogica finzione: la macchina dell’ “offshore drilling” ha, infatti, bisogno di almeno un decennio per mettersi in moto, e solo una piccola minoranza dei possibili banchi di sfruttamento ha probabilmente, calcolati i più ed i meno dell’operazione, una vera valenza economica per le compagnie petrolifere); e che, dall’atro lato, ha (almeno nelle intenzioni) aperto la strada al passaggio d’una legge da par suo destinata a cambiare, a breve termine, l’intero modo di produrre negli Usa. E non v’é dubbio che in questa ricerca del più avanzato punto di compromesso, risalti – ben oltre la retorica della speranza e della sua audacia – un elemento che è da sempre parte essenziale del bagaglio politico d’un “centrista naturale” come Barack Obama. O, per meglio dire: di un uomo politico che concepisce il cambiamento come un punto d’incontro – e non di conflitto – tra diversi interessi.

Il punto è: funzionerà questo “centrismo”? Riuscirà infine il “cap and trade”, vero perno della “green economy”, a diventare legge senza venire stravolta (o addirittura affondata) lungo il percorso? Molti lo dubitano. E con eccellenti argomentazioni. La più convincente delle quali è – in una classica logica di do ut des – probabilmente questa. Se davvero è il compromesso l’obiettivo di Barack Obama, è un fatto che al presidente a questo punto non restano più carte da giocare lungo un cammino che si preannuncia tortuoso ed estremamente accidentato. Perché mai, si chiedono in molti, gli antiambientalisti dovrebbero accettare il “cap and trade”, se già hanno ottenuto da Obama tutto quello che desideravano? E ad un tanto logico scetticismo ha fatto immediatamente eco John Boehner, leader della minoranza repubblicana alla Camera, definendo “una sfida alla volontà del popolo americano” la decisione di Obama di aprire “solo in parte”, le coste americane alla trivellazione, nel contempo dichiarando “morta in partenza” ogni ipotesi di “cap and trade (o di cap and tax, come i repubblicani amano chiamare la proposta di legge, sottolineandone la natura di “imposta occulta” alla produzione).

Come finirà? Riuscirà il nostro eroe a salvare, grazie alle sue concessioni, la sostanza del suo progetto di trasformazione “verde” dell’economia americana? O, come non pochi temono, del suo disegno non resterà, infine, che la lunga teoria di croci dei suoi cedimenti? In questa battaglia ancora tutta da combattere, fanno notare i più dubbiosi, la lista dei caduti è già quella di una disfatta, Ed è piena di nomi illustri: a cominciare da quello di Van Jones, lo “zar” preposto alla creazione di “green jobs”, posti di lavoro verdi, dimessosi lo scorso settembre sotto il fuoco di fila della destra più estrema. Compito specifico di Van Jones – un nero dal passato “radical”, autore d’un libro, “The Green Collar Economy” diventato un bestseller nel 2007 – era quello di trasformare concretamente in occupazione i 27 miliardi di dollari che, nel quadro del recente “stimolo all’economia”, l’Amministrazione ha dedicato alla “produzione di energia rinnovabile”. E la sua caduta – consumatasi senza che Obama facesse alcunché per evitarla – si è, di fatto, trasformata in un’occasione persa. Persa per i progettati posti di lavoro “verdi”, svaniti nel nulla assieme ai miliardi stanziati dall’Amministrazione. Persa per i termini ed i tempi del suo divenire. Jones era, formalmente, sotto accusa per antiche (vere o presunte) simpatie “marxiste” e per alcuni avventati giudizi a suo tempo emessi a proposito degli attacchi dell’11 settembre 2001. Ma il vero obiettivo era, con tutta evidenza, proprio l’dea, da Jones con molta coerenza e lucidità sostenuta, di un vitale legame tra difesa dell’ambiente e rimessa in moto dell’economia. Jones se ne è andato. E, con lui, se ne è andata anche molta della “audacia della speranza” che muove la politica energetica di Barack Obama.

Si vedrà. Le cronache politiche ci dicono, ormai da mesi, che il progetto di “cap and trade” – oggi in due versioni: quella già elaborata della Camera e quella in molto preliminare discussione al Senato – vivacchia in “life support”, ogni giorno più impopolare e pasticciata. Un po’ come, in tempi recentissimi, è accaduto alla riforma sanitaria, poi approvata con un a suo modo esaltante “colpo di coda”. Seguirà lo stesso destino la rivoluzione energetica propugnata, tra cedimenti e compromessi, da Barack Obama? O tutto finirà come nel romanzo di Richard Llewellyn e film di John Ford? “How green was my valley, and the valley of them that have gone”, com’era verde la mia valle e la valle di quelli che se ne sono andati…”, dice nell’ultima battuta dell’ultima scena Huw Morgan, il protagonista-narratore, rivolgendosi, prima di lasciarlo per sempre, al luogo dove si è consumata la storia sua e della sua famiglia.  Un triste finale. Un finale di sconfitta. Ma è ancora lecito credere, forse, che nella valle della verde economia di Barack Obama possa restare, quando l’ultima pagina verrà finalmente scritta, qualcosa di più della nostalgia e del rimpianto….

 

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