24 settembre 2009
Di M.C.
Che cosa accadrà in Honduras – ora che Mel Zelaya è tornato a casa con la benedizione di Lula – è difficile dire. Ma intanto è giusto godersi le due brutte figure parallele – e parallelamente ridicole – che gli ultimi eventi ci hanno regalato. Chiamatelo, se vi pare, il “papelón doble”.
Il primo e piuttosto ovvio “papelón” è stato quello consumato dal golpista Roberto Micheletti, allorquando, diffusasi la voce del ritorno del presidente deposto, ha sardonicamente definito – con un lessico che, certo, deve suonare molto famigliare a quanti vivono nei dintorni di Berlusconia – “una falsità” ed una forma di “terrorismo mediatico”. Subito aggiungendo, con un ghigno, che Zelaya in effetti si trovava, in quel momento, comodamente spaparanzato in qualche parte di una molto confortevole “suite d’hotel a Managua”.
Di segno opposto, ma egualmente esilarante, la seconda brutta figura: quella che ha visto protagonista un personaggio che – “por qué no te callas?” – alle brutte figure è immancabilmente condannato dalla propria incontenibile logorrea e dal vizio (un altrettanto incontenibile narcisismo) che di tale logorrea è, con tutta evidenza, la causa prima. Stiamo ovviamente parlando del presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Hugo Chávez Frías. Uno che, con i “papelones” quotidianamente convive. Anche se, va detto a suo vantaggio (ma non a sua discolpa), che tali papelones vengono di norma accolti, dai suoi molti seguaci, non con pernacchie, come sarebbe opportuno, bensì con scroscianti applausi e gridolini di gioia.
Che cosa ha detto, questa volta, Hugo Chávez? Semplicemente questo. Nell’annunciare al suo popolo il ritorno a casa di Manuel Zelaya, ha raccontato d’un uomo giunto alla meta dopo “due giorni di cammino”, e dopo aver attraversato, “con grande rischio per la propria vita”, “fiumi, foreste e montagne”.
Due giorni di cammino? Fiumi? Foreste? Montagne? Se così davvero è stato, il buon Mel deve aver sbagliato direzione, visto che – come provato da testimonianze al di là d’ogni ragionevole dubbio -domenica sera (vale a dire: poche ore prima del suo arrivo a Tegucigalpa) si trovava nell’aeroporto di San Salvador, dove era disceso (senza permesso, cosa per la quale è stato multato per 30mila dollari) a bordo del jet che lo stesso Chávez gli ha generosamente messo a disposizione dopo il golpe.
Come Zelaya sia in effetti giunto a Tegucigalpa, ancora non si sa. Si dice a bordo di un convoglio motorizzato con insegne diplomatiche, o chiuso nel portapacchi di un’auto, o, ancora, atterrando – con il beneplacito di militari contrari alla sua deposizione – nello stesso aeroporto della capitale. Ed è proprio quest’ultima – sia detto per inciso – l’ipotesi che meglio fa sperare per il futuro, dato che proprio la “compattezza istituzionale” che ha sorretto il golpe (parlamento, magistratura, militari e persino chiesa, tutti uniti contro il presidente deposto) è stato fin qui forse il maggiore ostacolo all’avvio d’un negoziato per il ripristino della legalità democratica.
Presto o tardi si conoscerà ogni dettaglio di questo viaggio di ritorno. Ma resta il fatto – risibile e, insieme preoccupante – che Chávez non ha ancora una volta resistito alla tentazione d’offrire una versione “eroica” degli eventi. O meglio: una versione irrorata della medesima mitologia fasulla che è, da tempo, alla base del culto della personalità chavista. Una malattia dalla quale la sinistra (non solo latinoamericana) non sembra, purtroppo, affatto immunizzata.
Di buono c’è questo. Hugo Chávez – la cui intromissione negli affari interni honduregni è parte rilevante della storia del golpe honduregno – sembra ormai ai margini della storia. E il suo “papelón” sembra, a questo punto, destinato ad essere solo oggetto di barzellette. Al centro del proscenio politico c’è ora Lula da Silva, esponente di una sinistra che, se Dio vuole, per fare politica non ha bisogno di mostrare i muscoli ed il petto. Molti credono che la crisi honduregna sia, in effetti, il primo vero banco di prova per le ambizioni di leadership continentale di un Brasile che vuol trovare il suo posto tra i giganti del mondo. Incrociamo le dita…