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Ted, forever young

8 ottobre 2009

 

Do Massimo Cavallini

 

“And the last shall be first”. E l’ultimo sarà primo. Il senso della vita di Edward Moore Kennedy – o Ted Kennedy come era universalmente conosciuto – è in fondo tutta qui, in questa evangelica (e, nel caso specifico, anche molto terrenalmente profetica) massima. La stessa che, incisa nell’argento, ancor oggi si può leggere sul retro del portasigarette che, nel giorno del suo giuramento presidenziale, nel gennaio del 1961, John Fitzgerald Kennedy aveva voluto regalare al più giovane dei suoi due fratelli. Ted aveva, allora, poco meno di 29 anni (li avrebbe compiuti qualche settimana dopo, il 22 febbraio). E, nonostante una piuttosto meritata fama di “discolo”, vantava – come le regole della dinastia imponevano – una già assai ben avviata carriera politica. Durante la campagna presidenziale era stato, narrano le cronache d’epoca, tra i più visibili consiglieri di John; e, soltanto un anno dopo, raggiunta l’età minima prevista dalla Costituzione, sarebbe entrato  trionfalmente nel Senato, prendendo possesso della poltrona (una delle due riservate allo Stato del Massachusetts) che avrebbe poi occupato, senza soste, per i successivi  46 anni. Eppure nessuno, in quella gelida mattinata d’inverno, avrebbe potuto immaginare come proprio a lui, l’ultimo dei Kennedy, sarebbe molto presto -tragicamente presto – toccato, non solo l’onere dalle regole dinastiche riservato al primo (quello, da Ted infine mancato, di raggiungere la presidenza degli Stati Uniti d’America), ma qualcosa d’ancor più pesante e importante. Ovvero: il compito di portare, lungo le polverose e sconnesse strade del tempo, la fiaccola del “kennedismo”. Meglio ancora: quello di definire, oltre le luci (o le nebbie) del mito, la vera dimensione, la forza e la debolezza, l’umana ambiguità e, in ultima analisi, la vera valenza storica di quel “dream that never dies” –  quel sogno che non muore, come lo stesso Ted l’ha più spesso etichettato – che nell’ultimo mezzo secolo è stato parte essenziale della storia dell’America “liberal” (o, come si direbbe da noi, della sinistra americana).

La saga della famiglia Kennedy, ha scritto lo storico David Von Drehle, è “un inestricabile groviglio di vere leggende e di leggendarie verità”. Laddove, evidentemente, “leggendarie” sta per immaginarie, mitiche, inesistenti o, comunque, ingigantite dalla trasfigurante forza della propaganda e, ancor più, da quella della tragedia. John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas, è diventato, nell’immaginario collettivo americano (e non solo dell’America progressista), il simbolo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, di quello che dovrebbe essere , di quello che è stato e che non è più. E la stessa sorte è toccata, cinque anni più tardi, a Robert Foster “Bobby” Kennedy, crivellato dalle pallottole di Sirhan Sirhan nelle cucine dell’hotel Ambassador, a Los Angeles, mentre si preparava a celebrare la sua vittoria nelle primarie democratiche della California. Entrambi, John e Bob, sono morti mentre realizzavano (o stavano per realizzare) le ambizioni ed i sogni presidenziali che il padre Joseph – un uomo uscito dall’anonimato dell’emigrazione irlandese di Boston, grazie a traffici ai limiti della legalità, e divenuto, poi, “mogul” hollywoodiano ed assoluto padrone della politica del Massachusetts – aveva originalmente riservato per il suo primogenito, Joseph Jr., morto, anche lui, in un incidente aereo durante la seconda Guerra Mondiale. Ed entrambi, John e Bob, hanno con la loro morte – una morte che li ha liberati dalle ingiurie del tempo, lasciandoli, come recita una vecchia canzone di Bob Dylan, ‘forever young”, giovani per sempre – spalancato di fronte al “piccolo Ted”, le porte d’un prematuro destino, una strada grande e luminosissima (perché, per l’appunto, illuminata dalla “leggendarie verità” di cui sopra), ma, in effetti, percorribile soltanto da santi o da eroi. O, in ogni caso soltanto da persone non vive, non soggette alla forza di gravità ed alle miserie della vera politica. In che modo, dunque, Ted Kennedy, il “vivo” Ted Kednnedy, ha, alla prova dei fatti, percorso questa strada?

