Luís Posada Carriles e Rolando Jiménez Posada: due storie storie di ordinario terrorismo e di ordinaria repressione per capire meglio, sull’onda delle polemiche suscitate dagli articoli di Liberazione, in che cosa, per la sinistra, consista oggi la “questione cubana”
di Massimo Cavallini
13 ottobre 2006
Chiamatela, se vi pare, la storia dei due Posada (o delle due Cuba). E, se ne avete voglia, provate ad usarla, al di là d’ogni ideologico furore, per misurare le ragioni ed i torti di quanti, in queste ore, vanno attaccando (o, in molto minor numero, difendendo) gli articoli che Angela Nocioni ha scritto e che il direttore di Liberazione ha pubblicato, senza censure, né esitazioni su Liberazione. Il primo Posada è, ovviamente, Luís Posada Carriles, l’uomo al quale un tribunale di El Paso ha, lo scorso 8 maggio, restituito la libertà a fronte d’un capo d’imputazione a bella posta elaborato, non per denunciare i suoi crimini, bensì per nasconderli. Il secondo Posada è, invece, tal Rolando Jiménez Posada, di professione avvocato, il cui nome è noto soltanto a coloro che, tramite Amnesty International o altre organizzazioni dedite alla difesa dei diritti umani, seguono le vicende dei “prigionieri di coscienza”. In quasi perfetta coincidenza temporale con la liberazione del suo semi-omonimo negli Stati Uniti, anche Rolando Jimémez è stato, in effetti, oggetto d’una sentenza. Non d’assoluzione, nel suo caso, ma di pesante condanna. In tutto, anni dodici, da passare, precisa il verdetto del Tribunal Provincial Popular de la Ciudad de la Habana – emesso in realtà a gennaio, ma reso noto solo ai primi di maggio – “nello stabilimento penitenziario discrezionalmente designato dal Ministero degli Interni”.
Del primo Posada (il “terrorista ridens”, come qualcuno l’ha ribattezzato dopo la pubblicazione delle sue sorridenti immagini all’uscita dal tribunale) si sa quasi tutto. E tutto quello che si sa, sottolinea le più che valide ragioni dell’indignazione che, non solo a Cuba, ha accompagnato un’uscita dal carcere da molti definita “inevitabile” e scandalosa. Più esattamente: scandalosa perché inevitabile. Ed inevitabile perché scandalosa. O meglio: perché riflesso d’un gioco delle parti che rivela tutta la turpitudine e le antiche complicità di quasi mezzo secolo di politica americana nei confronti di Cuba. Posada Carriles doveva rispondere, di fronte al tribunale di El Paso, di reati immigratori elaborati – o “fabbricati senza ritegno”, come ha affermato il giudice Kathleen Cardone, metaforicamente stracciando il capo d’imputazione in faccia ai rappresentanti della pubblica accusa – dal Dipartimento alla Giustizia di George W. Bush. E ciò al solo e palese scopo d’evitare un procedimento per i veri crimini commessi dall’imputato; o, ancor più, una sua estradizione verso i paesi – Cuba ed il Venezuela – che questi crimini intendono perseguire. Vale a pena ricordarli i veri delitti di “Posada Primo”: l’attentato contro un aereo di Cubana de Aviación (1976, 73 morti), la bomba che, collocata nell’hotel Copacabana dell’Avana, nel 1997 uccise il turista italiano Fabio Di Celmo, ed una lunga serie di complotti (l’ultimo, in quel di Panama, risoltosi con il generosissimo perdono della presidentessa Mireya Moscoso) tesi ad assassinare Fidel Castro. Gli indizi contro di lui sono sempre stati schiaccianti. E schiaccianti sono soprattutto – almeno per quanto rivelano del cervello e dell’anima del personaggio – le sue stesse parole. Perché Posada non ha mai, ovviamente, riconosciuto la sua diretta partecipazione ai crimini che gli sono imputati, ma ha sempre apertamente detto: “ben fatto”. Nella guerra contro Castro, tutto è, per lui, lecito. E tutti – i giovani schermitori cubani che viaggiavano sull’aereo abbattuto, i turisti che affollano gli hotel e le spiagge di Cuba – sono soldati, bersagli legittimi…Così come bersagli legittimi furono per molti anni, nell’ottica della politica statunitense verso l’America Latina (e non solo) i governi democratici abbattuti da golpe guidati da militari addestrati a Fort Benning, gli squadroni della morte, i desaparecidos ed i torturati.
