Orlando Zapata Tamayo è morto per la libertà. Ma ora le sue ceneri riposano in uno dei luoghi – il mausoleo che ricorda i caduti della Brigata 2506, sconfitta senza gloria nella Baia dei Porci – che più contraddicono i principi di libertà. Ed suo nome viene usato per chiedere un rafforzamento della più stupida, iniqua ed illiberale delle leggi: l’embargo contro Cuba. Quante altre volte ancora lo ammazzeranno?
di Massimo Cavallini
Quante volte è morto – e quante altre ancora dovrà morire – Orlando Zapata Tamayo? Le cronache ci raccontano come la prima volta fu la fame – la fame che Orlando aveva imposto a se stesso per reclamare diritti che gli erano stati negati – ad ucciderlo in una stanza dell’ospedale di Camaguey, dove era giunto pochi giorni prima, ormai in fin di vita, reduce dalla prigione Kilo 7, nella quale scontava una pena mostruosa (36 anni) per “disordine pubblico”, “vilipendio” e “disobbedienza”. Ovvero: per reati che Amnesty International – sempre molto rigorosa nelle sue valutazioni – non aveva esitato a definire “di coscienza”.
Era morto, Orlando Zapata Tamayo, perché chiedeva d’essere riconosciuto come “prigioniero politico” – una tipologia “criminale”, questa, che nella Cuba dei Castro da sempre abbonda, e della quale, proprio per questo, da sempre il governo fermamente nega l’esistenza –; ma, soprattutto, era morto perché, in quanto prigioniero politico, chiedeva gli venissero riconosciuti gli stessi diritti che, illo tempore, la dittatura di Fulgencio Batista (non propriamente un modello in materia di rispetto dei diritti umani) aveva garantito al prigioniero Fidel Castro Ruz, arrestato dopo il suo assalto al Cuartel Moncada e rinchiuso nel carcere de la Isla de Pinos.
Se ne era andato in questo modo – stroncato da uno sciopero della fame – Orlando Zapata. E, subito, aveva cominciato a morire di nuovo, lapidato dal governo che lo aveva ucciso la prima volta e, naturalmente, da quegli “amici di Cuba” che, in molte parti del mondo, al regime castrista amano – con passione e con altrettanta malafede – fare da cassa di risonanza. Orlando avevano detto e ridetto, con indignazione tanto ostentata quanto malriposta, non era, in realtà, che un criminale comune, un violento per natura, un “muratore indisciplinato” – quest’ultima espressione, splendida e macabra, davvero degna di figurare in un’ipotetica “hall of fame” della più viscida ipocrisia politica, appartiene alla rivista Latinoamerica, diretta da Gianni Minà – che in carcere era finito per i suoi ripetuti comportamenti antisociali. E che solo alla fine d’un lungo itinerario giudiziario – e solo per ragioni di bieco opportunismo, dall’una e dell’altra parte del diabolico patto – s’era lasciato cooptare da un movimento di dissidenti alla disperata ricerca di eroi. E, possibilmente di eroi morti.
Fu così, da dissidente già due volte ucciso, che Orlando Zapata Tamayo venne infine cremato. Ma non per questo cessò di morire. Sua madre, Reina Tamayo, scelse infine, comprensibilmente, la via dell’esilio. Ed il regime, altrettanto voglioso di liberarsi d’una presenza divenuta alquanto scomoda, le spalancò le porte d’uscita, concedendole di riesumare le ceneri del figlio-martire (una presenza ancor più scomoda) per portarle con sé. Prima (e probabilmente ultima) tappa del viaggio: Miami.
Ed è stato qui, a Miami, che – con l’inconsapevole complicità d’una madre che merita comunque rispetto e misericordia – Orlando Zapata è stato ucciso per la terza volta. E continuerà – par di capire – ad essere ucciso, ogni santo giorno che verrà, da quella che va sotto il nome di l’ “altra Cuba”. O meglio: da quella frazione dell’ “altra Cuba” – una frazione, purtroppo, ancora politicamente dominante anche se non più numericamente maggioritaria – che, specularmente alla Cuba dei Castro, come ibernata negli anni ’60, sembra incapace di superare la logica manichea che è alle sue origini. O con me, o contro di me. Nessuna sfumatura. Nessuna possibilità di autocritica o, almeno, di critica revisione della propria storia. Nessun rispetto per le opinioni altrui. Contro Castro, con gli stessi metodi e la stessa mentalità di Castro. O, non di rado, con metodi e mentalità anche peggiori.
La terza morte di Orlando Zapata – morto per difendere la libertà (la sua e, presumibilmente, quella di tutti) – si è consumata in uno dei luoghi che, sulla faccia del pianeta Terra, meno parlano di libertà. O meglio: che, più d’ogni altro, parlano contro la libertà. Vale a dire: nel mausoleo che a Miami ricorda i caduti di quella Brigata 2506 che, nell’aprile del 1961, addestrata ed appoggiata dalla Cia, tentò – molto ingloriosamente sconfitta – di invadere Cuba per rovesciare il governo rivoluzionario. Qui – così ha deciso l’ “altra Cuba”, con l’assenso di Reina Tamayo – riposeranno le ceneri di Orlando fino a quando non potranno tornare nella ‘Cuba liberata”. Anzi, non riposeranno affatto, perché se i suoi resti mortali si fermeranno nel mausoleo, la sua povera madre nel frattempo continuerà, sempre più mal accompagnata dai dinosauri dell’esilio cubano, il suo viaggio verso altre ed ancor più squallide mete. La prima delle quali sarà, prevedibilmente, il Congresso degli Stati Uniti. Dove naturalmente – con il sostegno di Ileana Ros Lehtinen, stagionata pasdaran dell’anticastrismo “ante-marcia”, oggi alla testa della Commissione esteri della Camera dei Rappresentanti – nel nome del figlio (destinato, in quell’istante, a morire per la quarta volta) chiederà a deputati e senatori di rafforzare l’embargo contro Cuba. Vale a dire: la più anacronistica, stupida, ingiusta e controproducente (l’embargo è di fatto, per il regime cubano, una sorta di patriottico elisir di lunga vita) tra le leggi in vigore negli Stati Uniti. Una legge il cui unico scopo – se si esclude quello di compiacere l’ala dura dell’esilio cubano in una parte del paese dove il suo voto conta – è, in effetti, quella di far fare agli Usa una brutta figura all’anno di fronte all’Assemblea dell’ONU (dove l’embargo viene regolarmente bollato come “illegale” con soverchiante maggioranza. L’ultima volta: per 187 voti contro 2).
Triste destino, quello di Orlando. Morto in un carcere di Cuba, il Kilo 7, dove i suoi diritti di prigioniero politico non venivano riconosciuti, in un’altra prigione – quella del mausoleo della Brigata 2506 – è tornato come forzato simbolo d’una libertà fasulla. O, più esattamente: dell’anti-libertà di un’invasione armata al servizio degli Usa che – preparata dalla Cia nel Nicaragua allora governato da un grande campione di libertà: Anastasio Somoza – per tutti gli uomini davvero liberi non è stata (e poco importa quali siano poi state le evoluzioni della rivoluzione che voleva abbattere) che una variante (la prima in ordine di tempo) d’una lunga infamia. Vale a dire: della politica golpista che, lungo tutti gli anni ’60 e ’70, ha portato al potere, in pressoché tutta l’America Latina, sanguinarie giunte militari e dittature varie.
Orlando è morto in carcere per liberare Cuba. E adesso chi libererà Orlando – già quattro volte ucciso e di nuovo prigioniero – dal mortifero abbraccio dai falsi liberatori di Cuba?