25/4/2011 – Quando è cominciata la rivoluzione cubana? La data ufficiale del “triunfo” – che come ogni vittoria è contemporaneamente un inizio ed una fine – è, notoriamente, il primo gennaio del 1959, giorno nel quale, mentre ancora risuonava l’eco dei rintocchi della mezzanotte e dei botti di fine anno, il dittatore Fulgencio Batista, caricate su un areo le sue cose (o quelle che lui riteneva tali, come l’argenteria del palazzo presidenziale e le casse dello Stato) fuggì verso quello che si sarebbe rivelato un’assai breve esilio nella Santo Domingo di Rafael Leónidas Trujillo (i suoi giorni li avrebbe finiti nel Portogallo di Salazar, per un attacco cardiaco, 13 anni più tardi). Ma molti altri – prima e dopo quel giorno fatidico – potrebbero, in realtà, essere i punti prescelti. E la mitologia rivoluzionaria li celebra tutti con egual passione: l’attacco al Cuartel Moncada del 26 luglio del 1953, lo sbarco del Granma nel dicembre del ‘56, l’entrata di Fidel all’Avana…Eppure non vi è dubbio alcuno: tra tutte queste pietre miliari, una più d’ogni altra – quella che ricorda la battaglia della Baia dei Porci (16-19 aprile del 1961) – ha contribuito, non solo a marcare il carattere della rivoluzione cubana, scandendone il cammino per gli anni a venire, ma a definire l’intera storia latinoamericana della seconda metà del ventesimo secolo.
Non fu, quella di Bahia Cochinos (o di Playa Girón), una gran battaglia. Fu anzi – se valutata sul macabro metro della storia bellica del pianeta – poco più d’una scaramuccia tra due eserciti male armati, conclusasi dopo tre giorni di combattimenti sporadici con un complessivo bilancio di poco meno di 300 caduti. Eppure furono proprio quei tre giorni a cambiare, come si usa dire, il corso della storia. Fu in quei tre giorni che la rivoluzione cubana divenne, non solo ufficialmente socialista – una “revolución de los humildes para los humildes” come disse Fidel Castro nelle ore che precedettero i combattimenti – ma anche una rivoluzione il cui modello era essenzialmente (e permanentemente) basato sulla difesa militare dagli attacchi d’un poderoso nemico esterno. Ovvero, se visto “da dentro”: sulla forzata unità politica e sulla lotta alle “quinte colonne”, sulla repressione d’ogni dissenso – immancabilmente bollato come “tradimento della Patria” – che ancor oggi definisce, sul modello sovietico, la natura totalitaria, autoritaria e “di sopravvivenza” della Cuba castrista.
Si può discutere – e si continua, di fatto, a discutere – sulle vere origini di questo fenomeno. Vale a dire: su quanto i germi della dittatura che nei giorni della Baia dei Porci consolidò se stessa fossero, in realtà, fin dall’inizio parte del bagaglio ideologico del castrismo. Ma non v’è dubbio che, quali che siano i responsi di queste analisi, fu proprio in quei giorni che Cuba consolidò la sua alleanza con l’Unione Sovietica. Un’alleanza intesa non solo come reciproco supporto militar-diplomatico, ma come modello politico-economico-ideologico al quale ispirarsi ed al quale strategicamente unirsi – oltre i limiti del tempo e delle circostanze – con un legame di “inquebrantable amistad”, d’infrangibile e perenne amicizia, come poi scritto nella Costituzione di Cuba finalmente elaborata nel 1975. E fu sempre in quei giorni – giorni umilianti – che, per contro, gli Stati Uniti definirono la propria politica nei confronti dell’intera America Latina. O meglio: fu in quei giorni che rimodellarono sulla lezione della disfatta di Bay of Pigs una politica di predominio cominciata quasi un secolo e mezzo prima, nel 1825, con l’elaborazione della “dottrina Monroe”. Evitare una nuova Cuba sarebbe, da allora, divenuto l’obiettivo principale della strategia emisferica statunitense. Ed è di quella politica che sono figli la “Alleanza per il Progresso” e tutte le dittature militari che, di quel “progresso” – culminato negli orrori del “Plan Condor” – furono le vere portatrici negli anni ’60, ’70 e ’80.