Questo racconta la storia del primo Posada, il Posada in libertà. Ed è, questa storia, la più valida, emblematica testimonianza, della legittimità della martellante campagna con cui il governo di Cuba reclama da tempo la liberazione dei “Cinque”. Ovvero: dei cubani (5, per l’appunto) condannati ad elevatissime pene detentive negli Usa per “spionaggio”. La vicenda è ricca di sfumature (non tutte, in verità, favorevoli alla versione cubana) che qui non possono, per ovvie ragioni di spazio, essere elencate. Ma, nella sostanza, Cuba ha tutte le ragioni del mondo, quando sostiene che i condannati, se erano spie, lo erano “per forza” e, in buona misura, “per diritto”. Perché era (ed è) un inalienabile diritto di Cuba infiltrare i movimenti che – come tutta la vicenda di Posada Carriles testimonia – negli Usa complottano per compiere azioni violente in territorio cubano.
Ed il secondo Posada? Di quali crimini è stato accusato Rolando Jiménez Posada? Ed in che modo è stato, infine, giudicato e condannato? Innanzitutto un dato. La giustizia rivoluzionaria cubana è stata, nei suoi confronti, estremamente lenta e, insieme, estremamente veloce (o, più> propriamente, sommaria). Estremamente lenta perché dal giorno della sua incarcerazione (nel marzo del 2003) al giorno della suo processo sono trascorsi quasi quattro anni (tre anni e nove mesi, per l’esattezza). E, nel contenpo, estremamente rapida (o sommaria) perché quel medesimo processo (svoltosi a porte chiuse) è durato in tutto tre giorni. Un lasso di tempo che, per quanto fulmineo, i giudici avrebbero tranquillamente potuto risparmiarsi tout court, considerata la procedura (farsesca, a tutti gli effetti) adottata per giudicare il “reo”. A Rolando Jiménez Posada, che pure è avvocato, non è stata concessa la facoltà di difendersi da solo. Ed ai suoi legali – tutti dipendenti dello Stato che lo aveva messo sotto accusa – non è stato concesso che un tardivo e parzialissimo accesso al materiale probatorio. Dal quale, stando al testo della sentenza, risultano comunque le seguenti cose: che l’imputato aveva, a più riprese, commesso il reato di “desacato”, oltraggio al capo dello Stato, per aver affisso manifesti fatti a mano che riportavano le seguenti frasi: “Fidel dai cibo al popolo, non marce”: “Democrazia per Cuba, basta manipolazioni” e, ancora “libertà e democrazia per Cuba”. Per questo il tribunale gli ha inflitto un totale di anni quattro di carcere (di fatto già scontati prima del processo). Più otto anni per aver “rivelato segreti di Stato”. Quali? Non si sa, perché si tratta, per l’appunto, di “segreti di Stato”. Raccapricciante è, comunque, l’elenco dei corpi di reato sequestrati nella casa dell’accusato ed elencati con involontaria e burocratica comicità nel verdetto: manoscritti il cui contenuto ricalca, grossomodo, quello dei manifesti affissi (in una Fidel viene definito “un assassino”), penne, pennarelli, il numero di telefono d’un paio di congressisti della Florida, il testo d’un discorso dell’Arcivescovo dell’Avana e, infine, il libro “I diritti umani e l’eredità di Martin Luther King”. Per questo Rolando Jiménez Posada si trova ora nella prigione di “El Guayabo” (una delle più dure). Ed ivi resterà, per volontà del popolo, fino all’anno 2016.
Un’aberrazione? No. Quello del secondo Posada (il Posada prigioniero) è, al contrario, nella Cuba di Fidel Castro, un caso d’ordinaria, “legalissima” ingiustizia, consumato in piena armonia con le leggi vigenti. Così come in piena armonia con le leggi vigenti – leggi “rivoluzionarie” – è stata un’altra condanna entrata molto discretamente nelle cronache più o meno negli stessi giorni della liberazione di Posada primo e della incarcerazione di Posada secondo. Quella di Oscar Sánchez Madan, 33 anni, giornalista dissidente, condannato a quattro anni di carcere per reati che non mai commesso, ma che si presumeva potesse commettere. Come prevede una legge – quella detta della “peligrosidad social predelictiva” – approvata dal Poder Popular (con il tradizionale 100 per cento dei voti) nel lontano 1978. E tuttora, anzi, più che mai in vigore. Tutte leggi valide, tutte leggi ratificate dagli appositi organi del potere, leggi dello Stato. Leggi in base alle quali, ogni giorno, nella Cuba socialista, si emettono sentenze che non sono per nulla aberrazioni. E che, proprio per questo, sono aberranti, indecenti, barbaramente ingiuste per chiunque, di decenza, abbia conservato almeno unombra.