Rispondere non è facile, ma di certo si può dire questo. Ted ha camminato a lungo ed ha camminato in salita. Ted ha camminato sudando e cadendo senza mai arrivare alla meta. E camminando, sudando e cadendo, Ted ha, infine, formalmente perso la battaglia con quello che era – o sembrava essere – il suo destino. Ted non è mai diventato presidente. E proprio in questa sconfitta ha, fuori dalla leggenda, trovato la sua grandezza. “Edward Kennedy  – ha scritto il New York Times, lo scorso 26 agosto, il giorno dopo la sua morte – è indubbiamente stato il più kennediano dei Kennedy”. Perché? Per una ragione – insieme semplice e complessa – che, per l’appunto, sta scritta nella storia (lunga e brevissima al tempo stesso) del “kennedismo”.

John Kennedy la sua battaglia presidenziale – quella che ancor oggi vive nell’ambigua ma accecante luce della “Nuova frontiera” – l’aveva, in realtà vinta facendo campagna, non nel nome della “pace e del progresso” (due virtù, queste, che, nella leggenda, restano connesse alla suo ricordo) ma, essenzialmente, nel nome della guerra. Vale a dire: attaccando la debolezza della politica estera di Ike Eisenhower, troppo condiscendente con L’unione Sovietica, e reclamando un’accelerazione nella corsa agli armamenti. Voleva un’America “forte”, John Kennedy. E la sua vittoria – una vittoria di strettissima misura – era arrivata soltanto grazie ai favori della famosa “Chicago machine”, manovrata da Richard Daley, il potentissimo sindaco della “città del vento”. A Chicago, in quel novembre del 1960, per Kennedy avevano, in effetti, votato molte persone già morte. E tra loro alcune – a riprova della soprannaturale qualità del fenomeno – avevano votato ben più di due volte. Non ci fu scandalo, narrano oggi i veri libri di storia, solo perché Daley era un molto collaudato maestro di brogli elettorali e, soprattutto, perché il rivale di Kennedy, Richard Nixon, aveva temuto che una denuncia della frode potesse portare alla scoperta di altri altarini (i suoi, che erano molti e, forse, ancor più gravi di quelli innalzati a Chicago).

Bob Kennedy, a sua volta, è all’istante divenuto, come il fratello, simbolo di quella che, un tempo, si chiamava “l’altra America”. Un’America non più “imperiale”, capace di chiudere una guerra ingiusta (quella in Vietnam) e di fare i conti, finalmente, con i suoi “peccati originali”: quelli della diseguaglianza e del razzismo. Ma la Storia ci racconta cose diverse o, comunque, molto più sfumate ed intricate. Ci dice d’un giovane Kennedy che s’era fatto le ossa – e con molta passione – in uno dei più squallidi ridotti della reazione: quella commissione contro le attività anti-americane diretta dal senatore Joseph McCarthy. E ci mostra anche come, nelle sue vesti di Attorney General sotto la presidenza del fratello, Bob fosse stato tra i più attivi (quasi ossessivi) promotori di quell’Operazione Mongoose, la cui finalità prima era assassinare Fidel Castro. Errori di gioventù? Semplici sbavature? Forse. Ma è un fatto che, anche in tempi più maturi, i conti della Storia e quelli del mito, non sembrano coincidere che in piccola parte. In quell’irripetibile e contradditorio 1968, la discesa in capo di Bob – pacifista e progressista – era stata, infatti, tardiva ed incerta, consumatasi solo dopo che la candidatura di Eugene McCarthy (il cui successo nelle primarie del New Hampshire aveva spinto Lyndon Johnson al ritiro dalla contesa presidenziale) aveva testimoniato la piena viabilità, nelle file democratiche, d’una battaglia contro la guerra nel Vietnam.

Nessuno può dire quel che sarebbe accaduto se John avesse potuto terminare il suo primo mandato e conquistarne – come tutti i sondaggi dell’epoca lasciavano credere – un secondo. Nessuno può dire se avrebbe evitato una escalation in Vietnam, o se – come appare più probabile – avrebbe seguito la medesima strada che, partendo da identici presupposti politico-strategici (quelli del famoso “effetto domino”), è stata poi effettivamente (e tragicamente) percorsa da Johnson (presidente al quale, peraltro, si devono, nella pratica, i più significativi risultati nelle due battaglie politiche – quella per i diritti civili e quella  contro la povertà – che, di norma, vengono identificati con il “kennedismo”). Nessuno può dire che sarebbe accaduto se, in quella fatidica, caldissima estate del 1968, Bob Kennedy avesse potuto portare la sua corsa presidenziale fino alla Convention democratica di Chicago. Avrebbe, Bob, conquistato la nomination? Quasi certamente no, perché – al di là del fascino che la sua candidatura aveva suscitato tra i giovani e le minoranze – i numeri  erano tutti a favore di Hubert Humphrey, il vicepresidente di Lyndon Johnson che poi perse la corsa finale con Richard Nixon. L’avrebbe vinta, quella stessa corsa, il candidato democratico Robert Kennedy? Sarebbe riuscito l’alone mistico del kennedismo a capovolgere le sorti della battaglia?

