Le cifre, di per sé orrende, ormai non rendono che una molto parziale idea della tragedia che scuote il Messico della “guerra alla droga”. A questo punto, infatti, non si tratta più soltanto di contare i morti (che sono, comunque, quasi 50.000 da quando, nel dicembre del 2006, il presidente Felipe Calderón ha deciso di mobilitare l’esercito contro i trafficanti di droga). Quelle che più colpisce, in questa guerra senza fronte e senza fine, è non solo quanta gente viene uccisa, ma come viene uccisa, è la macabra ritualità d’un massacro, la psicopatologia dei corpi smembrati e delle teste mozzate. Nella guerra tra i vari cartelli del crimine – in particolare quella tra gli “Zetas” ed il cartello di Sinaloa – non si ammazza più solo per eliminare il nemico. Si ammazza soprattutto per “mandare un messaggio”, all’intera società. Si ammazza – non importa chi, ma come – per fare paura a tutti. Si ammazza facendo scempio delle proprie vittime, sempre più spesso scelte a caso, perché la paura – e l’orrore che della paura è la fonte – è diventata un modo di vivere, la prova della propria “invincibilità”. Come uscire da questo incubo?