La storia di Playa Girón è, a suo modo, assai semplice. E, sebbene raccontata in modi assai diversi sulle due contrapposte sponde dello Stretto della Florida, nasconde una sola verità. Alcuni dei vecchi sostenitori di Fulgencio Batista e molti cubani antibatistiani e democratici, spaventati dal radicale incedere della rivoluzione castrista, unirono le forze per una “soluzione militare” appoggiata dal grande vicino del nord. Lo stesso “grande vicino” (in quel 1961 ovviamente altrettanto spaventato dalle nazionalizzazioni e dalle ‘derive socialiste” del castrismo) che, all’inizio del secolo, aveva impedito che l’insurrezione anti-spagnola (l’ultima in ordine di tempo nelle Americhe) si trasformasse in piena indipendenza. Non erano molti (circa 1.500) quegli “amici della libertà”. Ed ancor meno libero era lo spicchio di mondo – il Nicaragua di Somoza – nelle cui paludi s’erano andati esercitando per preparare un’impresa che, sulla carta, era loro sembrata destinata ad una inevitabile vittoria.
Il piano era sbarcare a Cuba (cosa che pensavano di fare senza incontrare alcuna iniziale resistenza), stabilire una testa di ponte, creare un governo provvisorio ed invocare l’intervento degli Usa. Il luogo prescelto fu, per l’appunto la spiaggia di Bahia Cochinos, 150 chilometri al sud dell’Avana, separata dalla terra ferma dalle paludi della Ciénaga de Zapata, oltre la quale si trovava un piccolo aeroporto. L’elenco degli errori (alcuni da comica finale) commessi dagli invasori è, in effetti, molto lungo. Ma proprio questo fu l’errore degli errori: credere che fosse possibile, in pratica, vincere senza combattere, pensare che la rivoluzione castrista non fosse che un insignificante incidente di percorso lungo una Storia scandita, in una logica da protettorato coloniale, soltanto da gesti d’inevitabile ossequio verso gli Stati Uniti d’America. L’errore fu credere che bastasse l’appoggio del Golia statunitense per chiudere la partita. Non fu cosi. La Cuba di Fidel Castro non solo resistette (e vinse), ma fece della battaglia di Playa Girón il simbolo d’una nuova identità e di una nuova dignità nazionale nella quale una immensa maggioranza di cubani si riconobbe. Piaccia o meno quello che alla vittoria di Girón è seguito, piaccia o meno il modello di “socialismo di guerra” che sugli esiti della battaglia si è fondato, questa resta la verità storica. Una verità che la prima generazione dei cubani della diaspora – una generazione in via di biologica estinzione, ma ancora dominante sul piano politico – ancor oggi rifiuta di accettare. A Miami i reduci di Girón – quasi tutti finiti prigionieri e quasi tutti liberati da Castro nel ’62, in cambio di 50 milioni di dollari in medicine e derrate alimentari – vengono ancor oggi celebrati come martiri e come eroi, vittime della più classica delle “pugnalate alla schiena” (nel caso specifico: della decisione di John Kennedy di negare l’appoggio aereo agli invasori).
E qui viene la domanda di fondo. Quanto resta, oggi, di quella “piccola grande battaglia che cambiò la Storia delle Americhe”? Molto e poco allo stesso tempo. Poco perché, superata la logica della guerra fredda (e delle molte guerre o guerriglie calde che in quel contesto si combatterono) l’America Latina sembra finalmente avere imboccato – oltre il “decennio perduto” delle crisi economiche e delle nefaste cure anti-debito imposte dal Fmi – la strada d’una democrazia che si consolida. E, nel contempo, molto, perché pesanti restano le tracce ed i ricordi d’un trentennio (e passa) di violenze. Molto, soprattutto, perché, oltre la realtà dei ricordi, identico resta, a Cuba, il “modello” nato a Playa Girón. Ed identica rimane – alla luce d’un embargo ingiusto ed anacronistico – la politica degli Stati Uniti verso Cuba. Tutto è cambiato attorno a loro, ma – per ragioni diverse – Cuba e gli Stati Uniti continuano, da mezzo secolo, a combattere quella battaglia.
Barack Obama – che prima di candidarsi alla presidenza non aveva mai fatto mistero della sua opposizione all’embargo – aveva promesso di cambiare o, almeno, di cominciare a cambiare questo stato di cronico (e, per molti aspetti, grottesco) immobilismo. Ma – sensibile alle pressioni dei cubani di Miami – ha fin qui fatto pochissimo. E pochissime sono le indicazioni di autentico rinnovamento giunte dal VI Congresso del Partito Comunista di Cuba cominciato proprio nel giorno del 50esimo anniversario della battaglia.
Quando – ci si chiede – arriverà, finalmente, il giorno dell’armistizio? Quando le relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti – consegnata finalmente alla Storia la piccola grande battaglia di Bahia Cochinos – torneranno ad incontrarsi con la Storia?