Ancora una volta: quasi certamente no, perché la vittoria di Richard Nixon fu in effetti – ben al di là delle suggestioni del momento – il prodotto d’un riallineamento politico a destra destinato a durare nel tempo. Nixon vinse perché seppe, con strategico cinismo, raccogliere sotto le bandiere repubblicane quella che proprio da lui, un anno più tardi, venne, in un celebre discorso, battezzata come “la maggioranza  silenziosa”. Più esattamente: perché seppe interpretare – specie nel Sud – la grande paura dell’America bianca dopo la grande e gloriosa stagione dei diritti civili, dopo la ribellione generazionale contro la guerra e contro le convenzioni, dopo la rivolta nei ghetti neri e dopo Woodstock. Con la breve parentesi del Watergate e dell’effimera ascesa di Jimmy carter nel ’76, la vittoria di Nixon nel novembre del ’68 non era stata, in fondo, che il preludio del consolidarsi del reaganismo e dell’alleanza strategica tra l’America più “profonda”, reazionaria e bigotta, e la spregiudicata, arrembante America di Wall Street e del liberismo economico. Ed è proprio qui, nelle strade strette e tortuose di questa realtà – cupa per ogni progressista – che si è dipanato, senza grandi acuti, “l’antimitico mito” (l’espressione e di Bob Shrum, uno dei più stretti collaboratori di Ted)  del “più kennediano dei Kennedy”.

Molti osservatori, nel riassumere le ragioni per le quali Ted Kennedy non è riuscito a diventare presidente, tendono a mettere in primo piano la vicenda di Chappaquiddick. E non v’è dubbio che molte delle speranze presidenziali di “Uncle Teddy”, zio Teddy, come molti lo chiamano, siano morte quella notte del 18 luglio del 1969, insieme alla povera Mary Jo Kopechne, in un canale dell’isola di Chappaquiddick, al lato della più famosa Martha Vineyard, luogo di vacanze dorate per “ricchi e famosi”. I fatti sono noti. Reduce a notte fonda da una festicciola – e probabilmente ubriaco – Ted era finito fuori strada attraversando un ponte. Nell’auto, capovoltasi in meno di due metri d’acqua, era rimasta mortalmente intrappolata una giovane ex volontaria della campagna presidenziale di Bob, la 28enne Mary Jo Kopechne. Ted era uscito illeso dall’incidente, ma per ben dieci ore non aveva denunciato l’accaduto. Perché giunto a casa spossato dopo i vani tentativi di salvare Mary Jo, come lui avrebbe più tardi raccontato? O soltanto per elaborare una strategia legale (in sostanza: per inventarsi un’accomodante versione dei fatti) che risparmiasse a lui – troppo ebbro per evitare l’evitabilissima morte di Mary – l’onta di un condanna che, inevitabilmente, avrebbe significato la fine della sua carriera politica?