Perché raccontare queste storie parallele? Per sottolineare una semplice, più che ovvia, ma troppo spesso ignorata verità: quando si parla di Cuba bisogna parlare, per restare nella metafora, di tutti i Posada. Del buono (la resistenza alle prepotenze dell’impero, simboleggiata dalla vicenda del “terrorista ridens”), del brutto e del cattivo. Specie quando anche il buono – il molto buono che la rivoluzione ha prodotto sul piano sociale, il buono che per tutti noi sentimentalmente ancora rappresenta, va rapidamente avvizzendo, soffocato da un’organica, istituzionale, decisamente “cattiva” assenza di libertà e di confronto. Frei Betto, immancabilmente citato in questi dibattiti, sostiene che non è giusto denunciare la violazione dei diritti umani a Cuba, mentre in tante parti dell’America Latina e del mondo ancora non si rispettano i “diritti animali” di tanta povera gente. E così dicendo fa un grande disservizio tanto alla lotta per la libertà di espressione, quanto a quella contro la fame e la schiavitù della miseria, in questo caso usata – umiliata, direi – come paravento d’una ingiustizia. A Cuba nessun bambino muore di fame? Vero. Ma vero è anche – anzi, è certamente molto più vero – che nessun bambino morrebbe di fame se a Cuba fosse riconosciuto il diritto di scrivere “abbasso Fidel” senza che, per questo, si debba passare in carcere il resto dei propri giorni. Per “desacato” al leader supremo, o per una qualche presunzione di futuro reato.
Degli articoli scritti da Angela Necioni si può pensare tutto il bene e tutto il male possibile. Si può discutere quanto il problema delle “barbacoa” influisca sullo stato delle abitazioni del Centro Habana, quanto grande sia, tra le rovine materiali e morali d’una rivoluzione prigioniera dei propri miti, il desiderio di fuga delle nuove generazioni, quanti siano i medici che hanno disertato in Venezuela, quale sia il peso da dare alle centinaia di richieste depositate presso la tomba della “milagrosa” Amelia nel cimitero Cloón, e quale sia il significato della “pizza Fabio”. Ma alla fine tutto ritorna al secondo dei punti citati da Piero Sansonetti nella sua misurata risposta alla valanga di proteste ricevute. Non esiste alcun modello di rivoluzione che possa prescindere da una incondizionata difesa della più piena libertà d’espressione, intesa come un inalienabile diritto dell’uomo e non come concessione d’un re più o meno illuminato. Non esiste perché questo è quello che ci insegna – con le sue speranze (tradite o meno), con i suoi errori e con suoi orrori – la storia del comunismo. O – per usare una frase di Maria Rosa Calderoni citata in un bel commento di Rina Gagliardi – perché questo è quel ci dice, se analizzato libero dal nefasto mito di se stesso, “tutto ciò che abbiamo fatto fino ad oggi”.
“Le idee non si uccidono” ha scritto in questi giorni un convalescente Fidel in una lunga serie di commenti pubblicati dal Granma, riesumando un celebre episodio della sua biografia di combattente. E del tutto chiaro era che, ancora una volta, le idee di cui parlava erano le sue. Perché quelle degli altri il “comandante en jefe” le ha, in questi oltre quarant’anni, sistematicamente messe in galera o trascinate di fronte al “paredón”. Ed è difficile credere che, per questo, la storia assolverà.lui e tutti coloro che, in suo nome, su questo crimine – un crimine che, in ultima analisi, ha ucciso la sua rivoluzione molto più di quanto abbiano potuto quelli di Posada primo e dell’Impero – invocano il pietoso velo del silenzio e della doppia morale “rivoluzionaria” Angela Nocioni ha fatto bene a scrivere quegli articoli. Piero Sansonetti ha fatto ha fatto bene a pubblicarli.