La verità – tutta la verità – non è mai venuta a galla. Ted è stato infine molto generosamente condannato – senza processo – a due mesi di carcere per “aver abbandonato il luogo di un incidente”. E s’è trascinato dietro il ricordo di quella vicenda non solo come un’insostenibile zavorra politica, ma anche – come lui stesso rammenta nel libro postumo di memorie proprio in questi giorni uscito nelle librerie – come un personale incubo, un peso sulla coscienza che non ha mai cessato di tormentare le sue notti. Nel 1972, e poi nel ’76 – quando il partito repubblicano doveva fare i conti con i postumi dello scandalo del Watergate – il ricordo di Chappaquiddick era ancora troppo fresco per consentire una sua candidatura. E nell’80 – all’ultima chiamata presidenziale – la sua candidatura “liberal” era troppo debole per sopravanzare quella di Jimmy Carter (le cui ambizioni di rielezione si sarebbero peraltro poi schiantate, in un’America che andava più che mai a destra, contro il nascente astro di Ronald Reagan). E proprio questo è in fondo il grande paradosso della vita e dell’opera di Ted Kennedy. Riguardato adesso, dopo la sua morte, il momento più alto della sua vita politica appare proprio quello che, nelle cronache del tempo, venne descritto come l’epitaffio d’ogni sua ambizione. 12 agosto 1980, Madison Square Garden di New York, ore 20,30. Ted Kennedy sale sul podio ed annuncia alla platea la fine della sua sfida a Jimmy Carter e della sua corsa presidenziale. “La mia campagna – dice – si è chiusa poche ore fa. Ed a tutti coloro che hanno avuto a cuore gli esiti della battaglia dico: il lavoro continua, le ragioni della lotta rimangono, la speranza continua a vivere ed il sogno non morirà mai (the work goes on, the cause endures, the hope still lives and the dream shall never die)”. Parole che sono entrate nella storia, non come l’addio d’uno sconfitto, ma come uno tra i più bei discorsi mai pronunciati nel corso di una convenzione. Parole che hanno annunciato al mondo come né Ted, né alcun altro Kennedy, sarebbe mai più diventato  presidente degli Stati Uniti d’America; e, nel contempo la vera nascita del kennedismo come più alta espressione del liberalismo (liberalismo nel senso, tipicamente americano, di politica progressista).

Liberato a forza dal peso del destino famigliare che due tragedie gli avevano “shakespearianamente”  cucito addosso, Edward Moore Kennedy è diventato, per quasi unanime ammissione, il più grande legislatore della storia degli Stati Uniti d’America, il congressista che ha, in assoluto, lasciato più tracce di sé nella vita di Capitol Hill. Ted ha davvero “continuato il lavoro”, ha davvero – in questi ultimi tre decenni sostanzialmente dominati dall’ingiustizia e dalla diseguaglianza – alimentato la speranza e mantenuto in vita il sogno di un’America più giusta. Ha combattuto, Ted Kennedy. Lo ha fatto con i principi e con i compromessi, sotto i riflettori della grande aula del Senato e nella semi-oscurità del lavoro di commissione; o, ancora, nella penombra degli accordi sottobanco, nella tutt’altro che tersa luce di quei “do ut des” che, della politica, sono spesso, il vero motore. Ted Kennedy, il “negoziatore” Ted Kennedy, è stato, in questi  anni – oltre la mitizzazione (o, più spesso, la banalizzazione) del kennedismo, ed anche oltre i sinistri bagliori degli scandali (di alcol e di donne) nei quali è stato, direttamente o indirettamente, coinvolto – uno dei pochi uomini politici che ha avuto il coraggio di definire se stesso con un termine,”liberal”, che dal reaganismo era stata trasformato in un insulto. E, da “liberal”, o da “kennediano”, è stato uno dei pochi che ha sempre coerentemente preso le difese dei “poveri” (altra parola bandita dal reaganismo). John e Bob sono oggi, del kennedismo, i due monumenti,  le due immaginette. Fredde, lontane, retoriche e, a tratti, persino melense. Ted è stato invece, del kennedismo, tutto il resto. Tutto quello che conta. Il bello, il buono, il brutto e il cattivo. Il fango nel quale è caduto e la luce delle sue molte risurrezioni.

Non per caso, né per capriccio, lo scorso agosto – quando dopo la prima operazione al cervello a stento si reggeva in piedi – “zio Ted” aveva voluto essere alla Convenzione democratica che, a Denver, in Colorado, era chiamata a nominare Barack Obama, l’uomo nuovo, il “leader che s’incontra una sola volta nella vita”, come lo stesso Kennedy aveva definito il giovane senatore dell’Illinois a marzo, nell’appoggiare la sua candidatura. Lo aveva fatto per ricordare al mondo ed a quello che restava di se stesso la speranza di un mondo migliore, la vigenza d’un “sogno” la cui immortalità aveva annunciato 28 anni prima, con alate parole, nel fragore della propria sconfitta. “The hope rises again and the dream lives on…”, la speranza risorge ed il sogno continua a vivere, aveva detto. E se ne era andato – certo che, presto, molto presto, se ne sarebbe andato per sempre – mostrando con orgoglio, tra i capelli bianchi, il rettangolo di calvizie lasciato dal recente intervento chirurgico. È uscito di scena da combattente, lo zio Ted, come un uomo che sa che sta per morire, ma che, oltre se stesso, continua ostinatamente a credere nella vita.  Pieno di rughe, di cicatrici, coperto di ferite che ancora sanguinano, eppure, finalmente, (nonostante questo, o, forse, proprio per questo), anche lui “forever young”, giovane per sempre….

fine

 

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